La crisi è quel momento in cui il vecchio muore e il nuovo stenta a nascere. Antonio Gramsci

venerdì 15 gennaio 2016

Lettera di una professoressa sulla scuola di oggi e sull'umanesimo sociale

di Daniela Mastracci
I ragazzi sono distratti. Non tutti, non sempre; ma la gran parte e spesso.
Credo si sappia quanto la scuola sia lontana dalla politica. E la scuola è il luogo e l’esperienza che più unisce i ragazzi, dalle periferie, al cuore delle città, ai paesi, alle campagne. E’ il tempo che più li coinvolge e assorbe.
Ma si sa, immagino, quanto ancor più lontana sia dalla politica la loro “vita reale”, che reale non è affatto, tanto meno autentica dal punto di vista della capacità critica di auto orientarsi nelle scelte. La virtualità delle chat, dei social, del web frequentato per il sentito dire, per gossip, per ridere di chi appare brutto, diverso, “strano”, ai margini, chi non rientra negli stereotipi introiettati e esibiti a volte anche con violenza verbale, con osceni linguaggi del corpo…
I ragazzi sono senz’anima. La possono avvertire confusamente, possono sentirla se scossa e dunque fremente; se quell’anima che non c’è pretende, con un gemito, di esistere. Un’anima trattenuta più che inesistente; compressa entro la fuggevolezza di un vivere tutto proteso ad esserci ad ogni costo, ad essere connessi, mai off line, mai indietro. Come se sfuggisse la vita stessa; se non leggere la notifica fosse mortifero; se vedere che non è stata letta la notifica fosse l’aut-aut esistenziale e relazionale più fondamentale….
Rifletto così, un po’ con amarezza, e un pò pessimista. Scrivo queste sparse considerazioni dopo 15 anni di insegnamento e le scrivo nonostante io sia una donna amata dai propri studenti. Mi si dice che riesco a parlare loro. Ad essere percepibile rispetto a codici che le diverse generazioni, tra loro, non condividono più. I ragazzi “mi vedono”, a volte mi guardano sorpresi, a volte come richiedendomi aiuto, a volte invece sfuggenti, estranei, quasi a domandare non cosa io voglia da loro, ma cosa loro stiano a fare lì, in una classe, di fronte a me, un’insegnante, un concetto, un evento, ma che cosa sono? Come e perché mi riguardano? Sembrano chiedere, a volte.
Mi si dice, ancora, che parlo la loro lingua avvicinandoli alla mia. Che il mio linguaggio è presso il loro, ma che, rovesciando il punto di vista, il loro linguaggio diventa pian piano vicino al mio. Si intravede uno sforzo, un tentativo, e poi un giorno loro, i ragazzi, si esprimono con parole che non avrebbero prima mai pronunciato, non erano nel loro codice; parole come si suol dire “tecniche” ma ben lungi dall’insegnare la tecnica, lo stupore di ascoltarle da loro sta nel fatto che quei termini significhino appropriazione del mondo, comprensione dentro categorie che non possedere vuol dire non capire, non essere protagonisti dello stare al mondo ma subirlo perché non chiamare le cose con il loro nome vuol dire perdersi entro una selva oscura di lessico e sintassi che escluda anziché appartenerci: come una lingua matrigna e non madre. Con l’aggravante che la lingua matrigna domina indisturbata.
Ho imparato, però, essendo insegnante, vivendo con tutta me l’essere con i miei studenti, che l’erotica della comunicazione li sa scuotere almeno un po da un torpore che sembra esistenziale.
Perché i ragazzi sono chiusi e prigionieri entro l’immediatezza dell’essere qui e ora; entro il consumo di ciò che vogliono e quando lo vogliono; non conoscono l’attesa, il differimento, la necessità della conquista, l’indifferibilità del progettarsi.
E allora hanno bisogno della comprensione del loro poter essere. Soltanto dopo potranno concepirsi dentro una società di cui siano attivi protagonisti, depositari di sovranità. Allora la loro vita non sarà più lontana dalla politica.
Hanno ragione gli autori del libro “Manifesto per la Sinistra e l’Umanesimo sociale” ad immaginare un mondo altro dall’esistente e onnivorante presente. A immaginarlo però a condizione, imprescindibile, che si ricostruisca una cultura politica. Io direi una cultura, prima ancora che politica, come educazione all’esercizio della coscienza, della riflessione, del saper sé, del riconoscimento, della relazione io-mondo, dell’uscita dalla minorita’, come direbbe Kant, e soprattutto della consapevolezza che il diritto di essere ciò che si pensa di essere già, cioè liberi, è un diritto da conquistare di nuovo e sempre . Mai scontato. Mai sconfinato.
E per ultimo dico: occorre la cultura della Libertà entro limes, laddove è proprio il limite a farci vedere il campo del lecito; dove è la definizione dell’illecito a garantire la comprensione e la interiorizzazione del lecito, del “si può” piuttosto del “non si può”; laddove il No è la rete di protezione rispetto all’ anything goes che, anziché liberi, rende schiavi del consumare, abusare, distruggere; perché i ragazzi pensano che la libertà sia “si può fare ciò che si vuole” e il sistema lo avalla, rende tutto alla portata, tutto afferrabile e manipolabile, tutto sostituibile, tutto indifferente. Una libertà così è solo funzionale al sistema, a quel Mercato che assoggetta tutti a meno che la critica metta distanza, si frapponga fra soggetto e oggetto e ce lo faccia guardare come un risultato di un movimento storico, politico, economico, umano e perciò stesso non assoluto, non trascendente, non indiscutibile, non immodificabile. Se recuperiamo la critica ma soprattutto se la insegniamo ai ragazzi allora forse sì che si potrà pensare al mutamento dello status quo. Perché i ragazzi paradossalmente pensano di essere liberi di fare tutto ma hanno invece una percezione dogmatica del governo e del potere: di fronte a questi pensano che governo e potere siano immodificabili, che le cose così come stanno non potranno cambiare, e che “tanto i politici sono tutti uguali”….(alcuni miei studenti non credono al voto e non vanno a votare; le discussioni in proposito diventano esasperanti)
Ritengo che il torpore, l’abulia, così come il credere di sapere, quando invece è il sentito dire a imperare, siano il problema più grave rispetto alla Sinistra che vogliamo, che crediamo e vogliamo continuare a credere che possa cambiare il mondo, non abbassando più la guardia; immaginando scenari percorribili per quell’Umanesimo sociale che rimetta al centro non l’essere umano generico ma l’essere umano oggi, entro un sistema economico che dà linfa a se stesso mediante il pensiero unico.

Fonte: Esseblog

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