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di Francesca R. Recchia Luciani
La Shoah come fenomeno pop
Nel 1986 Primo Levi ne I sommersi e i salvati, celebre raccolta di metariflessioni intorno alla propria esperienza di ex deportato e di testimone (testimone dell’“intestimoniabile”, sottolineerà Agamben[1]), descrive (in un capitolo intitolato significativamente “Stereotipi”) la progressiva “spaccatura che esiste, e che si va allargando di anno in anno, fra le cose com’erano ‘laggiù’ e le cose quali vengono rappresentate dalla immaginazione corrente, alimentata da libri, film e miti approssimativi”, che – continua – “fatalmente, slitta verso la semplificazione e lo stereotipo”.
A questa “deriva”, come egli la definisce, va posto un argine non soltanto nella misura in cui è determinata da un considerevole quanto ricorrente deficit d’immaginazione, che si rivela nel contatto con “la percezione del passato prossimo” o “delle tragedie storiche”, ma soprattutto perché è il sintomo, altrettanto diffuso e comune, “della nostra difficoltà o incapacità di percepire le esperienze altrui, che è tanto più pronunciata quanto più queste sono lontane dalle nostre nel tempo, nello spazio o nella qualità”[2].
Si tratta, a quanto pare, di un difetto costitutivo di quella facoltà che, con Hannah Arendt e attraverso la sua puntuta disamina della critica kantiana del giudizio nella sua relazione con l’immaginazione[3], potremmo definire percezione immaginativa o immaginazione percettiva, che generalmente limita e riduce la nostra capacità di giungere a una comprensione profonda e reale di tali esperienze ad una facilitante assimilazione ermeneutica a quelle che Levi, nello stesso passo, definisce “viciniori”, cioè a cose ed eventi a noi più familiari, già visti, conosciuti, appresi.
Levi, pertanto, proprio allo scopo di arginare tale deriva riduttivistica, semplificante e stereotipizzante della comprensione immaginativa ed empatica assegna allo storico (metodologicamente avvertito, dovremmo aggiungere, come raccomandava già Max Weber opponendosi al pregiudizio che concepisce la storia come “mera raccolta di fatti”) il difficile compito di “scavalcare questa spaccatura, che è tanto più ampia quanto più tempo è trascorso dagli eventi studiati”[4].
Solo fatti storici, contenuti di verità fattuale, conoscenze puntuali e documentate capaci di assecondare quell’“impazienza assoluta di un desiderio di memoria” cui allude Derrida nella sua illuminante conferenza del 1994 sul Mal d’archivio[5]possono neutralizzare i rischi insiti in questa assimilazione ermeneutica intrisa di riduttivismo epistemologico che plasma modelli interpretativi semplificati e standardizzati riconducendo all’hic et nunc un’Auschwitz addomesticata da un immaginario prêt-à-porter. Forzatura ermeneutica e corrispondente limite gnoseologico che, non certo a caso, venivano rilevati e denunciati prima da Arendt e poi da Levi molti decenni fa, ancor prima che si dispiegasse compiutamente l’immenso potere dell’industria culturale che ha tradotto la propria egemonia in paradigmi (pseudo)culturali di massa sempre più aggressivi e dominanti. Sviluppo peraltro previsto da Theodor W. Adorno e dagli altri filosofi della Scuola di Francoforte, ripreso da Foucault rilevando l’intreccio indissolubile tra sapere e potere, messo nuovamente a tema, in chiave oppositiva e con lo sguardo rivolto alle culture minoritarie e subalterne, dai teorici dei Cultural Studies come Stuart Hall.
Oggi che questa egemonia culturale della rappresentazione si mostra nella deriva cognitiva e semantica prodotta dall’infinità di immagini della popular culture, che sono venute progressivamente e in misura esponenziale ad affollare il nostro immaginario collettivo intorno alle pratiche lageriste e genocidiarie naziste (una sorta di oscena reductio ad spectaculum[6]), suona di straordinaria attualità la raccomandazione metodologica con cui Primo Levi va a concludere la sua riflessione intorno alla standardizzazione interpretativa relativa alla Shoah. Occorre, egli dice, “guardarsi dal senno del poi e dagli stereotipi. Più in generale, bisogna guardarsi dall’errore che consiste nel giudicare epoche e luoghi lontani col metro che prevale nel qui e nell’oggi: errore tanto più difficile da evitare quanto più è grande la distanza nello spazio e nel tempo”[7].
Lo scarto temporale rispetto a quegli eventi oggi è avvertito in misura maggiore anche per via delle caratteristiche che attribuiamo alla cosiddetta “era della postmemoria”, vale a dire al nostro presente storico inteso come epoca dell’imminente scomparsa degli ultimi testimoni diretti degli stermini eseguiti dai nazisti[8]. Per di più la nostra è, anche e allo stesso tempo, come avverte Daniele Giglioli, l’“epoca del trauma senza trauma: meglio ancora, del trauma dell’assenza di trauma”[9], proprio nella misura in cui si situa a distanza di sicurezza da quella immane catastrofe collettiva che avvertiamo ormai come irrimediabilmente appartenente al passato e alla memoria.
Tutto ciò si colloca nell’ambito delle conseguenze, o meglio degli effetti perversi, del rapace impossessamento che l’industria culturale ha operato rispetto al tema della Shoah, egemonizzandolo e traducendolo, tramite un’ampia e diversificata pluralità di media e codici linguistici, in infinite varianti simboliche che sono giunte a costituirla comefenomeno pop. Per cui, in relazione agli accadimenti storici in quanto tali e alla loro connaturata “enormità”, che trascolora per ciò stesso nella “non credibilità” (come ripetutamente hanno sottolineato sia Levi[10] che Arendt[11]), la stessa industria culturale incorre nella tentazione, da un lato di sostituire la verità con la verosimiglianza, dall’altro di surrogare la qualità delle conoscenze con la quantità delle informazioni e delle immagini. E per tal via s’illude di colmare quello scarto temporale tra passato e presente, ma in sostanza continua ad approfondirlo e con esso a dilatare ulteriormente quella “spaccatura” constatata da Levi tra la realtà abnorme degli eventi di settant’anni fa e la loro deriva pop (da lui intuita ante litteram) che si concretizza nell’attuale rappresentazione plastica, ora edulcorata, ora banalizzata o estetizzante, più spesso, sic et simpliciter, erronea e falsa.
In questa temperie culturale, determinata dall’alleggerimento pop dei contenuti di conoscenza storica e di senso, si è di fatto dilatata un’egemonia linguistica che oscilla pericolosamente tra due estremi: da un lato, la ritualizzazione liturgica e autocompiaciuta del Giorno della memoria, dall’altro, gli ipocriti revisionismi e le falsificazioni storiografiche che si spingono sino al negazionismo[12]. Tale koinè è l’oggetto di preoccupazioni non solo di ordine storico, ma anche filosofico, poiché essa è la forma contemporanea ed estesa di quella deriva del significato, e in qualche modo dello stesso snaturamento ontologico, dell’insieme complesso degli elementi che compongono la Shoah di cui Levi additava l’evidenza già negli anni Ottanta.
La Shoah nella “società dello spettacolo”
Quelle cui assistiamo oggi rappresentano, in un certo senso, estremizzazioni del graduale e insieme inarrestabile slittamento subito dall’“universo simbolico Shoah”, che l’ha condotto nel giro di pochi decenni dalla generalizzata afasia dei testimoni a lambire i bordi indefiniti del discorso pubblico (dalla fine della Seconda guerra mondiale più o meno sino all’uscita nel 1978 di Holocaust, miniserie televisiva americana diretta da Marvin J. Chomsky, e poi dell’opera-monstre di Claude Lanzmann, Shoah, del 1985); per deflagrare nello spazio mediatico della cultura popolare con due opere cinematografiche: Schindler’s List di Steven Spielberg del 1993 e La vita è bella di Roberto Benigni del 1997; giungendo infine all’istituzionalizzazione roboante, sempre più spesso cerimoniale e ritualistica invece che attenta ai contenuti, di una memoria pubblica condivisa (ricordiamo in proposito che è la stessa Assemblea generale delle Nazioni Unite del 1º novembre 2005 con la risoluzione 60/7 a indire per il 27 gennaio la Giornata della Memoria come ricorrenza internazionale, peraltro già istituzionalizzata da decenni in USA e da qualche anno in molti paesi europei, tra cui l’Italia con una legge del 2000).
Questo processo che, con tutta evidenza, ha modificato radicalmente la natura dell’approccio conoscitivo all’evento storico “Shoah”, l’ha di fatto trasformato da ultimo nell’oggetto culturale disseminato e invasivo, nell’icona pop e nel simulacro mediatico che colonizza, soprattutto nelle ricorrenze memoriali, l’immaginario collettivo. Ciò spiega, per certi versi, il paradosso cui si riferisce Giglioli quando scrive che la Shoah, ha da tempo smesso di essere “ciò di cui non si può parlare”, divenendo all’opposto “tutto ciò di cui si parla. Da eccesso che non poteva giungere al linguaggio ad accesso privilegiato alla nominazione del mondo”[13].
A lungo avvolta nel sacro silenzio dell’evento indicibile (e perciò stesso costitutivamente indescrivibile, invisibile, impensabile), in seguito alla progressiva erosione di tale status primitivo, la Shoah è stata sottoposta ad un’inarrestabile demitizzazione che ha avuto come prevedibile conseguenza la caduta dell’aura, per molto tempo per l’appunto quasi sacrale, di ir-rappresentabilità che aveva costituito in passato una vera e propria interdizione della rappresentazione[14]. Dal momento in cui i testimoni diretti hanno perso l’esclusiva del racconto, della narrazione e della descrizione è stata ipso facto accolta la possibilità di una sua traducibilità in visioni, immagini, suggestioni, allusioni, metafore. Questa nuova condizione non ha soltanto lasciato campo libero alle forme espressive, ai codici linguistici, alle espressioni artistiche plurali dell’industria culturale, nei fatti ha consegnato la Shoah ad una massiccia opera di mediatizzazione e alla sua consequenziale trasformazione in merce di consumo, oggetto culturale spendibile sul vasto mercato globale reso, in qualche occasione, a tal punto annacquato e perciò stesso digeribile da neutralizzarne la portata di tragedia storica irredimibile che illumina con la sua luce sinistra il grado zero dell’umanità.
In altre parole, la Shoah sussunta nel dominio dello spettacolo generalizzato e della comunicazione virale, ha cominciato a perdere progressivamente la densità evenemenziale del fatto antropologico e storico in sé, cioè di archi-evento che più incisivamente di ogni altro connota la storia europea del XX secolo, catastrofe umanitaria mai registrata prima per le modalità singolari con cui è stata pensata e realizzata, per le conseguenze irrimediabili e permanenti sulla storia successiva del continente e dell’intera umanità. Tale processo, che ha prodotto una metamorfosi della memoria del genocidio ebraico trasformandola in oggetto simbolico-culturale a tutto tondo, del quale si fa l’uso e l’abuso che si vuole nel regime incontrastato delle immagini, oltre ad incoraggiare una conoscenza del tutto superficiale dei fatti storici, rischia di depotenziarne anche l’imprescindibile valenza antropologica ed etica. Di fatto attualmente la Shoah, più che appannaggio della scienza storica, sembra dominata dalla logica perversa implicata dal nesso mercificazione/consumismo culturale, che giunge fatalmente a stritolarla nell’intreccio tra abnorme mediatizzazione, mode banalizzanti, trivializzazioni retoriche, esasperazioni ed eccessi pop, fino agli estremismi manipolatori che, con una certa furia iconoclasta che ha fondamenti ideologici, si spingono a falsificazioni pseudo-revisioniste e a negazionismi nostalgici.
Prendere atto di questa metamorfosi ancora in corso è un compito culturale che, lungi dal racchiudere un giudizio moralistico sulle forme della rappresentazione, implica però una preoccupazione d’ordine storico e filosofico che richiama a un impegno critico e a un lavoro ermeneutico-decostruttivo intorno ai meccanismi di metabolizzazione attivati dall’industria culturale per rendere merce universalmente consumabile la Shoah. Esempi di tali meccanismi sono l’uso sempre più frequente di essa come figura retorica ready-made o persino come mera ambientazione, se non addirittura come posticcia scenografia di mediocri e/o ordinarie narrazioni (romanzi, film, fumetti, produzioni mediatiche o artistiche) che nulla hanno a che fare con essa.
In primo luogo occorre constatare che questo processo e certi suoi esiti estremi sono il frutto avvelenato – non certo il solo, ma uno dei più significativi e spiazzanti – di quella medesima “società dello spettacolo” che nel celebre saggio omonimo Debord descrive come universo totalizzante in grado di esautorare ed estinguere in sé il senso stesso della realtà nella misura in cui “tutta la vita delle società nelle quali predominano le condizioni moderne di produzione si presenta come un’immensa accumulazione di spettacoli. Tutto ciò che era direttamente vissuto si è allontanato in una rappresentazione”[15].
Il circolo ermeneutico, in questo distanziamento siderale dal vero che è la degenerazione della rappresentazione contemporanea come finzione pura, diventa circolo vizioso perché nell’universo comunicativo ipermediale lo spettacolo si rivela per quello che è: non “un insieme di immagini, ma un rapporto sociale fra individui, mediato dalle immagini”[16], come aveva profeticamente intuito Debord già nel 1967, ovvero ai tempi in cui lo “spettacolare diffuso”, vale a dire la spettacolarizzazione illimitata dell’esistente veicolata dal mercato e dal consumismo, era ancora ai suoi albori.
Proprio questo meccanismo che sposta lo sguardo e la relazione d’interesse dai soggetti degli eventi alla loro condizione di oggetti, quando non propriamente di merci, genera la tendenza a rimpiazzare la testimonianza con la sua elaborazione estetizzante, fantasiosa, immaginifica, insomma a tramutarla in nient’altro che una rappresentazione, un’immagine, una metafora, un feticcio, un simbolo.
Gli esercizi di memoria che la Shoah esige implicano una battaglia su due fronti: su un versante contro l’oblio indotto dall’incessante divenire storico, sull’altro contro le pigrizie della facoltà immaginativa, poiché la partita in gioco è lapresentificazione di un’assenza, di un rimosso, di una lacuna e di un intestimoniabile, proprio perché, come ricorda Levi, iltestimone integrale, “chi ha visto la Gorgone”, non può deporre, in quanto “non è tornato per raccontare, o è tornato muto”[17]. Superare l’interdizione della rappresentazione dello sterminio significa, dunque, porsi l’interrogativo che solleva Jean-Luc Nancy: “come far venire alla presenza ciò che non è nell’ordine della presenza?”[18]. “La rappresentazione non presenta quindi soltanto qualcosa che è assente di diritto o di fatto, ma presenta ciò che è assente dalla presenza pura e semplice, il suo essere in quanto tale, il suo senso o la sua verità”[19].
Tuttavia oggi, nell’età della superfetazione di produzione rappresentativa e della potenza dispiegata della mimesi, il vuoto di “presenza” incarnato da Auschwitz in quanto ambito dell’ir-rappresentabile – o anche come condizione di pensabilità della “crisi ultima della rappresentazione”[20] – rischia di andare incontro ad una nuova rimozione, più subdola, quella della rappresentabilità totale, della mimesi esaustiva. In altre parole, nell’immaginario contemporaneo globale sottoposto al regime spettacolare e al monopolio delle immagini mediatiche la definitiva caduta del tabù dell’irrapresentabilità intrinseca dello sterminio (declinata ora come “impossibilità”, ora come “illegittimità”[21]) può ribaltarsi nel suo contrario, ovvero in autocompiacimento estetizzante, in vana banalizzazione, in pornografia dell’orrore.
La Shoah, idealtipo del male
Hannah Arendt, nelle Origini del totalitarismo, replicando a Bataille che in un articolo dedicato all’industrializzazione forzata sovietica uscito nel 1948 su “Critique” aveva giudicato “superficiale” l’“indugio sugli orrori”, scriveva che “solo l’angosciata immaginazione di chi è stato infiammato da tali resoconti, ma non direttamente ferito nella propria carne […], può permettersi di indugiare e riflettere sugli orrori”.[22] Pratica questa peraltro da lei considerata “indispensabile” per comprendere il male estremo dei Lager e del regime totalitario che li ha istituiti, proprio in quanto gli uni e l’altro rappresentano una vera e propria sfida ermeneutica per le scienze umane e storiche tradizionali, dotate come sono di una strumentazione epistemologica e di un set criteriale e valoriale limitati.[23] “Indugiare sugli orrori” si rivela dunque un utile supporto all’immaginazione, alla quale Arendt assegna il ruolo fondamentale di unico dispositivo ermeneutico-conoscitivo in grado di dissolvere le nebbie dell’“irrealtà” che hanno avvolto a lungo le “fabbriche della morte”[24].
Nell’epoca della Shoah spettacolarizzata e della sua sovrapproduzione iconica seriale l’esercizio dell’“indugiare sugli orrori” rischia invece di divenire una prassi estetizzante del tutto autoreferenziale, priva di autentico valore ermeneutico-cognitivo, aperta al rischio della deformazione (Nancy in questi casi parla di una “figurazione [che] sembra regolarsi sulla sfigurazione”[25]), ma soprattutto capace di orientare la facoltà immaginativo-produttiva verso scopi per lo più puramente esornativi. Georges Didi-Huberman afferma che “per sapere occorre immaginare”, cioè soddisfare con le immagini la fame di conoscenza, compiere uno sforzo empatico ed immaginifico necessario per guardare e concepirel’orrore, ma al contempo avverte che le immagini “diventano preziose per il sapere storico a partire dal momento in cui vengono messe in prospettiva in certi montaggi d’intelligibilità”[26], venendo così ad assumere per noi un senso compiuto e un significato antropologico ed etico che non indulga al moralismo.
Se la razionalità precipua del fatto artistico come artificio di finzione sta nel suo corrispondere a criteri di verosimiglianza e adeguatezza, piuttosto che di autenticità e necessità, occorre prendere atto che, come afferma Rancière, “il regime rappresentativo dell’arte non è quello in cui l’arte ha per compito di produrre delle somiglianze”, anche perché “questa separazione tra la ragione delle finzioni e la ragione dei fatti empirici è uno degli elementi essenziali del regime rappresentativo”[27]. Riconoscendo questa differenza tra verità e finzione, che è la medesima che passa tra fatto storico e sua riproduzione artistica, si depotenzia l’enfasi moralistica del giudizio sui contenuti veritativi o empirici delle espressioni estetiche, al di là delle loro oggettive inclinazioni pletoriche o delle loro esuberanze retoriche. Ciò non toglie che la creatività artistica, l’immaginazione produttiva non possono né assoggettare né sostituirsi alla conoscenza storica e fattuale, soprattutto quando l’oggetto in questione è Auschwitz, paradigma negativo di “validità esemplare” (direbbe Arendt), idealtipo rovesciato, “metonimia del male assoluto”[28].
Questo non comporta un ridimensionamento dell’importanza dell’immaginazione nel processo conoscitivo, dell’apporto di quel che Arendt con Kant chiamava “pensare largo”, quanto piuttosto la consapevolezza che, come sostiene ancora Didi-Huberman, “per sapere (per sapere e conoscere questa storia dal luogo e dal tempo in cui ci troviamo oggi) occorreimmaginarsi. E mettere in gioco il soggetto nell’esercizio del vedere e del sapere significa anzitutto procedere con cautela epistemologica e valoriale: non si può separare l’osservazione dall’osservatore. […] L’immagine, nel senso antropologico del termine, sta al centro della questione etica”[29].
Il perimetro della “questione etica” è allora, al di là della cultura di massa mercificata e della colonizzazione pop dell’immaginario globale che ha arruolato la Shoah nel sistema simbolico-culturale delle arti e dei media, quello tracciato intorno a ogni soggettività nella singolarità autoriflessiva della propria coscienza pensante che si rivela a se stessa nel dialogo socratico del “due-in-uno” arendtiano[30]. Ed è in quella medesima sede che si dà la possibilità etica di sviluppare un’immaginazione empatica che sulla roccia della conoscenza storica eriga una presa di coscienza collettiva e la responsabilità politica necessaria alla convivenza sociale.
A partire dai totalitarismi novecenteschi, e in particolare dal nazismo genocidario e sterminazionista, è stato possibile mettere a punto una tassonomia e una fenomenologia del male che gli esseri umani possono infliggere agli altri esseri umani, che lo ha visto declinato come male assoluto, totale, estremo, radicale, ma anche banale, ordinario, normale. Questo ha reso idealtipica la Shoah, ma anche estremamente popolare, e infatti, dinanzi ad una Auschwitz spettacolarizzata, commercializzata e pop, nell’epoca del massimo dispiegamento del marketing memoriale e della cosiddetta “americanizzazione della Shoah”, il rischio è la sua trasformazione in “mito d’oggi”. Come già avvertiva Roland Barthes le “rappresentazioni collettive” sono “sistemi di segni”, dunque solo una “semioclastia” può decostruire la “mistificazione che trasforma la cultura piccolo-borghese in natura universale”[31], o, mutatis mutandis, la cultura di massa in pseudo-conoscenza storica. Ed è proprio questa deriva che istituisce la Shoah come mito, desemantizzandola e risemantizzandola ad uso e consumo di chi concepisce la sfera pubblica come coincidente con l’entertainment o – peggio ancora – con l’ideologia, che va smascherata per evitare che gli “abusi di memoria”[32] che nel suo nome vengono compiuti ne occultino progressivamente la verità storica e il significato antropologico ed etico.
Il veto adorniano relativo all’impossibilità di poetare dopo Auschwitz (peraltro da lui stesso smentito nella Dialettica negativa) si è ribaltato nella società dello spettacolo e della comunicazione in diktat commerciale che ne impone la mercificazione e la mitologizzazione come rappresentazione culturale collettiva, e che in quanto tale resta sempre soggetta a forme di riduzionismo banalizzante, di relativizzazione del dato fattuale, di minimizzazione dei suoi contenuti storici. L’espressione “industria dell’Olocausto”, pur nella sua ambiguità[33], nomina un fenomeno vistoso ed endemico della contemporanea società di massa, ma in qualche modo fa riecheggiare una questione che proprio Adorno e i francofortesi avevano posto al centro della propria riflessione, vale a dire, quella del ruolo della cultura e dell’arte nell’età della loro industrializzazione. Proprio in relazione a questo, Adorno scrive:
Auschwitz ha dimostrato inconfutabilmente il fallimento della cultura. Il fatto che potesse succedere in mezzo a tutta la tradizione della filosofia, dell’arte e delle scienze illuministiche, dice molto di più che essa, lo spirito, non sia riuscito a raggiungere e modificare gli uomini. In quelle regioni stesse con la loro pretesa enfatica di autarchia, sta di casa la non verità. Tutta la cultura dopo Auschwitz, compresa la critica urgente ad essa, è spazzatura[34].
Dopo una visita ad Auschwitz-Birkenau, nel corso della quale constata che una baracca del campo è stata trasformata in stand commerciale, Georges Didi-Huberman osserva: “Auschwitz come Lager, luogo di barbarie, è stato trasformato in luogo di cultura, Auschwitz come ‘museo di Stato’”. E tuttavia ciò, lungi dal sollecitare un giudizio moralistico, lo spinge a riflettere intorno al fatto che altre forme culturali del tutto diverse hanno anche attivamente contribuito a produrre Auschwitz (per esempio, la “cultura antropologica e filosofica” della razza, la “cultura politica” del nazionalismo, la “cultura estetica” che distingueva tra arte ariana e arte “degenerata”), il che lo conduce ad affermare: “La cultura non è quindi la ciliegina sulla torta della storia: è ancora e sempre un luogo di conflitti nel quale la storia stessa assume forma e visibilità nel cuore delle decisioni e delle azioni, per quanto ‘barbare’ o ‘primitive’ possano essere”[35].
La frattura spazio-temporale e assiologica che si apre tra Auschwitz “luogo di barbarie” e Auschwitz “luogo di cultura” è la stessa che ci lascia sgomenti dinanzi alle baracche del Lager trasformate in luoghi espostivi e che pone l’interrogativo: “Ma che cosa dire quando Auschwitz deve essere dimenticata nel suo luogo reale per costituirsi come luogo fittizio destinato a ricordarsi di Auschwitz?”[36].
Nel caso della Shoah questa lacerazione tra quel che è stato e quel che è, ma anche tra il vero e il falso, tra storia e fiction, nonché l’incommensurabilità consustanziale di queste contrapposizioni, segnala uno spazio vuoto in cui porsi la domanda radicale relativa ai margini di sconfinamento e contiguità tra cultura e barbarie, così spesso molto più affini di quanto non siamo disposti ad ammettere. Di sicuro il silenzio su Auschwitz non è mai auspicabile, ma va riaffermata la necessità che quell’universo dell’orrore non venga colonizzato dall’entertainment che si nutre parassitariamente e a scopo mercantile di qualunque tragedia, non sia travolto dalle rutilanti luci dello show-business, non naufraghi nell’oceano vacuo e osceno della “chiacchiera”[37].
George Steiner ci invita a riflettere sul fatto che la più estrema esperienza di disumanizzazione moderna è stata realizzata sul continente europeo, il che implica la necessità di maturare […] una comprensione delle radici filosofiche, politiche ed estetiche del disumano, del paradosso per cui la moderna barbarie scaturì, in una qualche maniera segreta, forse necessaria, dal cuore stesso della civiltà umanistica. Noi veniamo dopo. Adesso sappiamo che un uomo può leggere Goethe o Rilke la sera, può suonare Bach e Schubert, e quindi, il mattino dopo, recarsi al proprio lavoro ad Auschwitz.
Se da ciò è facile dedurre che la cultura non è stata quella “forza umanizzatrice”[38] a cui per secoli nella storia occidentale è stata affidata la missione di sconfiggere la barbarie, nell’età post-testimoniale della cultura massificata e dello “spettacolare integrato” l’avvenire di quella illusione appare ancora più incerto.
[1] G. Agamben, Quel che resta di Auschwitz. L’archivio e il testimone, Torino, Bollati Boringhieri, 1998.
[2] P. Levi, I sommersi e i salvati, Torino, Einaudi, 1986, p. 128 (corsivi miei). Su una articolazione ulteriore della tematica dell’empatia in relazione alla comprensione della Shoah mi permetto di rinviare a F. R. RECCHIA LUCIANI, “La cognizione del dolore”. Descrivere immaginare rappresentare la sofferenza altrui, in P. Coen e C. Ferranti (a cura di), Figli della memoria, Macerata, Eum, 2014, pp. 221-230.
[3] H. Arendt, Teoria del giudizio politico. Lezioni sulla filosofia politica di Kant, con un saggio di R. Beiner, trad. it. di C. Cicogna e M. Vento, Genova, il melangolo, 2005.
[4] P. Levi, I sommersi e i salvati, cit., p. 128 (corsivi miei).
[5] J. Derrida, Mal d’archivio. Un’impressione freudiana, trad. it., Napoli, Filema, 2005, p. 3.
[6] L’assonanza cercata è con il sintagma “reductio ad Hitlerum” coniata già negli anni Cinquanta da Leo Strauss per evidenziare l’abusato escamotage retorico che prova a mettere a tacere l’avversario dialogico paragonandolo ad Hitler o al nazismo.
[7] P. Levi, I sommersi e i salvati, cit., p. 135.
[8] Cfr. D. Bidussa, Dopo l’ultimo testimone, Einaudi, Torino, 2009 e Id., L’era della postmemoria, Roccafranca (BS), Massetti Rodella ed., 2012.
[9] D. Giglioli, Senza trauma, Macerata, Quodlibet, 2011, p. 7.
[10] P. Levi, I sommersi e i salvati, cit., p. 4.
[11] H. Arendt, Le origini del totalitarismo, trad. it. di A. Guadagnin, Torino, Einaudi, 2004, pp. 600-601.
[12] Cfr. C. Vercelli, Il negazionismo. Storia di una menzogna, Roma-Bari, Laterza, 2013 e F. R. Recchia Luciani e L. Patruno,Opporsi al negazionismo. Un dibattito necessario tra filosofi, giuristi e storici, Genova, il melangolo, 2013.
[13] D. Giglioli, Senza trauma, cit., p. 8.
[14] J.-L. Nancy, La rappresentazione interdetta, in Id., Tre saggi sull’immagine, trad. it. di A. Moscati, Napoli, Cronopio, 2011.
[15] G. Debord, La società dello spettacolo, trad. it. di P. Salvadori e F. Vasarri, Milano, Baldini & Castoldi, 2004, p. 53.
[16] Ivi, p. 54. Corsivi miei.
[17] P. Levi, I sommersi e i salvati, cit., p. 64.
[18] J.-L. Nancy, La rappresentazione interdetta, cit., p. 65.
[19] Ivi, p. 68.
[20] Ivi, p. 64.
[21] Ivi, p. 55.
[22] H. Arendt, Le origini del totalitarismo, trad. it. cit., p. 604. Sul significato della critica di Arendt a Bataille si veda F. Fistetti, L’epoca dei totalitarismi è davvero finita? Una rilettura di Hannah Arendt, Introduzione a H. Arendt, L’immagine dell’inferno. Scritti sul totalitarismo, ed. it. a cura di F. Fistetti, Roma, Editori Riuniti, 2001, pp. 7-96.
[23] La centralità indiscussa del Verstehen (“comprendere”) in relazione ai fenomeni politici è testimoniata in numerosissimi scritti di Arendt tra i quali segnaliamo: Comprensione e politica (le difficoltà del comprendere) e La natura del totalitarismo: un tentativo di comprensione, in Ead., Antologia. Pensiero, azione e critica nell’epoca dei totalitarismi, trad. it. di P. Costa, Milano, Feltrinelli, 2006, pp. 107-159.
[24] H. Arendt, Le tecniche della scienza sociale e lo studio dei campi di concentramento, in Ead., L’immagine dell’inferno. Scritti sul totalitarismo, trad. it. cit., pp. 111-131.
[25] J.-L. Nancy, La rappresentazione interdetta, trad. it. cit., pp. 87-88, in proposito cita, a mo’ d’esempio, tre film: Il portiere di notte di L. Cavani, La scelta di Sophie di A. Pakula, Train de vie di R. Mihaileanu.
[26] G. Didi-Huberman, Immagini malgrado tutto, trad. it. di D. Tarizzo, Milano, Raffaello Cortina ed., 2005, pp. 15 e 198.
[27] J. Rancière, Il destino delle immagini, trad. it. di D. Chiricò, Cosenza, Pellegrini Editore, 2007, p. 170.
[28] “Poiché se Auschwitz è diventato la metonimia del male assoluto, la memoria della Shoah è diventata, bene o male, il modello di costruzione della memoria, il paradigma a cui quasi dovunque si fa riferimento per analizzare il passato o per tentare di installare nel cuore stesso di un evento storico che si svolge sotto i nostri occhi, come di recente il caso della Bosnia, e che non è ancora divenuto storia, le basi del futuro racconto storico”. In .A. Wieviorka, L’era del testimone, trad. it. di F. Sossi, Milano, Raffaello Cortina ed., 1999, p. 16.
[29] G. Didi-Huberman, Immagini malgrado tutto, trad. it. di D. Tarizzo, Milano, Raffaello Cortina ed., 2005, pp. 199.
[30] H. Arendt-J. Fest, Eichmann o la banalità del male. Intervista, lettere, documenti, a cura di U. Ludz e T. Wild, ed. it. a cura di C. Badocco, Firenze, Giuntina, 2013, pp. 48-49.
[31] R. Barthes, Miti d’oggi, trad. it. di L. Lonzi, Torino, Einaudi, 1974, p. VII.
[32] V. Pisanty, Abusi di memoria. Negare, sacralizzare, banalizzare la Shoah, Bruno Mondadori, Milano, 2012.
[33] Il sintagma si è diffuso sin dal 2001 come titolo di un saggio di N. Finkelstein (L’ industria dell’Olocausto. Lo sfruttamento della sofferenza degli ebrei, trad. it. di D. Restani, R. Zuppet, C. Balducci, Milano, Rizzoli, 2004) che, tuttavia, è stato scritto con scopi diversi da quelli che sono al centro di questo saggio.
[34] Th. W. Adorno, Dialettica negativa, trad. it. di C. A. Donolo, Torino, Einaudi, 1975, p. 331.
[35] G. Didi-Huberman, Scorze, trad. it. di A. Trocchi, Roma, Nottetempo, 2014, pp. 19-20.
[36] Ivi, p. 25.
[37] Forse fa specie citare proprio l’antisemita Heidegger a questo proposito, tuttavia nel § 35 di Essere e tempo dedicato al tema se ne può leggere una delle definizioni più appropriate rispetto agli abusi contemporanei intorno alla narrazione della Shoah: “La chiacchiera è la possibilità di comprendere tutto senza alcuna appropriazione preliminare della cosa da comprendere” (ed. it. a cura di F. Volpi, trad. it. di P. Chiodi, Milano, Longanesi, 2001, p. 207).
[38] G. Steiner, Linguaggio e silenzio. Saggi sul linguaggio, la letteratura e l’inumano, trad. it. di R. Bianchi, Milano, Garzanti, 2001, pp. 9-10.
Esce in questi giorni, per Il Melangolo, il volume collettivo Pop Shoah? Immaginari del genocidio ebraico, a cura di Francesca R. Recchia Luciani e Claudio Vercelli. Negli ultimi decenni la Shoah è entrata nei meccanismi dell’industria culturale e della cultura pop. Per un verso è il paradigma del male assoluto; per un altro rischia di trasformarsi in un tema esposto a ricostruzioni di circostanza, a manipolazioni, a negazioni e a una progressiva perdita di significato. «Se tutto può essere Auschwitz», si legge nel risvolto di copertina del volume, «il rischio è che Auschwitz si riduca a nulla». Pop Shoah? è una riflessione collettiva sugli immaginari e sul loro buon uso. Questo pezzo è il saggio di Francesca R. Recchia Luciani.
Fonte: Le parole e le cose
Originale: http://www.leparoleelecose.it/?p=21834
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