di Gaetano Azzariti
Il filo rosso che lega le più diverse proposte di revisione costituzionale e di «ammodernamento» delle istituzioni, da oltre un ventennio, è rappresentato dall’esigenza di semplificare per governare. È esattamente all’opposto di quanto ci ha insegnato il costituzionalismo democratico che nasce per dividere il potere e assicurare i diritti («Ogni società nella quale la garanzia dei diritti non è assicurata, né la separazione dei poteri fissata, non ha una Costituzione», sancirà l’articolo 16 della Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino del 1789, l’atto costitutivo il costituzionalismo moderno).
Il costituzionalismo democratico moderno non è mai andato alla ricerca della semplificazione o della governabilità come valore in sé. Ha anzi preteso una complessità nell’articolazione dei poteri, abiurando le concezioni della sovranità indivisa e della concentrazione del potere in un unico organo o soggetto.
Ha, inoltre, sempre scontato il conflitto all’interno della società, che non ha mai preteso di dominare, bensì di garantire nei diritti. Se si guarda alla storia del costituzionalismo democratico moderno (non dunque ad ogni espressione del costituzionalismo, ma a quella più nobile che ha avuto in Europa il suo apogeo dopo la seconda guerra mondiale, da cui trae origine la nostra Costituzione repubblicana), si scorge con facilità che ha sempre teso a diffondere il potere e allargare i diritti entro un progetto di emancipazione sociale scritto nel testo della Costituzione, nelle sue norme programmatiche, nel suo configurarsi come rivoluzione promessa.
Ha, inoltre, sempre scontato il conflitto all’interno della società, che non ha mai preteso di dominare, bensì di garantire nei diritti. Se si guarda alla storia del costituzionalismo democratico moderno (non dunque ad ogni espressione del costituzionalismo, ma a quella più nobile che ha avuto in Europa il suo apogeo dopo la seconda guerra mondiale, da cui trae origine la nostra Costituzione repubblicana), si scorge con facilità che ha sempre teso a diffondere il potere e allargare i diritti entro un progetto di emancipazione sociale scritto nel testo della Costituzione, nelle sue norme programmatiche, nel suo configurarsi come rivoluzione promessa.
Non può dirsi che sia questa la prospettiva che sostiene il revisionismo costituzionale dominante che opera entro l’orizzonte chiuso della semplificazione, concentrazione dei poteri e dell’indebolimento strutturale dei diritti. La primazia del governo può essere un obiettivo per garantire la governabilità (e, in effetti, il governo del solo premier è l’obiettivo di tutti i totalitarismi), ma essa si pone in netto antagonismo rispetto alla logica che è propria del costituzionalismo democratico moderno della faticosa ricerca di un equilibrio tra poteri divisi, ciascuno titolare di una porzione di sovranità. Diffondere il potere, non accentrarlo. È per questo che è sempre più ampia la distanza tra chi vuole cambiare la Costituzione per «governare» e chi vuole realizzare un progetto di costituzionalismo che sappia far convivere entro uno spazio comune le persone tutelando i diritti di ciascuno e di tutti entro un programma di emancipazione dei ceti più disagiati.
In questo momento, in questa situazione, non si può che combattere il revisionismo costituzionale dominante, poiché il rischio è quello del regresso storico, del ritorno ad un medievalismo del diritto. Oggi i revisori della Costituzione sono dei reazionari. Ed è qui un altro motivo di indignazione. La retorica del «nuovo» utilizzata come arma scagliata contro i «conservatori» del sistema costituzionale ci ha perseguitato, facendo passare molte battaglie di libertà e per l’ampliamento degli spazi di democrazia per lotte di retroguardia, non al passo con i tempi. Poveri nostalgici sono tutti coloro che si collocano all’opposizione del «nuovo che avanza».
La stessa più classica dicotomia della politica moderna tra la destra conservatrice dei valori della tradizione e la sinistra votata al cambiamento è stata svuotata di senso. La sinistra è stata distrutta, schiacciata dai sensi di colpa: non riusciva più ad interpretare il mondo e le sue trasformazioni. Per forze ontologicamente «progressiste», che trovano la loro ragion d’essere nella prospettiva del cambiamento, quest’accusa non poteva essere che un colpo mortale.
Non voglio qui sostenere che la sinistra ha continuato a comprendere il mondo, perché non ci troveremmo a questo punto se ciò fosse vero. Voglio semplicemente rilevare che il senso di colpa ha portato la sinistra ad arrendersi alle forze dominanti che invece avrebbe dovuto contrastare, accettando via via tutti i suoi parametri di giudizio sulle trasformazioni sociali, politiche, economiche e, infine, costituzionali. È stata una resa alla realtà? Oggi, nel momento in cui registriamo il fallimento del revisionismo costituzionale, scorgiamo che la realtà era un’altra.
La vera contrapposizione non è mai stata tra conservatori e innovatori, ma tra una popolo sempre più disorientato e la reazione dei ceti dirigenti. Una reazione ai progressi del trentennio d’oro del costituzionalismo del dopoguerra, che non va mitizzato, ma che certamente ha prodotto un avanzamento nei diritti dei cittadini più deboli. Si è immaginata allora una strategia – non solo istituzionale – in grado di ristabilire gli equilibri perduti delle forze dominanti. È per favorire il prevalere dei poteri consolidati che s’è tentato di cambiare la Costituzione. Un passo alla volta, sempre più indietro nel corso della storia. Per ottenere questo risultato il costituzionalismo democratico moderno rappresentava un ostacolo. Diventava necessario liberarsi dall’idea che fosse la Costituzione a dettare i principi di convivenza di una comunità. La Costituzione non poteva più continuare ad essere percepita come una lex superior, con il suo carico di valori espressione di conquiste storiche prodotte da soggetti sociali reali.
Non era possibile continuare a perseguire il programma che la Costituzione italiana aveva definito nei suoi principi fondamentali. Il lavoro, il riconoscimento dei diritti inviolabili delle persone, la dignità sociale, l’eguaglianza tra i soggetti e l’obbligo di rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che limitano di fatto la libertà e il pieno sviluppo della persona, l’autonomia e il decentramento dei poteri, tutti principi che dovevano ormai cedere il passo alla ridefinizione dei poteri che andava a determinarsi tanto sul piano nazionale quanto su quello globale. Qualche altra cosa doveva porsi a fondamento della convivenza: non più i diritti e la divisione dei poteri, ma il mercato.
La lex mercatoria diventa così il paradigma sul quale si costruiscono i nuovi scenari costituzionali. Secondo alcuni il fondamento stesso del nuovo diritto costituzionale transnazionale – che si imporrebbe ormai al costituzionalismo moderno di stampo nazionale – trova nel «modello» spontaneo dei mercati il suo prototipo. Così – è stato teorizzato – le società globali si autoregolano, anche nei rapporti giuridici costituzionali, affrancandosi dai testi costituzionali vigenti. Una prospettiva, quella del «costituzionalismo sociale», che affascina anche tanta parte della cultura più critica, alla ricerca di una nuova dimensione cosmopolitica dei rapporti politici e ormai disposta ad abbandonare al suo destino il costituzionalismo moderno di stampo novecentesco.
Senza considerare però che lasciare libero sfogo alla società – al comunitarismo – rischia di favorire la vittoria dei soggetti economici attualmente dominanti, dei poteri costituiti, sottomettendo definitivamente i diritti delle persone e l’organizzazione del potere alla logica ferrea dei mercati e dei mercanti. Come anche è stato detto, un ritorno al «neomedievalismo istituzionale» che rivela solo un’incapacità degli oppositori dello stato di cose presenti di elaborare strategie adeguate alla complessità della realtà contemporanea.
Ben può comprendersi allora il tentativo delle forze economiche dominanti di imporre la propria legge, molto meno la volontà di rinunciare alla garanzia «suprema» da parte di chi vorrebbe cambiare gli attuali assetti di potere. Non sarà la moltitudine disarmata a conquistare i propri diritti; l’invocazione di un indeterminato potere costituente non fa i conti con la realtà politica e culturale odierna. Oggi v’è un unico argine al dominio dei poteri costituiti, sempre più accentrati e sempre meno limitati. Quest’argine è rappresentato dalle ragioni del costituzionalismo moderno. Oltre il limite delle costituzioni vi sono solo poteri selvaggi.
Questo è un estratto del nuovo libro dell'Autore. In Contro il revisionismo costituzionale Gaetano Azzariti affronta la questione della trasformazione dei concetti, delle categorie, delle credenze che hanno attraversato il movimento storico del costituzionalismo moderno per chiedersi: qual è oggi il valore dei suoi principi fondanti? La democrazia e la Costituzione sono in crisi? Da tempo il pensiero critico sembra aver perso la propria radicalità, schiacciato dal peso del presente. Le nostre sofferenti democrazie costituzionali devono essere ricostruite, non nichilisticamente abbandonate o allegramente disattese.
Fonte: Laterza.it

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