La crisi è quel momento in cui il vecchio muore e il nuovo stenta a nascere. Antonio Gramsci

sabato 3 settembre 2016

Bangladesh Italia

di Alexik
In Bangladesh “gli investimenti esteri sono incoraggiati ed equiparati a quelli locali per le politiche fiscali e quelle relative alle importazioni/esportazioni…. non vi sono restrizioni al rimpatrio del capitale investito e dei dividendi ed il rischio di esproprio è contenuto. A favore di decisioni ad investire va messo in conto il fatto che il Paese dispone di una vasta base di forza lavoro giovane ed a basso costo”. Così recitava, alla fine del 2009, il rapporto dell’ICE, l’Agenzia per la promozione all’estero e l’internazionalizzazione delle imprese italiane. L’ICE è un ente con personalità giuridica di diritto pubblico che opera all’estero nell’ambito delle Rappresentanze diplomatiche italiane, sottoposto ai poteri di indirizzo e vigilanza del Ministero dello sviluppo economico.
È curioso il fatto che sia un ente pubblico ad occuparsi di promuovere la delocalizzazione all’estero delle fabbriche italiane. Promuovere, cioè, un meccanismo che qui distrugge posti di lavoro dotati di un minimo di diritti e garanzie (anche se sempre meno), condanna al degrado economico e sociale i nostri territori e pesa sulle risorse pubbliche, sulle quali ricade l’onere degli ammortizzatori sociali.
Il tutto per spostare la produzione in luoghi dove si spara sugli operai, si torturano i sindacalisti, la nocività e l’insicurezza sul lavoro sono ai massimi livelli, i salari rimangono sotto la soglia di povertà.
Il rapporto ICE glissa su questi ultimi aspetti delle così dette politiche ‘investment friendly’, però dice altre cose interessanti. Per esempio che gli investimenti diretti italiani in Bangladesh del 2009 “sono concentrati nel settore tessile, tessuti (gruppo Berto), confezioni e maglieria (gruppo Ferri), nel settore dolciario (Perfetti) e nel settore delle calzature (Filanto, Adelchi)”.
Scopriamo così che anche il distretto calzaturiero salentino è andato a morire a Dacca.
O almeno, lo scopre chi non è leccese, visto che gli abitanti del Capo di Leuca questa storia la conoscono molto bene, avendone sperimentato direttamente gli effetti nefasti.
Il declino pilotato di questo frammento di made in Italy è un emblema del defilarsi furtivo (furtivo in tutti i sensi) dei nostri ‘capitani coraggiosi’, in fuga verso più profittevoli lidi di approdo.
Il Bangladesh a sud di Lecce
> Io ho cominciato a lavorare alle scarpe a nove anni
> A nove anni ! E si può ? Si poteva ?
> In quei periodi si poteva, perché la mattina andavamo a scuola, e il pomeriggio si lavorava.
> Addirittura ! Da ‘lu mesciu ’…
> ‘Lu mesciu’, come si chiamava questo mesciu ‘Uccio’.
L’intervistato ai microfoni de ‘L’indiano’, trasmissione di approfondimento di Telerama, si chiama Giorgio, operaio calzaturiero da quando aveva 9 anni.
‘Lu mesciu Uccio’ invece era il defunto Antonio Filograna, Cavaliere del Lavoro e fondatore del calzaturificio Filanto di Casarano (LE), ai tempi in cui nel basso Salento lavoravano in fabbrica anche i bambini delle elementari. Più o meno come in Bangladesh.
Alla fine del secolo scorso le fabbriche de lu mesciu Uccio erano arrivate ad occupare nella provincia di Lecce 3.300 dipendenti diretti, senza contare l’indotto. Con un ritmo di 50.000 paia di scarpe al giorno si attestavano ai vertici della classifica dei produttori europei.
Il sindacato non ci metteva piede. Trent’anni fa ci aveva provato Rosa, un’operaia dello stabilimento di Patù, ad iscriversi alla CGIL, ma lu mesciu Uccio considerava l’iscrizione al sindacato quasi un’ offesa personale: all’ ‘interesse’ dei suoi operai ci pensava lui ! Così Rosa era stata licenziata in tronco. Più o meno come in Bangladesh.
Con gli anni, come vedremo, Antonio Filograna sul sindacato cambierà idea.
Alla fine del secolo scorso, in seconda posizione fra i calzaturieri salentini, si era attestato Adelchi Sergio (Sergio è il cognome), nipote di Filograna, con 2.500 dipendenti negli stabilimenti Adelchi e Nuova Adelchi fra Specchia a Tricase (LE).
Intorno alle due concentrazioni, una miriade di piccole aziende e laboratori permetteva a lu mesciu Uccio e a suo nipote di attingere facilmente da una rete di decentramento a basso costo e a chilometro zero. Laboratori dove la regola era quella della ‘doppia busta’. Nel senso che di buste paga gli operai ne avevano due: una ufficiale e un’altra ufficiosa, molto più leggera della prima.
In ogni modo, i salari erano comunque calmierati dai patti territoriali, contratti provinciali di gradualità che permettevano agli imprenditori salentini del tessile, abbigliamento e del calzaturiero di stare al di sotto delle retribuzioni previste dai contratti collettivi nazionali di lavoro.
Così come erano calmierate altre tipologie di ‘pretese’: le malattie professionali da collanti e i loro danni permanenti alla salute si sistemavano informalmente, con quattro soldi alla famiglia e la consegna del silenzio.
Poi, un bel giorno, il Bangladesh sotto casa a Filograna e a suo nipote cominciò a non bastare più.
Per questo sottoposero i loro imperi a processi di frammentazione e delocalizzazione all’estero. Due fasi strettamente connesse fra loro.
Delocalizzazioni all’italiana
Fu Adelchi Sergio a sperimentare per primo la strategia del ‘cluster’.
Si trattava della creazione di una rete di unità produttive intestate a parenti o amici e formalmente indipendenti dalla casa madre, ma in realtà tutte riconducibili ad essa.
Un sistema che non avrebbe avuto nessun senso da un punto di vista industriale, se non quello di attivare un gigantesco gioco delle tre carte dove soldi, dipendenti e macchinari apparivano e sparivano. Soprattutto sparivano: i dipendenti salentini in mobilità, e i soldi, i macchinari, il know how, il portafoglio clienti in Albania, Etiopia e Bangladesh.
Il ‘gioco’ ebbe inizio nella seconda metà degli anni ’90, quando La Nuova Adelchi attraversò l’Adriatico per costituire a Tirana la Donianna, una joint venture italo/albanese. Un bel posto, Tirana ! Un posto dove un operaio delle scarpe prende 200 euro lordi al mese.
Nello stesso anno (1996) a circa 7.000 km di distanza, un certo Elahi Manzur, proprietario di concerie in Bangladesh, mentre si chiedeva se non fosse il caso di porre termine alla sua fallimentare avventura nel settore calzaturiero, trovò ‘un collaboratore italiano che era disposto a fornire i disegni, aiutarlo ad aumentare la produzione e la commercializzazione’ di scarpe. Adelchi Sergio, of course.
Lo spostamento all’estero di alcune fasi produttive della Nuova Adelchi in realtà era iniziato nel 1989, ma non aveva comportato un disimpegno negli stabilimenti salentini, le cui esportazioni erano ancora sostenute dalle svalutazioni competitive della lira.
A ridosso del nuovo millennio, il decentramento cominciò però a trasformarsi in una lenta, ma coerente, strategia di smobilitazione, agevolata dalla costruzione in madre patria di un sistema di scatole cinesi.
La prima fra queste, primogenita del cluster Adelchi, fu la Selcom Srl, un aziendina molto dinamica che appena nata provvide subito a 400 assunzioni ed al relativo inoltro della domanda per ottenere i benefici della 488/92.
Per inciso, la legge 488/92 è quella che prevede ancor oggi contributi a fondo perduto e finanziamenti agevolati per le imprese che creano ‘nuova occupazione’ in aree svantaggiate del nostro belpaese.
Peccato che per la Selcom non si trattasse esattamente di ‘nuova occupazione’, ma di 400 ignari lavoratori della Nuova Adelchi, che “passarono da un’azienda all’altra, a loro insaputa. Sparì il rigo sulla busta paga relativo alla data di assunzione, livello e scatti di anzianità. E questo successe sia sulle buste paga Selcom, sia su quelle della Nuova Adelchi, tutto per camuffare il passaggio degli operai“.
Visto che il meccanismo funzionava, da lì a poco si replicò con un’altra azienda del cluster:
E così via. La Nuova Adelchi passava le linee produttive e il relativo fatturato alle sue diramazioni informali (C.R.C. Srl, K.N.K. srl, Magna Grecia Srl, Sky Srl, G.S.C. Plast Srl, Sergio’s). Poi si dichiarava in ‘crisi’ e metteva i dipendenti in mobilità, in modo da farli riassumere nelle aziende figlie, che a loro volta potevano così usufruire, per milioni di euro, dei forti sgravi contributivi destinati a chi assume dalle liste di mobilità, e dei finanziamenti della 488.“Nel 2000 quattro catene di montaggio, circa duecento persone, vengono trasferite dalla Nuova Adelchi al calzaturificio Adelchi: è il secondo trasferimento in due anni. Il concetto è questo: l’azienda dichiara lo stato di crisi, ma sono stati loro stessi, negli anni, a costruire la crisi con i vari passaggi: se trasferisco sei catene, i miei incassi diminuiscono perché diminuisce la mia capacità produttiva“.
Gli operai si trovavano a lavorare per una ditta diversa, pur restando negli stessi capannoni, davanti alle stesse macchine di sempre.
Nel frattempo i macchinari nuovi, acquistati con i finanziamenti della 488, prendevano la strada dell’est, ceduti in ‘prestito d’uso gratuito’ alle ditte albanesi, romene e bulgare della rete di decentramento estero.
Ovviamente non veniva svelata la natura fittizia della crisi, che anzi veniva addebitata a tutt’altri motivi: per esempio alla fine dei contratti provinciali di gradualità, che costringeva (orrore) a pagare agli operai i salari pieni.
Ma soprattutto imperava il mantra della ‘globalizzazione’. Della serie: ‘la crisi c’è perché i clienti vanno a comprare all’estero’ (… cioè, dalle mie filiali delocalizzate!). L’argomento era particolarmente esilarante, dato che era stata proprio la Nuova Adelchi a portare all’estero il suo portafoglio clienti.
Comunque, ufficialmente la povera Nuova Adelchi si dibatteva nelle difficoltà, seguita dalle sue aziendine satelliti che intorno al 2005 cominciarono a mettere pure loro i dipendenti in cassa integrazione.
Ma nel frattempo, come se la passava in Bangladesh Elahi Manzur ?
Benissimo!
La sezione calzaturiera del suo gruppo (Apex), che fino a 10 anni prima sembrava avviata verso un destino fallimentare, grazie al socio italiano andava a gonfie vele.
Nel 2006 Adelchi Sergio era entrato in joint venture con lui, costituendo la Apex Adelchi Footwear Limited, con un investimento di 1.739.330.43 euro.
In pratica, mentre in Italia piangeva miseria mettendo la gente in cassa integrazione, i soldi per investire in Bangladesh li aveva trovati eccome ! E nella joint venture ci metteva non solo i capitali, ma anche la partecipazione tecnica e di marketing. Sovraintendeva alla creazione di marchi dai nomi italiani accattivanti, e soprattutto indirizzava la produzione bengalese al suo parco clienti, lasciando senza acquirenti la casa madre salentina.
Inizialmente le scarpe prodotte in Bangladesh almeno transitavano per lo stabilimento di Tricase, prima della consegna ai clienti europei.
Agli operai del Capo di Leuca era affidata l’ultima ‘rifinitura’, quella che rende un paio di calzature veramente di classe: “Noi, negli ultimi anni, abbiamo per la gran parte solo cambiato il marchio alle scarpe che ci arrivavano già belle e pronte dall’estero. Via il Made in Albania o il Made in Bangladesh, ci appiccicavamo il Made in Italy”.
Non stupisce che in queste condizioni gli stabilimenti italiani fossero condannati al tracollo.Fino a che la triangolazione non è sembrata troppo costosa, e l’Apex Adelchi Footwear Limited non ha cominciato a spedire direttamente il prodotto finito ai clienti europei, e poi a fatturarglielo senza più passare per la Nuova Adelchi.
In questo modo le esportazioni della Apex schizzarono nel 2007 a 58,87 milioni di $, ed a 72,37 milioni di $ nel 2008, e via crescendo. Vampirizzando la Nuova Adelchi. E non solo l’Apex le sottraeva il fatturato. Le accollava pure le perdite !
”Nella maggior parte dei casi, la merce può arrivare al cliente con dei difetti; il cliente che si trova in Germania non rimanda la merce in Bangladesh per farla ricondizionare, sosterrebbe un costo enorme; la merce torna a Tricase; La Nuova Adelchi se la prende in carico per il ricondizionamento; costi di trasporto, in andata e in ritorno, costi di riparazione, tutto a carico della Nuova Adelchi“.
Fra il 2006 e il 2007 la maggior parte delle aziende del cluster sono state liquidate. Sopravvive solo la Sergio’s, per il mercato del lusso.
La Nuova Adelchi è fallita, spolpata fino all’osso. Prima di chiudere, dai suoi magazzini sono scomparse rimanenze per 53 milioni di euro, occultate ai controlli tramite la falsificazione dei bilanci.
L’Apex, al contrario, è diventata il primo produttore di scarpe del subcontinente indiano. Ne produce 4,5 milioni di paia all’anno per 130 clienti (grosse catene distributive) in 40 paesi, e tre milioni di paia per il mercato domestico, distribuite tramite i suoi 550 outlet, destinati alla classe media.
Non dipende più da Tricase, nemmeno per la ricerca & sviluppo, che viene fatta in un grande centro a Taiwan, anche se ha mantenuto il vezzo dei nomi italiani per le sue linee (Nino Rossi, Venturini). E’ un’azienda ‘etica’, che paga gli operai addirittura l’equivalente di 90 euro al mese, molti di più dei 61 del salario minimo vigente in Bangladesh. In pratica, con il loro salario Apex, gli operai Apex possono comprarci un paio di scarpe Apex, e gli rimangono pure 10 euro!
Non ci è dato sapere quanto Adelchi Sergio abbia beneficiato di tanta fortuna, che è girata tutta estero su estero. Né lo andrebbe a dire in giro.
Inquisito per truffa aggravata ai danni dell’Inps e bancarotta fraudolenta, oggi è un tenero vecchietto che dice di vivere con la pensione di 700 euro al mese, impossibilitato a pagare i molteplici creditori. 

***

Erano parecchio incazzati gli operai della Filanto in presidio davanti ai cancelli dello stabilimento di Casarano (LE). Da mesi stringevano la cinghia in cassa integrazione a zero ore, esasperati per i ritardi nell’erogazione della c.i.g., per i salari non corrisposti e per la mancanza di prospettive.
Li avevano buttati via come scarpe vecchie, dopo che per tanti anni avevano ingoiato di tutto pur di mantenere quel posto di lavoro al calzaturificio, e quel salario a fine mese che li sottraeva ad un destino di emigrazione.
E invece, un bel giorno, era emigrata la produzione, prima in Albania e poi in Bangladesh.
Eppure il Cavaliere del Lavoro Antonio Filograna aveva sempre fatto del suo meglio per garantirgli condizioni di lavoro degne del terzo mondo.
Ma c’è sempre un sud più a sud.
Il Bangladesh a sud di Lecce/2
“Non dimenticherò mai quella volta in cui andai a trovare il mio compagno di classe delle medie e trovai lui e tutta la sua famiglia che cucivano tomaie sul tavolo della cucina, le sue mani da bambino che si muovevano velocissime su quei pezzi da consegnare all’assemblaggio”.
La descrizione del giornalista Danilo Lupo, originario di Casarano, riguarda uno dei tanti laboratori di subfornitura della Filanto nella seconda metà degli anni ’80. Negli stessi anni, seguendo i ricordi di un’ex operaia del calzaturificio, nei reparti si lavorava in questo modo:
“Alla Filanto dovevi essere davanti alla macchina alle 7.00, e finivi alle 19,00, con due pause che duravano in tutto un’ora e un quarto.
Se sbagliavi anche solo un punto, il caporeparto ti disfaceva tutta la cucitura, anche quella fatta bene. Così perdevi più tempo a rifare il lavoro, e dovevi recuperare nella pausa pranzo, a spese tue. Anche se non sbagliavi, ma andavi troppo lenta e rimanevi indietro con la produzione assegnata, dovevi recuperare durante le pause.
A chi usava i collanti gli davano del latte. Lucia, una ragazza di Corsano, sveniva sempre”.
Non che la salvaguardia della salute in fabbrica fosse particolarmente migliorata nel nuovo millennio, a giudicare da queste testimonianze del 2000:
“Non ci sono protezioni. Se uno si sente male non ha speranza. Uno che stava a un raschiatore con l’aspiratore rotto che gli provocava nausea per quello che doveva respirare, e protestò col capo, chiedendo che lo riparassero o lo cambiassero, ma il capo gli diceva ‘tu là devi morire’’”.
“I dispositivi di protezione individuale venivano consegnati in occasione di ispezioni preannunciate o di visite da parte di politici e successivamente ritirati … Alcune lavoratrici in astensione obbligatoria per maternità sono state obbligate a rientrare al lavoro dopo aver ricevuto minacce di licenziamento in caso di rifiuto”.
C’è da dire che tanta arroganza non avrebbe trovato terreno fertile se non grazie alla passività di gran parte degli operai, dovuta ad una diffusa sudditanza psicologica nei confronti del padre/padrone della Filanto. Passività che si trasformava in aperta complicità con la direzione, quando si trattava di emarginare quei pochi che cercavano di reagire.
“Il 5 aprile 1982 la Panfil [lo stabilimento Filanto di Patù] trasferiva in una linea di lavorazione di nuova istituzione, completamente isolata dal resto della fabbrica, tutti gli iscritti alla Filtea-Cgil. Nello stesso giorno il direttore del personale convocava tutte le maestranze e faceva sottoscrivere un manifesto di protesta contro l’iniziativa sindacale dal titolo: Lasciateci lavorare tranquilli”. E il 99% firmò.
Era il preludio ai licenziamenti per rappresaglia delle operaie sindacalizzate, che vennero estesi anche ai loro parenti in una sorta di vendetta trasversale.
Così venne distrutto, nel 1982, il sindacato che nasceva dal basso. Una ventina di anni dopo i sindacati confederali entrarono alla Filanto calati dall’alto … chiamati dal padrone.
Delocalizzazioni all’italiana/2
> L’azienda Filanto ha lottato per 50 anni per non fare mai entrare il sindacato. Al 51esimo anno pagava pure lei per iscriverci al sindacato.
> In che senso pagava lei?
> Perché le interessava il sindacato per cacciarci fuori con la cassa integrazione.
> Ah, per fare l’accordo aveva bisogno della controfirma del sindacato.
> Pagava pure lei, metteva la quota per far entrare il sindacato.
Nel gennaio 2014 fra i cassaintegrati del presidio non giravano opinioni particolarmente lusinghiere su CGIL, CISL e UIL. In particolare, gli operai li accusavano di aver agevolato, tramite la firma degli accordi, la loro estromissione dalla fabbrica, un processo di espulsione graduale e sistematico iniziato da quando il patron della Filanto aveva deciso di adottare la strategia del ‘cluster’.
Ripercorrendo esattamente tutti i passaggi già sperimentati dal Gruppo Adelchi (descritti nel capitolo precedente), Filograna aveva girato a parenti e fiduciari i capitali per l’apertura di una costellazione di piccole ditte, tutte formalmente indipendenti dalla Filanto, ma tutte però riconducibili ad uno stesso interesse: il suo.
Le piccole ditte assumevano gli operai messi in mobilità dall’azienda madre, ufficialmente ‘in crisi’, beneficiando di grossi sgravi contributivi. Visto che creavano ‘nuova occupazione’, usufruivano anche dei finanziamenti della legge 488/92 per comprare i macchinari ‘nuovi’ … che altro non erano che le vecchie macchine della Filanto sottoposte ad un sommario restyling, che consisteva nell’apposizione di una mano di vernice e di un’etichetta finta.
In totale, le aziende di Filograna si erano portate a casa in questo modo sei milioni di euro di contributi risparmiati e quattro milioni e mezzo di finanziamenti pubblici.
> Ci hanno diviso in settori, in piccole aziende.
> E vi hanno portato all’esterno …
> Si, sempre qua dentro però [indicando lo stabilimento della Filanto].
> Sempre con l’aiuto del sindacato, promettendoci sempre il lavoro…
> Quando lo Stato ha smesso di erogare soldi e incentivi statali, abbiamo finito di lavorare.
Ma a quel punto la delocalizzazione all’estero era già compiuta.
Tutti quei passaggi di operai da un’ azienda all’altra (ed ogni volta un po’ ne venivano mandati a casa), servivano a prendere tempo, a diluire 3000 licenziamenti in uno stillicidio di cassa integrazione, scaricandone i costi sulle casse dell’INPS e della Regione.
Servivano ad evitare il conflitto provocato da una chiusura netta, e a rendere graduale il processo di delocalizzazione, mantenendo comunque un piede in Italia mentre veniva sperimentato il trasferimento della produzione altrove.
L’ ‘altrove’ aveva cominciato a prendere forma da tempo, con l’apertura nel 1992 dei primi stabilimenti albanesi a Tirana e Shijak, seguiti dalla Filanto Ukraina a Zhitomir e dall’ufficio commerciale di Madras, in India, per coordinare le subforniture asiatiche. Fino alla Filanto Bangladesh Footwear di Shafipur, con migliaia di operai addestrati gratuitamente nel 2010 dall’USAID (l’agenzia di cooperazione del governo degli Stati Uniti) nell’ambito di un programma di contrasto alla povertà.
> In Bangladeh dice che c’ha tremila operai.
> Quanti ce ne aveva qua. Sempre nel made in Italy.
> Si, poi le fanno made in Italy quando arrivano qua. Penso.
I notai della crisi
L’aspetto forse più bizzarro di questa faccenda è che tutte le sue fasi erano avvenute alla luce del sole. Lo sapevano tutti, a Casarano, che le fabbriche satelliti erano intestate a prestanome, e che la crisi per mancanza di ordini era fittizia, perché l’azienda, mentre metteva la gente in cassa integrazione, obbligava allo straordinario gratuito quelli che restavano in reparto.
Difficile pensare che le parti sociali, gli enti locali, i ministeri seduti ai tavoli di concertazione della vertenza Filanto ne fossero all’oscuro. O che Confindustria Puglia nulla sapesse della delocalizzazione in Bangladesh, visto che era lei stessa a promuovere gli investimenti delle ditte pugliesi nelle Export Processing Zones di quel paese.
Tutti facevano finta di accorarsi per il futuro occupazionale degli operai salentini, di volta in volta riparcheggiati nelle aziende del cluster in attesa che andassero in crisi anche loro.
Tutti, compresi i sindacati confederali, che ratificavano con timbro e firma ogni travaso di operai da una ditta all’altra, fingendo di credere ad improbabili piani industriali.
Fino a promuovere, nel settembre 2013, uno degli ultimi atti di questa farsa: l’accordo transattivo dei ‘pochi, maledetti e neanche subito’, quando i dipendenti di tutto il cluster vennero rimandati definitivamente a casa accettando di ricevere, a rate, solo la metà degli stipendi arretrati. I profitti della Filanto Bangladesh Footwear, che nel frattempo esportava scarpe in tutto il mondo, rimanevano ovviamente al di fuori della loro portata, e nessuno, ai tavoli delle trattative, ne chiedeva conto.
Il compianto Michele Frascaro, nel suodossier sul Gruppo Adelchi, definiva i sindacati confederali ‘i notai della crisi’ . Anche nella vertenza Adelchi, come per la Filanto, CGIL, CISL e UIL si erano limitate a traghettare i lavoratori verso la cassa integrazione senza mai opporsi veramente allo smantellamento delle linee.
Nessuno li aveva visti quando gli operai estromessi dal Gruppo Adelchi si incatenavano ai cancelli, salivano sui tetti del Comune di Tricase, si cospargevano di benzina, bloccavano le strade. E nemmeno quando i lavoratori fermarono un camion di scarpe ‘made in Bangladesh’ pronte a trasformarsi in ‘made in Italy’. In quell’occasione, vennero occupati per due giorni gli uffici della Nuova Adelchi:
“Siamo qui da due giorni, ormai è intervenuta in forza la Guardia di Finanza che sta svolgendo indagini approfondite, ma non abbiamo visto uno, uno solo dei segretari provinciali della nostra categoria”.
I sindacati perbene non frequentavano i picchetti, il presidio permanente dei cassaintegrati, le occupazioni degli stabilimenti o del Consiglio Comunale.
In compenso c’erano sempre, seduti ai tavoli, quando si trattava di firmare accordi che servivano solo ad allentare la tensione sociale, a depotenziare la lotta. Accordi come quello fischiato in assemblea durante l’occupazione operaia della Sergio’s (una fabbrica del cluster Adelchi), che scopriva il fianco agli occupanti, esponendoli al rischio di sgombero.
Accordi che non sarebbero mai stati rispettati dall’azienda, e di cui le OOSS firmatarie non avrebbero mai controllato né preteso l’osservanza.
Epilogo
Tutto si è compiuto.
Seimila posti di lavoro del distretto calzaturiero salentino sono andati a ‘morire a Dacca’.
Sconfitte le lotte, ognuno si è rinchiuso nella sua dimensione individuale. I T.F.R. della Filanto hanno generato, a Casarano, l’apertura di una moltitudine di bar, la maggior parte dei quali falliti in poco tempo.
Ai territori sono rimaste solo la disoccupazione e le scorie tossiche, come le tonnellate di scarti di pellame, ritagli di tomaie e residui di collanti seppelliti abusivamente a Pozzo Volito, vicino alla Filanto di Patù.
Nel frattempo, i sindacati confederali continuano a promuovere campagne per sensibilizzare i consumatori sulla trasparenza nella filiera della moda.
Lanciano appelli.
Propongono petizioni.
Inoltrano garbate richieste alle aziende del fashion per la tracciabilità delle subforniture.
Aderiscono alle meritorie iniziative della Clean Clothes Campaign.
Il fatto è che per loro la mobilitazione dei consumatori non è un’attività collaterale, ma sostitutiva della lotta di classe (un concetto ormai desueto e retrò).
E si chiedono, nelle loro campagne: “Ogni giorno indossiamo abiti, scarpe, borse, portafogli, senza sapere molto di loro. Dove sono stati fabbricati? Da quali mani e soprattutto in quali condizioni?”.
Veramente queste cose dovrebbero dircele loro, ma visto che hanno delle difficoltà provo a dargli comunque un aiutino. Le Adidas, oggi, le lavorano a Ruffano (LE), e le condizioni sono queste:
“Al calzaturificio siamo più di cento. La prima domanda che ti fanno, prima di assumerti, e se hai mai avuto a che fare con un sindacato. Se vuoi lavorare devi rispondere di no. Poi ti danno il contratto ed un regolamento da firmare, e dopo la firma se li riprendono senza dartene una copia. Sul regolamento c’è scritto che durante l’orario di lavoro è vietato andare in bagno ed è vietato parlare con le colleghe.
Ed è veramente così. La caporeparto può negarti il permesso di andare in bagno, e non puoi parlare alle altre operaie, neanche per chiedere un filo, perché sono tutte terrorizzate. Eppure non sono ragazzine, sono signore sui 40-45 anni.
È impossibile terminare in tempo il lavoro assegnato per la giornata, anche per un’operaia esperta. Se non ci riesci devi rimanere in fabbrica fino a che non lo finisci, a gratis. Oppure venire al lavoro l’indomani un’ora prima, alle 6,00. Sempre a gratis.
Durante il giorno il proprietario passa fra le macchine e ci offende. Gli piace particolarmente chiamarci ‘suine’.
Le operaie cambiano spesso, o perché si licenziano da sole, o perché vengono mandate via. Vengono confermate solo quelle più remissive, che non alzano mai la testa dal lavoro”.
Nascosto fra le sagre gastronomiche e le pizziche tarantate, così care ai turisti alternativi, il ‘Bangladesh’ non si è mai spostato dal Capo di Leuca.

(Continua)

Per le note al testo consultare il link originale 

Fonte: Carmilla online

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