La crisi è quel momento in cui il vecchio muore e il nuovo stenta a nascere. Antonio Gramsci

venerdì 2 settembre 2016

Il capitale multinazionale, una potenza sempre in volo

di Claudio Conti
Quando si parla di “governi asserviti al capitale multinazionale” il rischio è di venir tacciati di “oscurantismo”, “complottismo” o – vade retro! – di dietrologia. Tenendo conto di quanto abbiamo in odio dietrologi e complottisti, sempre schierati col regime facendo finta di fargli le pulci, c'è davvero da incazzarsi. In ogni caso, il problema che resta aperto è quello di dimostrare che le cose stanno in questo modo; ovvero che i governi nazionali del pianeta – tutti, nessuno escluso – sono ormai in seria crisi di “sovranità” rispetto alle società multinazionali più grandi.
Non riescono insomma a decidere autonomamente – come sarebbe logico per un “potere sovrano”, oltretutto legittimato democraticamente con elezioni popolari – le politiche più adatte a far progredire il paese che amministrano, ad allocare autonomamente le risorse di ricchezza prodotte, a incamerare le entrate fiscali dovute da queste società nemmeno quando hanno la maggior parte della propria infrastruttura produttiva nel territorio governato dal singolo Stato. Per i paesi più grandi e potenti si tratta di un intoppo, di un limite, o di un depotenziamento della "politica". Per quelli al di sotto di una certa soglia (quasi tutti) si tratta invece di una vera e propria colonizzazione senza invio di truppe militari.
Il problema è esploso sui giornali mainstream – non a caso – a cavallo dell'ufficializzazione del fallimento della trattativa sul negoziato Ttip (trattato transatlantico di libero scambio), e come conseguenza della decisione dell'Antitrust europeo di condannare Apple a risarcire l'Irlanda con 13 miliardi di tasse non pagate.
Le cronache hanno reso così nota la segretissima pratica del tax ruling, per cui un'azienda multinazionale concorda di pagare a uno Stato non l'aliquota fiscale normale per quel paese (solo il 12,5%, a Dublino), ma una molto inferiore. Soltanto l'1% nel caso di Apple, ai tempi dell'accordo (2003), ma progressivamente scontata fino al provocatorio 0,005% (il 5 per mille che ognuno di voi lascia a chi gli pare – da Emergency alla più sconosciuta onlus – come elemosina fiscale). Certo appare assolutamente evidente la “sproporzione” – diciamo così – con la tassazione sui redditi da lavoro dipendente, in qualsiasi paese, ed anche con quella delle piccole imprese. Ma la giustizia morale non ha mai trovato spazio nella realtà capitalistica (solo nello storytelling)….
La sentenza Ue su Apple ha fatto immediatamente attivare il ministero del Tesoro statunitense (la società di Tim Cook e del fu Steve Jobs ha negli Usa la propria base ingegneristica, mentre il “montaggio” avviene altrove e la commercializzazione è planetaria). Solo in parte per “difendere” una multinazionale stelle-e-strisce, molto di più per provare a recuperare parte dei versamenti fiscali che Apple dovrebbe pagare. Il ministro Jack Lew ha infatti proposto una riforma della tassazione sugi utili realizzati all'estero con questa questa esplicita motivazione: “L'ammontare delle imposte non versate che le autorità irlandesi devono recuperare verrebbe ridotto se le autorità degli stati Uniti dovessero imporre ad Apple di versare per il perdiodo in oggetto (dal 2003 al 2014) importi maggiori alla società madre statunitense per il finanziamento delle attività di ricerca e sviluppo”. Cosa cambierebbe? Per Apple ben poco (quel che risparmierebbe di versare all'Irlanda dovrebbe comunque darlo al fisco Usa), per il governo statunitense parecchio: alcuni miliardi.
Ora il quotidiano di Confindustria, IlSole24Ore, pubblica una serie di articoli di Angelo Mincuzzi che descrivono a grandi linee molte delle tecniche adottate dalle principali multinazionali del pianeta (basta scorrere la lista delle prime 500 stilata dalla rivistaFortune) per evitare quasi completamente il pagamento delle tasse a qualsiasi paese; sia quello dove i profiitti vengono prodotti, sia quello dove c'è la sede legale, sia quello d'origine verso cui quei profitti tornano.
Così fan tutti? No, solo quelli abbastanza grandi e forti da poterlo fare impunemente. Solo i soggetti, insomma, che incarnano per dimensioni e logica la figura-tipo dei “mercati”, facendo il buono e cattivo tempo ad ogni latitudine. Bombardieri apolidi, con basi sicure in cui farla da padroni pagando un affitto limitato.
Ne vien fuori un quadro quasi disarmante, che dipinge i governi e gi Stati come nanerottoli dai movimenti goffi e lenti di fronte a “oggetti volanti” che alla velocità di un click spostano risorse inimmaginabili. Pensate cosa deve esser passato per la mente a quel premier irlandese che si è sentito proporre da Apple quell'accordo: (“l'1% di un fantastiliardo è comunque molto di più di quanto vado spremendo al 12,5 da aziende molto più piccole”). Ragionamento finanziariamente scontato, perché il governante di turno non è in possesso di alcuno strumento coercitivo nei confronti di multinazionali di quelle dimensioni.
Ma, appunto, ragionamento che giunge a certificare la “fine della sovranità popolare” come immaginata dal pensiero liberale degli ultimi tre secoli e in nome della quale l'Occidente continua a bombardare – con armi più convenzionali – i propri nemici di turno.
Un'ultima annotazione a beneficio dei cantori della “libertà nel web”. Proprio le tecnologie della comunicazione immediata e universale hanno reso possibili business altrimenti impensabili e profitti rapidissimi, teoricamente illimitati. Al punto che proprietari della sola infrastruttura informatica, senza alcun possidimento fisico investito nel business – vedi il caso di Airbnb o Facebook – possono diventare in pochissimi anni una potenza globale nei cui confronti molti Stati debbono “inchinarsi”, pena il bombardamento o – peggio – la delocalizzaione.
Come Renzi davanti a Zuckerberg, insomma.

Fonte: Contropiano 

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