La crisi è quel momento in cui il vecchio muore e il nuovo stenta a nascere. Antonio Gramsci

sabato 3 settembre 2016

In ginocchio da Erdoğan: la Turchia attacca i curdi, l’Occidente lascia fare

di Tommaso Canetta
La geopolitica non si fa coi buoni sentimenti. Sono gli interessi dei vari Stati a determinare le loro scelte, e la scelta degli Stati Uniti di appoggiare il recente blitz della Turchia in Siria – per “combattere i terroristi dell’Isis e del Ypg curdo” – è solo l’ultima incarnazione di questo principio. I carri armati turchi e i ribelli siriani armati e sostenuti da Ankara hanno varcato il confine lo scorso 23 agosto presso il valico di Jarablus, mentre artiglieria e aviazione della mezzaluna picchiavano sulle postazioni jihadiste e su quelle curde.
Washington ha dato il proprio appoggio all’operazione chiamata “Scudo dell’Eufrate”, facendo propri i diktat di Ankara invitando i curdi siriani – per bocca del vicepresidente Biden, in visita presso Erdogan - a ritirarsi a est dell’Eufrate per lasciare campo libero alla Turchia. I curdi hanno assecondato la richiesta solo parzialmente, rinculando a sud ma non abbandonando del tutto il campo. Così, nei giorni successivi allo sconfinamento turco i ribelli filo-turchi sono arrivati presto allo scontro con quelli, curdi e arabi, riuniti nelle Syrian Democratic Forces (Sdf), a nord di Manbij (cittadina liberata dall’occupazione dello Stato Islamico poche settimane fa, grazie allo sforzo delle Sdf). Grazie all’appoggio dell’esercito turco, i ribelli hanno sottratto ampie aree di territorio all’Isis (che ha abbandonato l’area di Jarablus, evitando così lo scontro, “per evitare un’inutile massacro dei nostri uomini”, secondo quanto dichiarato da un portavoce del Califfato) e diversi villaggi alle Sdf.
L’obiettivo dichiarato dell’operazione “Scudo dell’Eufrate” è creare una “buffer zone” nell’area di confine, ripulendola da quelli che Ankara considera terroristi, che siano jihadisti dell’Isis o guerriglieri curdi. In particolare è di capitale importanza strategica per la Turchia impedire che i curdi siriani riescano a unificare i propri territori (l’ultimo lembo delle province orientali di Kobane e Cizre dista appena 50 km dal cantone occidentale di Afrin), guadagnando la possibilità di proclamare un’entità autonoma indipendente (il Rojava, o Kurdistan occidentale). Per farlo sta cercando di inserire un cuneo di ribelli a lei fedeli tra i territori controllati dai curdi, e al momento pare stia avendo successo. L’ambito di questo scontro tra Turchia (alleata degli Usa nella Nato) e curdi siriani (alleati di Washington nella coalizione anti-Isis) dovrebbe dunque, nelle speranze della Casa Bianca, essere circoscritto. Nella prima settimana di scontri, gli sviluppi sul terreno per sembravano indicare una possibile escalation delle violenze, che sarebbe deleteria per la lotta al Califfato (gli uomini di al Baghdadi hanno già approfittato dell’offensiva turca contro i curdi siriani per riconquistare alcuni villaggi che avevano perso nei giorni scorsi a favore delle Sdf). Forse per questo – e dietro forte pressione degli Usa – è stata proposta una tregua temporanea di pochi giorni tra turchi e curdi, per concentrare i propri sforzi sull’Isis che è passato nel frattempo al contrattacco. Ma per ora pare la Turchia si sia detta indisponibile a rispettarla e, se anche Washington riuscisse a imporla ai contendenti, il problema sarebbe comunque solo rimandato.
Erdogan ha potuto contare, per l’operazione, non solo sul beneplacito degli Usa, ma anche sul via libera della Russia – con cui dopo il fallito golpe ha stretto nuovamente rapporti amichevoli, troppo amichevoli per i gusti della Casa Bianca – che controlla lo spazio aereo siriano e che fino a poco tempo fa minacciava di abbattere qualunque mezzo turco fosse stato scoperto a operare in Siria. Ancora non è emerso cosa Putin abbia ottenuto in cambio per il suo benestare (si mormora di accordi sul gasdotto Turkish Stream, che permetterebbe a Putin di tagliar fuori i Paesi dell’est Europa dai tracciati dei gasdotti diretti in Europa occidentale, riducendone drasticamente il potere politico di contrattazione), ma ha avuto come corollario anche la possibilità per il presidente turco di fare leva su Damasco e Teheran – alleati di Mosca e fino a quel momento suoi acerrimi avversari – in nome del comune interesse a contenere l’indipendentismo curdo. Forse non per caso pochi giorni prima del blitz turco si sono registrati i primi violenti scontri tra forze di Assad e curdi siriani, fino a quel momento alleati di convenienza.
La decisione Occidentale di assecondare Erdogan sullo “Scudo dell’Eufrate” nasce da un calcolo di interessi. In primo luogo dopo il fallito golpe in Turchia è stato ritenuto fondamentale trovare un modo per riavvicinare l’alleato, rimasto deluso – per usare un eufemismo - dalla scarsa solidarietà di Europa e Stati Uniti, e scongiurare la “concorrenza” del Cremlino. Poi pesa la speranza che ora la Turchia – colpita anche in patria da attentati jihadisti – dia per davvero il suo contributo alla lotta contro l’Isis, rimpiazzando di fatto i curdi siriani. Infine, e più di tutto, pesa il dato strategico complessivo: tra il secondo esercito della Nato, appartenente allo Stato che è una fondamentale cerniera con l’Oriente, e gruppi di guerriglieri appartenenti a un popolo senza Stato(la cui nascita sarebbe una bomba per gli equilibri geopolitici mediorientali) si è scelto il primo. La gratitudine per anni di guerriglia casa per casa contro l’Isis, o la vicinanza ideale con una formazione democratica, laica e multi-religiosa, dove le donne hanno ruoli politici e militari, e dove combattono anche molti volontari stranieri, non hanno un peso sufficiente per cambiare questo genere di calcoli.
Il blitz di Ankara ha fatto crollare la finzione su cui si reggeva l’equilibrismo degli Stati Uniti in Siria: che il Pkk curdo-turco (considerato da Washington un’organizzazione terroristica) e lo Ypg curdo-siriano (la formazione curda, spina dorsale delle Sdf, alleata nella lotta all’Isis) fossero due cose assolutamente diverse. I legami tra i due gruppi (in particolare del Pkk col Pyd, il partito di cui Ypg è il braccio armato) erano noti da sempre e la guerra scatenata da Erdogan già nel 2015 contro il Pkk in patria e contro lo Ypg in Siria (veniva bombardato da oltre confine) ha ulteriormente cementato il rapporto.Nei primi giorni di scontri era evidente come, al di qua e al di là del confine turco, Pkk e Ypg agissero in modo sostanzialmente unitario. Messi alle corde dall’iniziativa turca, gli Stati Uniti hanno finito col dover scegliere e – anche se hanno quasi subito condannato il dilagare degli scontri in Siria tra Sdf e ribelli filo-turchi e poi tentato di mediare una tregua – hanno scelto Erdogan. I curdi siriani, specie se la Turchia dovesse ignorare gli appelli occidentali per una tregua, si troveranno presto di fronte a un bivio: rinunciare al tentativo di unificare il Rojava, lasciando campo ad Ankara, e magari assecondare le richieste americane di marciare su Raqqa (la capitale dell’Isis, lontana dal confine turco), evitando così di dare altri pretesti alla Turchia per attaccare, oppure alzare il livello dello scontro con Erdogan, lasciando che l’Isis si avvantaggi di conseguenza, nella speranza che il nuovo presidente americano imponga un compromesso più favorevole. Il rischio in questo caso sarebbe di assistere nei prossimi mesi a un bagno di sangue di quelli che finora sono stati i nostri più fedeli alleati nella guerra contro il Califfato.

Fonte: Linkiesta.it 

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