La crisi è quel momento in cui il vecchio muore e il nuovo stenta a nascere. Antonio Gramsci

sabato 3 settembre 2016

Il punto di vista del lavoro

di Michele Colucci
Lavorare, non lavorare, studiare e lavorare, lavorare sottopagati, formarsi, riqualificarsi, lavorare troppo, lavorare troppo poco, guadagnare troppo, guadagnare troppo poco, essere disoccupati, essere in cassa integrazione, subire un licenziamento: attorno alle molteplici realtà del lavoro e della sua collocazione si addensano e si stratificano opzioni, significati, valori che attanagliano ogni giorno la maggior parte delle persone in età adulta. A partire da questa molteplicità sono state costruite nel corso del tempo narrazioni, mitologie, racconti che hanno riempito il lavoro e i lavoratori di aspettative e di proiezioni.
Pian piano però, proprio quando il mondo del lavoro materialmente si frantumava, queste narrazioni hanno lasciato il campo alla rimozione. Il lavoro ha subìto un processo di rapida e inesorabile dismissione, in tutto e per tutto simile alla dismissione di tanti luoghi dove esso era cresciuto e dove si era radicato. E si è arrivati al paradosso: è diventato difficilissimo difenderne anche la semplice dignità, proprio quando era necessario metterlo al centro del dibattito pubblico.
C’è stata anche una fase, molto recente – prima della grande crisi che ha perlomeno costretto qualcuno a rivedere certe profezie – in cui si parlava insistentemente di fine del lavoro e in cui chi aveva la sfrontatezza di parlare di lavoratori e lavoratrici veniva scambiato per pericoloso provocatore, in tutti gli ambienti politici e culturali progressisti, anche quelli di sinistra ed estrema sinistra.
Partiamo da qui, dal modo con cui l’autore ha scelto di collocare la dimensione del lavoro, per parlare del libro di Andrea Bottalico Il fuoco a mare. Ascesa e declino di una città-cantiere del Sud Italia (edizioni Napolimonitor, Napoli 2015). Il punto di vista che Bottalico ha scelto di privilegiare è infatti proprio il punto di vista del lavoro. Cosa significa declinare in questo modo un racconto su una città-fabbrica? Significa scegliere di far parlare innanzitutto il lavoro, nelle mille accezioni differenti che questo può significare: il suo rumore, il suo odore, il suo impatto sui corpi e sulle menti delle persone, la ricaduta sui luoghi, la sua dimensione produttiva e organizzativa, le forme della sua riproduzione nel corso del tempo, il rapporto con la natura, a partire dal mare, il modo con cui è stato assemblato e modulato, i conflitti che ha determinato, le coscienze che ha contribuito a trasformare, i lutti che ha provocato, le ricchezze che ha creato, i vuoti e i pieni che ha lasciato.
Il punto di vista del lavoro nel volume di Bottalico non è soltanto il punto di vista dei lavoratori ma è qualcosa di più ampio: è un modo di guardare allo sviluppo di un territorio e delle persone che lo hanno abitato partendo da quell’azione di intervento sulla materia e da tutto ciò che ne consegue che negli ultimi secoli abbiamo definito lavoro.
La città di Castellammare di Stabia è una terra di confine. È situata a Sud di Napoli e oggi fa parte a livello amministrativo della città metropolitana di Napoli. È allo stesso tempo situata in prossimità della penisola sorrentina, rispetto alla quale si colloca a Nord. Ha una lunghissima storia, che ha avuto una prima cesura drammatica nell’eruzione del Vesuvio del 79 d.C. A partire dalla seconda metà del Settecento divenne uno dei centri più importanti del Regno di Napoli, conservando un ruolo economico strategico durante il Regno delle due Sicilie e ancora per molto tempo anche nello Stato italiano, fino almeno agli settanta del Novecento.
Nel 1783 i Borboni ne fecero la sede dei cantieri navali e da quel momento la città ha legato la sua identità e il suo destino alla cantieristica navale e più in generale all’industria, presente nella zona anche con altri stabilimenti, come ad esempio la Cirio.
Lo spazio della storia e la dimensione del tempo hanno un ruolo decisivo nella narrazione proposta da Bottalico. Ogni riferimento a una congiuntura economica, a una scelta industriale, allo sviluppo del cantiere e al suo impatto sulla città è accompagnato da un’analisi attenta delle rispettive radici storiche. D’altronde il libro è costruito attorno a una serie di incontri tra l’autore e gli operai che hanno lavorato nei cantieri navali e sono proprio gli operai a riportare puntualmente al centro del discorso il tema della storia dell’insediamento industriale e della memoria del lavoro loro e di chi li ha preceduti.
Gli operai, pur se appartenenti a generazioni diverse e con formazioni spesso anche lontane tra loro, sembrano condividere un approccio comune alla vita della fabbrica, un approccio che individua la fabbrica come un «continuum» storico che di generazione in generazione e di nave in nave conduce il lettore sempre a ritroso, a volte addirittura fino alla fine del Settecento.
Il libro nasce dalla crisi e dalla mobilitazione del 2011, quando di fronte all’ennesima, fatale, ristrutturazione, gli operai della città diedero vita a un ciclo molto duro di proteste. L’autore si recò più volte sul posto per documentare la protesta e le ragioni della mobilitazione ma l’impatto con la città-cantiere ha generato un tale fiume di incontri, di racconti,di domande che ha catturato la sua curiosità ed è nato un libro. Si tratta di un volume corposo, documentato e ben scritto, in cui capitolo dopo capitolo non viene tralasciato alcun dettaglio rispetto alle caratteristiche sociali, economiche e politiche della vita delle persone e dei luoghi legati al grande cantiere navale.
In tutti i capitoli del libro l’autore è accompagnato da un ex operaio, Totore, che lo porta a conoscere le persone, i quartieri, i paesi, le strade, la campagne, le spiagge, le montagne in qualche modo riconducibili alla storia del cantiere e di Castellammare. In ogni capitolo però, grazie ai dialoghi con singoli testimoni, viene approfondito partendo dalle loro storie un particolare aspetto del lavoro nel cantiere: saldatori, sabbiatori, carpentieri, motoristi congegnatori, elettricisti, calafati, tracciatori, falegnami, meccanici, molatori, gruisti e altri ancora.
Il libro, oltre a un prologo e a un epilogo, è suddiviso in due grandi parti: «dentro al Cantiere» e «fuori al Cantiere». Nella prima parte vengono ricostruite in modo volutamente disorganico sia alcune tappe storiche della vita della fabbrica sia alcuni mestieri e alcune fasi del processo produttivo indispensabili per capire di cosa si parla quando si parla di cantieri navali.
Nella seconda parte la narrazione è estesa al territorio, alla sua vita politica e sociale, alle lotte operaie, ai rapporti tra Castellammare e altre città, a partire da Trieste, la città che ha per lungo tempo dettato i tempi e le modalità del lavoro a Castellammare, perché dal 1966 il cantiere campano venne integrato nell’Italcantieri dell’Iri, con sede principale proprio a Trieste. Il rapporto con la committenza pubblica rappresenta un tema ricorrente, sia quando serve a spiegare le modalità e i processi decisionali con cui si procede alla costruzione di una nave sia quando diventa la chiave di lettura per descrivere le congiunture – positive o negative – che caratterizzano la produzione, con gli inevitabili riflessi economici e sociali sulla popolazione.
Il volume di Bottalico rappresenta per ora un unicum nella letteratura recente sull’industria italiana. Il libro riesce infatti a essere estremamente puntuale dal punto di vista della sociologia del lavoro, descrivendo minuziosamente i ritmi, l’organizzazione e la scansione del ciclo produttivo, non rinunciando a fornire una serie di informazioni utili anche in una prospettiva di storia economica e storia d’impresa. «La nave è un sistema complesso» scrive e tale complessità viene descritta punto per punto partendo proprio dalla costruzione e dall’assemblaggio.
Allo stesso tempo però la narrazione è costruita attorno alle storie e alle testimonianze degli operai. Le loro parole sono restituite in forma di racconto, non in forma di intervista. Bottalico ha indubbiamente corso un rischio: quello di scrivere una docufiction controllata da un io narrante pervasivo e accentratore. È riuscito a gestire questo rischio e a scrivere un’altra cosa perché a furia di proseguire nella sua immersione sul territorio a un certo punto evidentemente si è perso.
La sua centralità di narratore potenzialmente invadente si è frantumata. È stato catturato dalle persone e dagli eventi. Ha saputo però ritrovare subito la strada, perché le radici che lo hanno portato a intraprendere questo progetto sono radici solide e ben piantate: il rispetto per la fatica altrui, la voglia di credere in una prospettiva di riscatto e di emancipazione, la passione per la ricerca rigorosa e mai appiattita su risposte facili e ragionamenti oziosi, il richiamo esercitato da una terra e da un mare estremamente affascinanti.
Una delle caratteristiche che più ha colpito l’autore del volume è l’irriducibilità dei lavoratori del cantiere navale alla completa automazione e atomizzazione dell’attività operaia. Sono proprio le figure professionali richieste dalla cantieristica navale e il modo con cui si trovano a svolgere le rispettive funzioni nella macchina della produzione a determinare una situazione per certi versi sorprendente. Il singolo operaio mantiene infatti un certo margine di autonomia nell’applicazione delle direttive della produzione e questo margine permette di mantenere un po’ di controllo sui tempi di lavoro e sulla realizzazione delle opere.
Il lavoro finito e il varo della nave – descritto magistralmente in una delle pagine più emozionanti – restituiscono un senso di soddisfazione a chi ha messo mano alla costruzione: è un tema che ha affascinato notevolmente l’autore, che consapevolmente lo mette a fianco al dolore, alla fatica, alla sofferenza che ha avuto modo di conoscere. Anche per questo, di generazione in generazione si è trasmesso con così tanta tenacia un senso di orgoglio e di appartenenza che trasuda praticamente in ogni pagina. E la stessa passione politica che ha generato migliaia di quadri sindacali combattivi e determinati, così centrale nel volume, presenta legami e influenze con l’orgoglio dell’identità operaia.
Sono tanti e ben descritti i profili di militanti che Bottalico ha conosciuto direttamente e indirettamente: l’appartenenza politica ha rappresentato un elemento di tenuta e di riconoscimento reciproco fortissimo nella storia del cantiere.
Altri due libri vengono alla mente leggendo Il fuoco a mare. Il primo è Amianto. Una storia operaia (Agenzia X, 2012), scritto da Alberto Prunetti. Amianto narra attraverso il racconto di Alberto le vicende reali accadute al padre Renato. Operaio tubista specializzato, ha viaggiato in lungo e in largo per l’Italia mantenendo sempre un rapporto strettissimo con la Toscana costiera e il territorio circostante. Il contatto costante con l’amianto ha portato Renato Prunetti ad ammalarsi e a morire.
Il libro è però anche un libro in cui non mancano toni scanzonati, episodi comici, spaccati di una comunità operaia vivace e attiva, toni che d’altronde non mancano neanche ne Il fuoco a mare, costellato di piccoli e grandi eventi che strappano al lettore anche parecchie risate. Come nel libro di Bottalico, in Amianto si percepisce poi la medesima capacità di restituire quell’identità tra persone, lavoro e territorio che oggi sembra annidata in un tempo lontanissimo ma che è in realtà molto più vicina a noi di quanto potrebbe sembrare.
Probabilmente non è un caso se queste due narrazioni (Il fuoco a mare e Amianto) così profonde e calate sul territorio vengano da due realtà operaie apparentemente marginali rispetto ai grandi centri della siderurgia e della produzione cantieristica, quali ad esempio Taranto e Genova. Questi grandi centri sono stati recentemente al centro anche di grandi crisi e di un racconto che però ha seguito per lo più le strade della narrazione mediatica, nonostante siano presenti sul territorio realtà operaie anche molto combattive. Le malattie legate all’amianto sono tra l’altro molto presenti, come altre numerose malattie professionali, anche nel volume di Bottalico, dove sono descritti anche numerosi incidenti mortali, avvenuti dentro il cantiere.
L’altro libro che voglio ricordare è invece Minatori della Maremma, scritto da Carlo Cassola e da Luciano Bianciardi nel 1956 (Laterza). Il volume è il frutto di un lungo lavoro di documentazione effettuato tra il 1952 e il 1954 dagli autori nelle campagne e nella frazioni del grossetano, con l’obiettivo di raccontare le condizioni di vita e di lavoro dei minatori. Il 4 maggio 1954 la miniera di Ribolla, al centro della ricerca di Cassola e Bianciardi, esplose e morirono 43 operai. Il volume di Bottalico ha molti punti in comune con Minatori sul piano dello stile e della metodologia.
Cassola e Bianciardi costruirono infatti la prima parte del libro attorno a statistiche, a indagini sociologiche, a ricostruzioni storiche relative alla nascita, all’insediamento e allo sviluppo delle attività minerarie, per poi soffermarsi sulle condizioni di lavoro, sulle malattie, sulle condizioni di vita dei minatori, includendo nella parte finale 17 interviste. La tensione tra l’attività scientifica e la narrazione letteraria produce un equilibrio che restituisce in modo impareggiabile il contesto descritto. Qualcosa di simile avviene, sessant’anni dopo, ne Il fuoco a mare. Come sembra simile anche la consapevolezza di raccontare un mondo in procinto di finire, ma ancora capace di stupire: il mondo minerario nella Maremma del dopoguerra, il mondo della città-cantiere nella Campania di oggi.

Questo pezzo è uscito sul numero 85 di Meridiana. Rivista di storia e scienze sociali (editrice Viella), che ringraziamo.

Fonte: minimaetmoralia.it 

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