La crisi è quel momento in cui il vecchio muore e il nuovo stenta a nascere. Antonio Gramsci

martedì 28 marzo 2017

Come avete potuto vivere senza reddito di base?

di Giuseppe Allegri 
1. Una doppia premessa
A. UBI, Universal Basic Income come reddito di esistenza
UBI è l’acronimo di Universal Basic Income: reddito di base universale. È l’aspirazione a prevedere una misura universale e incondizionata di protezione sociale attraverso la quale ciascuna persona residente in una determinata società politica riceve regolarmente dalle istituzioni pubbliche una somma di denaro sufficiente a condurre un’esistenza degna. Garantirebbe la tutela dello Ius existentiae, per questo sarebbe meglio chiamarlo “reddito di esistenza”, «revenu à vie», reddito a vita, «revenu social» svincolato dal tempo di lavoro, come lo definiva André Gorz nel suo libro Les chemins du paradis (1983). Si diceva che è “un’aspirazione”, perché in tutto il mondo solo lo Stato di Alaska, dal 1982, redistribuisce a tutti i suoi cittadini residenti, inclusi i bambini, un dividendo annuale (Permanent Fund Dividend – PFD) che nel 2016 ammontava a poco più di mille dollari a testa, frutto dei proventi dell’estrazione del petrolio.
Il tema del reddito di base universale ha una sua storia plurisecolare che lega dibattiti e lotte per l’emancipazione individuale e la solidarietà collettiva intorno alle diverse ipotesi di garanzia di un reddito (dividendo sociale, basic income, allocation universelle, reddito di cittadinanza, etc.), dalla visione umanista di Thomas More nel XVI secolo, a quella libertaria e solidale di Philippe Van Parijs nel passaggio di millennio. Dalla previsione dei “soccorsi pubblici” nei testi e nelle pratiche costituzionali in Europa dopo il 1789, alle misure universali di sostegno al reddito in alcuni dei modelli sociali del secondo Novecento, a partire dal reddito minimo garantito, contro l’esclusione sociale. Fino all’attuale confronto intorno al Basic Income come assicurazione sulla vita al tempo dei robot (Basic income as an insurance policy for the robot takeover).
C’è una peculiarità tutta italiana di rimanere spesso al di fuori di questi dialoghi e pratiche, se si eccettuano rari, e poco conosciuti, tentativi. Ad esempio agli albori del costituzionalismo contemporaneo, con l’analisi di Pietro Custodi (1771-1842) che nel 1801, per fuoriuscire dal sistema cetuale e feudale, propose una «tassa unica sulle eredità» per generare una rendita pubblica «così le classi attive della società troverebbero un mezzo di sussidio inesauribile nel fondo medesimo delle pubbliche rendite», nel senso di uno «stabilimento di perpetua beneficienza», «provvedendo esso a ciò che fu finora obbliato (sic!) in tutti i progetti di costituzioni repubblicane, a mantenere cioè una minore ineguaglianza nelle proprietà dei cittadini». Per arrivare alla crisi della società salariale, con lo scavo teorico degli studiosi post-operaisti intorno al reddito di base/di cittadinanza, tra la metà degli anni Settanta del Novecento e il successivo passaggio di secolo dei nuovi movimenti sociali che giungono alla Democrazia del reddito universale (1997) e Reddito per tutti (2009), volumi editati da manifestolibri.
B. Re Ubu/Padre Ubu: alle origini della patafisica Il nostro Re Ubu, anzi Padre Ubu è un burattino, protagonista di un ciclo di opere teatrali del genio visionario e iconoclasta di Alfred Jarry (1873-1906).
Come è stato più volte raccontato «la personalità del burattino è una figurazione grottesca e demonicamente ambigua dell’universalità, un’astrazione che agisce come impassibile dileggio delle rimozioni» (Alfredo Giuliani, Prefazione a A. Jarry, Ubu, Adelphi, 1977). E qui si vorrebbe giocare sull’assonanza Ubu/UBI per mettere alla berlina la rimozione che nel dibattito pubblico, soprattutto italiano, ha da sempre incontrato una ragionevole proposta di Welfare universale fondata sulla garanzia di un reddito di base.
Facendo leva sugli insegnamenti di Alfred Jarry, inventore di quella patafisica che sarebbe servita anche a provare a spiegare l’universo supplementare al nostro: un universo supplementare a quello italico, dove finalmente la garanzia di un reddito di base universale possa essere frutto non solo della fervida immaginazione di un Padre Ubu, burattino e ora forse automa, ma di un concreto intervento di politiche pubbliche solidali, al servizio della libera autodeterminazione delle persone.
Per questo UBI è il re, più di Re Ubu: Universal Basic Income è il vero Re. Che può operare a partire dalla garanzia di un reddito di base, iniziando con l’introduzione di un reddito minimo garantito, previsto come garanzia sociale universale, individuale e indirizzata alle persone che sono a maggiore rischio di esclusione sociale. Perché «disporre di un reddito di base, sia esso nella forma di reddito di cittadinanza o in quella di reddito minimo, rientra a pieno titolo nei diritti» di quella che potremmo definire come una nuova cittadinanza sociale (così ora E. Granaglia, M. Bolzoni, Il reddito di base, Ediesse, 2016).
2. Nuove protezioni sociali, finalmente?
Partire dalla previsione di un reddito minimo garantito, strumento previsto da decenni, in diverse forme e modalità, nella gran parte dei Paesi europei, permetterebbe l’aggiornamento del nostro Welfare in senso universalistico, partendo dalla promozione delle condizioni di vita delle persone più vulnerabili, e contribuirebbe a definire anche in Italia uno spazio di riflessione culturale, azione sociale e intervento politico intorno alle possibilità di un vero e proprio reddito di base universale e incondizionato (UBI, appunto) che permetta di tenere insieme le spinte dell’innovazione tecnologica con l’esigenza di inclusione sociale. Un primo passo insomma per affermare una nuova idea di società in grado di prevedere protezioni adeguate all’evolversi dell’insicurezza sociale, fondate sulla prospettiva universalistica di solidarietà post industriale, nuovo Welfare multilivello, garanzia di istruzione e benessere sociale, a partire dal reddito di base. Per rimuovere, finalmente, settanta anni dopo, gli odiosi limiti di accesso alle garanzie sociali che marchiano a fuoco il nostro modello sociale repubblicano – «“Bismarck corporativo” degli anni ‘30 costituzionalizzato» – perché «per un incredibile paradosso, lo Stato sociale che si afferma nel secondo dopoguerra in tutto il mondo occidentale per allargare l’“area della cittadinanza”, nel nostro Paese la restringe. Invece che avere un carattere “inclusivo”, lo Stato sociale all’italiana lo ha “esclusivo”, poiché non riconosce i diritti sociali a tutti i cittadini indistintamente ma soltanto ai lavoratori»1. E allora la previsione di un reddito di base servirebbe a garantire l’indipendenza e la promozione sociale delle persone in un rapporto fiduciario e solidale tra individui, società e istituzioni. Tanto nel caso di un reddito di base, universale e incondizionato, indirizzato a tutta la popolazione, indipendentemente da altre valutazioni. Quanto per il reddito minimo garantito in cui risulta previsto, sempre in prospettiva universalistica, ma solo per alcune condizioni, a rischio di esclusione sociale e povertà relativa.
3. Il reddito di base: utopia per i tempi presenti
Può apparire utopistico ragionare intorno ad ipotesi di reddito di base universale nell’Europa delle rigorose politiche di austerity, al tempo delle élite del capitalismo finanziario globale, quel “supercapitalismo” che pare produrre e diffondere sempre maggiori diseguaglianze e inedite forme di sfruttamento. E allora, per riprendere il contesto della frase di Philippe Van Parijs riportato all’inizio di questo intervento, si tratta forse di «un’utopia per i tempi presenti. Ma il sistema di assicurazione sociale obbligatoria introdotta da Bismarck nel XIX secolo era un’utopia ben più radicale: è stato il primo sistema di solidarietà organizzato dallo Stato. Un giorno ci domanderemo come abbiamo potuto vivere senza un reddito di base universale». Per dirla in altro modo, con le parole riportate da Rutger Bregman, altro fautore del basic income, citando lo storico statunitense Brian Steensland, l’idea di un reddito di base appare ora «inconcepibile, come lo furono nel passato le idee del suffragio universale femminile e della parità dei diritti per le minoranze etniche».
Per questo è urgente pensare una proposta che si articolerà necessariamente su diversi livelli politici e istituzionali – dal locale al continentale – facendo leva sul reddito di base, come diritto sociale fondamentale all’esistenza e misura adatta alla tutela della dignità e dell’autodeterminazione dell’essere umano, in un’epoca in cui la moltiplicazione e divisione sociale e globale della forza lavoro apre orizzonti quotidiani di vita messa al lavoro (sempre più scarsamente remunerato), sulle piattaforme digitali del “capitalismo cognitivo”, e disoccupazione di masse in movimento alla ricerca di una vita degna. Con gli effetti dell’innovazione tecnologica che potrebbero amplificare ulteriormente la riduzione dei posti di lavoro e impiego tradizionale a fronte della robotica evoluta, stando al celebre rapporto nel quale il World Economic Forum prevede la riduzione di milioni di posti di lavoro a fronte di digitalizzazione e robotizzazione di molti mestieri . Perciò diviene sempre più necessario immaginare un dividendo sociale, un reddito di esistenza nell’era digitale, che riconosca un «diritto sulla ricchezza prodotta, presente e futura, in rapporto alle condizioni reali entro cui detta produzione di ricchezza effettivamente si sviluppa», grazie alla coopera zione sociale in rete, tra diversi2. Un reddito di base che permetta a tutti di partecipare alla ricchezza collettiva prodotta da tutti.
4. Né con la Silicon Valley, né con le sorde classi dirigenti nazionali e globali?
Ed è proprio dal cuore della rivoluzione digitale e robotica, dalla Silicon Valley, e dall’acceleratore di imprese Y-Combinator, che viene la proposta di studiare per un determinato numero di anni gli effetti del reddito di base su un gruppo di persone, per indagare quali possano essere i comportamenti a fronte di una riduzione dell’impiego tradizionale e della possibilità di percepire un reddito sganciato dalla prestazione lavorativa . Anche se da più parti ci si domanda se questa non sia solo una sperimentazione che i miliardari della Silicon Valley mettono in conto alla loro beneficenza caritatevole, con la quale redistribuire una parte infinitesimale dei profitti realizzati, spesso con contenziosi fiscali che rimangono aperti, per apparire come “il poliziotto buono” che include con un’elemosina caritatevole gli esclusi dalla ricchezza sociale collettivamente prodotta e saccheggiata dal “poliziotto cattivo” che risiede a Wall Street3.
Certo è che le imprese innovative della rivoluzione digitale e robotica si pongono la domanda di quali garanzie e tutele sociali prevedere per i tempi presenti e futuri, in modo che si possa tenere insieme creatività, innovazione (tecnologica e non solo), libera autodeterminazione delle persone, sicurezza e cooperazione sociale. E lo fanno pronunciandosi in favore di un reddito di base: una dotazione economica di base per tutti, non un reddito minimo rivolto soltanto ai “poveri”4. Presentandosi come innovatori sociali e del mercato che aspirano ad essere degli innovatori istituzionali: rubando il campo ad una politica afona, sospesa tra ripiegamenti protezionistici, nazionalistici e vuoti istituzionali globali.
Infatti le istituzioni pubbliche dei diversi livelli di governo sono tuttora incapaci di accettare la sfida. E l’unico uomo politico che sembra pronunciarsi senza tentennamenti per un reddito di base, certo limitato agli under 25, è Benoit Hamon, vincitore delle primarie presidenziali 2017 del Partito socialista francese. Eppure siamo sicuri, ma speriamo di essere smentiti, non riuscirà ad accedere al secondo turno presidenziale del maggio prossimo, schiacciato tra la pesante impopolarità dei socialisti oggi al governo in Francia e dall’inutile concorrenza a sinistra di Jean-Luc Mélenchon, cocciutamente candidato per difendere la sua quarta posizione ottenuta al primo turno delle presidenziali del 2012.
Per questo è necessario inaugurare nuovi spazi di intervento pubblico e invenzione istituzionale per sperimentare le diverse ipotesi di reddito di base inteso come diritto sociale e di libertà basilare nell’età digitale, ai tempi della democrazia dell’algoritmo. Legandolo con un progetto di trasformazione sociale ed istituzionale che abbia come altri due elementi centrali l’investimento pubblico su un nuovo concetto di istruzione, con taglio intergenerazionale e in dialogo con la «seconda ondata del capitalismo cognitivo» e dell’età delle macchine (Big Data, Internet of Things, robotica, intelligenza artificiale, machine learning, industria 4.0, stampanti digitali 3D, etc.) e sul favorire attività e competenze che concorrono al progresso dell’umanità (transizione energetica, economia circolare, salute e benessere sociale, questione ecologica, alimentare, climatica, etc.)5. E sarebbe davvero curioso se questi spazi di pensabilità collettiva di nuova organizzazione sociale, a partire da un reddito di base, dovessero trovare un nemico proprio nelle istituzioni pubbliche. O anche nelle forze culturali e politiche solitamente più sensibili alla diffusione di progresso e inclusione sociale.
5. La miseria italiana: Workfare e leggi sui poveri 
Così si ritorna alla miseria italiana e al suo “dibattito” che sembra avvitato in una caricaturale macchietta, sospeso in un alone di nostalgia per un lavoro che si svolge sempre meno nelle forme tradizionali e cambia sempre più, sospeso com’è tra gratuito neo-servilismo, cooperazione sociale in assenza di retribuzione, vita indebitata e messa al lavoro, penuria di impieghi tradizionali, capacità di contribuire alla ricchezza sociale prodotta senza passare per le tradizionali mediazioni del “secolo del lavoro”. E allora da parte delle classi dirigenti si risponde con la proposta di introdurre un “lavoro di cittadinanza”, visione che accomuna progetti presentati negli anni dalla CGIL (fino a un milione di posti di lavoro di cittadinanza!), altre ipotesi ancora non poco chiarite da parte dell’ex-Presidente del Consiglio Matteo Renzi e prospettive suggerite in precedenza anche da Renato Brunetta, già Ministro nell’epoca berlusconiana del “milione di posti di lavoro in più”; strana assonanza con le sirene sindacali, effettivamente. Un rumore di fondo che dal tentativo di ricerca di un benessere sociale nel Welfare ci conduce al lavoro permanente nel Panopticon del Workfare statale.
Così la nuova legge sulla povertà assoluta, approvata il 9 marzo 2017, è rivolta a famiglie con un reddito ISEE sotto i 3 mila euro annui (DdL AS 2494, Delega recante norme relative al contrasto della povertà, al riordino delle prestazioni e al sistema degli interventi e dei servizi sociali), si inserisce sulle orme della Social Card (carta acquisti) del Governo Berlusconi (2008) e vincola l’erogazione di una non meglio quantificata entità monetaria all’adesione da parte del beneficiario ad un “progetto personalizzato di attivazione e di inclusione sociale e lavorativa”, anche questo ancora del tutto indefinito. Il messaggio è chiaro: chi è già in condizioni di esclusione sociale e povertà assoluta deve dimostrare di meritarsi il sostegno economico (prevedibilmente modico), dichiarandosi disponibile al lavoro. È una nuova legge sui poveri, che miscela paternalismo e Workfare, al posto di emancipazione e Welfare. L’inclusione passa per il ricatto del lavoro, giocando su quel «doppio legame vizioso», descritto dal formidabile intelletto che ha deciso di lasciarci troppo presto di Mark Fisher (Buono a nulla, Good for Nothing), imposto ai disoccupati di lunga durata nel Regno Unito: essere considerati per tutta la vita dei “buoni a nulla”, eppure sempre pronti e disponibili a fare qualsiasi cosa per meritare “i sussidi”.
Per riprendere la virulenta parlantina del Padre Ubu citato in apertura, sembra avverarsi la cupa distopia di moltitudini di “forzati con berretto verde”, occupati in un qualche lavoretto, un lavoro purché sia, in condizioni che sono quelle di carcerati! Ma forse è anche peggio, perché dinanzi a quello che viene percepito come “l’incubo delle macchine che prendono il posto dell’uomo”, nei tempi austeri di “sacrifici” mai messi in discussione per le classi (in-)operose e di rischio esclusione sociale sempre più ampio, si reagisce con schemi mentali retaggio di un’epoca passata, quella di leggi che mortificano i poveri e di una ancestrale diffidenza nei confronti dell’innovazione sociale e tecnologica.
6. Épater le robot et la télévision? A quarantanni dal 1977
Si tratta in realtà di fare i conti con un “non detto” culturale che attraversa la sinistra politica e sindacale da decenni, dall’epoca del compromesso storico. Era l’inizio della nuova “grande trasformazione”, il cuore degli anni Settanta del Novecento che macinava movimenti e trasformazioni sociali, economiche, culturali, rispetto alle quali le strutture partitiche e sindacali della sinistra istituzionale rimanevano impermeabili, quando non antagoniste. In quegli stessi anni in cui si sbandierava l’urgenza dell’Austerità, occasione per trasformare l’Italia (celebre pamphlet pubblicato per Editori Riuniti, 1977, un altro anniversario), il Pci di Berlinguer portò avanti, in accordo con un nobile conservatore come Ugo La Malfa, una strenua lotta contro la TV a colori, che fu infatti introdotta nel Bel Paese oltre un decennio dopo il resto d’Europa, proprio nel febbraio di quell’annus mirabilis, (o horribilis, a seconda delle sensibilità) che fu il 1977, del punk e della prima disco music, anche. Non si tratta solo di un semplice riflesso pavloviano, da comunismo reazionario che si batteva perché televisore e lavatrice fossero esclusivamente previste a livello di condominio. Ci ricorda Claudia Mancina in un libro molto discusso (Berlinguer in questione, Laterza, 2014) che quello è il periodo delle aperture di Berlinguer e della classe dirigente comunista nei confronti della cultura anti-moderna, pastorale e paternalistica tipica del cattolicesimo italiano, nel mezzo di movimenti di giovani, donne e irregolari che nella primavera bolognese sempre dello stesso 1977 verranno bollati come “untorelli”. Forse anche perché quella generazione di giovani voleva radio e tv libere, oltre che un reale affrancamento dal paternalismo del patriarcato catto-comunista. E oggi potrebbe farci sorridere questa grigia e totalitaria visione della politica e delle esistenze propagata dal Pci, ma lì si situa un danno culturale che ancora ammorba l’aria di questo Paese. Perché quella del Pci non era la provocazione di un geniale Enrico Baj che nel 1983 lancerà il suo Épater le robot, un Manifesto per un Futurismo Statico contro l’eccesso tecnologico nelle nostre vite sociali, ancor prima che artistiche. Né l’intuizione visionaria di un uso potente delle tecnologie come quella di Carmelo Bene che porta sul palco un attore-automa, il Neri, da opporre a Giannetto, in una epica versione della Cena delle beffe del 1974, poi non a caso riproposta nel 1989.
Ad essere consequenziali fino in fondo il mònito del comunismo italiano che ancora echeggia non certifica solo l’abbandono culturale e politico dell’adagio leninista in base al quale il socialismo sia il potere dei soviet più l’elettrificazione di tutto il Paese, ma inaugura una tendenza culturale di lungo corso di quella sinistra malinconica e conservatrice, pronta a rimpiangere una passata e supposta età dell’oro, che mai si è vissuta e sempre si guarda con incantamento, che pericolosamente si avvicina alle più cupe torsioni conservatrici.
7. Reddito di base: per una visione mediterranea dentro la Silicon Valley globale
Per tutto questo, in questi tempi politici neo-reazionari che ci toccano in sorte, tra richiami alla patria e alla nazione, all’intolleranza xenofoba e identitaria, all’edificazione di muri materiali e mentali, contro la libera circolazione delle vite umane, tra nuovi protezionismi e tradizionali corporativismi di classi dirigenti nazionali e globali, non ci rimane che essere fino in fondo dalla parte di un reddito di base come duplice strumento di emancipazione.
Il reddito di base per organizzare le istituzioni dell’intelletto generale e collettivo nella Silicon Valley globale, per dirla anche con Franco Berardi nel suo intervento contenuto in questo Quaderno per il Reddito. Il reddito di base per ripensare le garanzie sociali e le forme dei molteplici lavori, attività e imprese autonome e collettive contro le secche alternative del moderno, che riducono lo Stato e il mercato all’individuo predatorio e al pubblico parassitario, subordinando le persone al ricatto del lavoro (oramai povero, squalificato, immiserito, etc.) e alla sua mancanza.
Si tratta di reinventare la modernità, forse proprio a partire dalle possibilità sopite in questo Paese, lasciandosi guidare dall’accelerazione digitale delle nuove generazioni e da quell’indomita esigenza di autonomia, indipendenza, solidarietà e condivisione che storicamente attraversa lo sguardo mediterraneo verso il futuro e le altre sponde del mondo. Provare a pensare concretamente le invenzioni dell’ingegno umano come strumenti collettivi per risparmiare fatica, guadagnare in libertà delle scelte e dei tempi di vita, facendo affidamento in quel dialogo intergenerazionale che porterà i nostri figli e nipoti a domandarci, riprendendo il Philippe Van Parijs riportato all’inizio di questo intervento: «come avete potuto vivere senza reddito di base?».

Note:
1. La prima citazione è ripresa da G. Balandi, L’eterna ghirlanda opaca: evoluzione
e contraddizione del sistema italiano di sicurezza sociale, in Lavoro e Diritto, n. 2/2015, 313-327, quindi L. Di Nucci, Alle origini dello stato sociale nell’Italia repubblicana. La ricezione del Piano Beveridge e il dibattito nella Costituente, in C.
Sorba (a cura di), Cittadinanza. Individui, diritti sociali, collettività nella storia
contemporanea. Atti del convegno annuale SISSCO Padova, 2-3 dicembre 1999, Roma, 2002. Per la riproposizione di un garantismo sociale oltre la subordinazione sia concesso rinviare a G. Allegri, Per un nuovo garantismo sociale. Una rilettura costituzionale oltre la società salariale, in Rivista Critica del Diritto Privato, n. 4/2015, 613-624 e G. Allegri, G. Bronzini, Libertà e lavoro dopo il Jobs Act. Per un garantismo sociale oltre la subordinazione, Roma, 2015.
2. P. Van Parijs, Un jour, nous nous demanderons comment nous avons pu vivre sans revenu universel de base, in Les Temps, 18/2/2016 (trad. nostra).
3. R. Bregman, Utopia for Realists. The case for Universal Basic Income, Open Borders and a 15-hour workweek, The Correspondent, 2016, p. 129 (trad. nostra). In italiano è stata pubblicata un’anticipazione di questo volume Id., Reddito di uguaglianza, in Internazionale, n. 1168, 26 agosto 2016, 38-44 e per aprile 2017 è prevista la traduzione del libro per i tipi di Feltrinelli.
4. Presentano una nuova cartografia e genealogia della divisione sociale e internazionale del lavoro nel capitalismo globalizzato S. Mezzadra, B. Neilson, Confini e frontiere. La moltiplicazione del lavoro nel mondo globale, Bologna, 2014 [2013]. Ripensa gli spazi di un reddito garantito nel capitalismo immateriale e cognitivo Y. Moulier-Boutang, Le capitalisme cognitif. La Nouvelle Grande transformation, Paris, 2007. In un piccolo effervescente e provocatorio pamphlet, riprende il tema della fine dell’impiego tradizionale, per ripensare le forme della libertà attiva e dell’operosità, B. Stiegler, L’emploi est mort, vive le travail! Entretiens avec Ariel Kyrou, Paris, 2015, già autore di studi intorno a La Société automatique. 1. L’avenir du travail, Paris, 2015.
5. Cfr. World Economic Forum, The Future of Jobs Report: http://reports.weforum.org/future-of-jobs-2016/.
6. Così l’analisi del giuslavorista F. Martelloni, Il reddito di cittadinanza nel discorso giuslavoristico, in Rivista di Diritto della Sicurezza Sociale, n. 1/2014, 204. 
7. Se ne è parlato anche nel dibattito italiano manistream: R. Luna, Reddito minimo per tutti nell’era dei robot: l’ultimo sogno della Silicon Valley, 4/5/2016 e l’intervista al “creatore” di Y Combinator, intorno all’idea di basic income (e non reddito minimo garantito, quindi): Id., Paul Graham (Y Combinator): «Perché voglio il reddito minimo nell’era delle startup». Si riportano gli interventi di Riccardo Luna poiché, oltre ad essere un giornalista esperto in innovazione tecnologica (già direttore dell’edizione italiana di Wired), tra il 2014 e l’estate 2016 è stato consulente per l’Agenda Digitale del Governo italiano in qualità di Digital Champion, ma non risulta abbia posto all’attenzione delle istituzioni governative il tema del reddito minimo e/o del basic income nelle trasformazioni dell’economia digitale.
8. E. Morozov, Silicon Valley talks a good game on ‘basic income’, but its words are
empty, in The Guardian, 28/2/2016, osserva che «Basic income is seen as the Trojan horse that allows tech companies to say we are the good cop to Wall Street’s bad cop». Mentre è noto il contenzioso fiscale che vede triangolare Commissione europea, Irlanda ed Apple, intorno ai 13 miliardi di dollari di tasse che la Ue ritiene non siano state pagate dalla società di Cupertino nei suoi accordi commerciali con l’Irlanda, cfr. P. Sweeney, On Apple Tax, State Must Side With Its Citizens, in Social Europe, 7 september 2016.
9. Si insiste su questo aspetto poiché, nel dibattito italiano, spesso si traduce con
“reddito minimo garantito” l’espressione inglese “basic income”, come accaduto anche per l’oramai classico lavoro di E. Brynjolfsson, A. McAfee, La nuova rivoluzione delle macchine. Lavoro e prosperità nell’epoca della tecnologia trionfante, Milano, 2015 (2014), nel cui capitolo 14, nella versione inglese, si dichiara in favore del basic income e nella traduzione italiana troviamo «ripensare il reddito minimo garantito».
10. Riprendo questi spunti da Y. Moulier-Boutang, L’automation intellectuelle, la mort de l’emploi et le revenu de pollinisation, in Multitudes, n. 58, Printemps 2015, che sono in realtà dentro un ampio e oramai duraturo dibattito continentale e globale intorno alle visioni di un post-capitalismo possibile, a partire da P. Mason, PostCapitalism. A Guide to Our Future, London, 2015, T. Scholz, N. Schneider (Eds.
by), Ours to Hack and to Own, New York and London, 2016, N. Srnicek, A. Williams, Inventing the future. Postcapitalism and a World Without Work, London, 2015, N. Srnicek, Platform Capitalism, London, 2017. 

Fonte: bin-italia.org 

Nessun commento:

Posta un commento

Nota. Solo i membri di questo blog possono postare un commento.