La crisi è quel momento in cui il vecchio muore e il nuovo stenta a nascere. Antonio Gramsci

venerdì 6 ottobre 2017

Populismo e Stato sociale. Alla radice del problema

di Ugo Carlone
C’è un pericolo, in Europa e nel mondo, che ha un nome ben preciso: si chiama populismo. E al combattere questo pericolo, Tito Boeri, attuale presidente dell’Inps, ha dedicato un breve, ma denso e chiarissimo libro da poco uscito per Laterza, Populismo e stato sociale. Secondo l’economista, i partiti europei che si ispirano a questa area “offrono un messaggio semplice quanto pericoloso: interrompere il processo di integrazione europea e chiudere le frontiere agli immigrati, per meglio proteggere le persone più vulnerabili dalle sfide della globalizzazione”. Un messaggio che mina alle basi uno dei principi cardine dell’integrazione europea, quello della libera circolazione delle persone nella UE. Vediamo dapprima, in sintesi, quali sono le principali posizioni sostenute nel testo; poi, proviamo ad avanzare qualche considerazione critica.
I populisti
Chi sono i populisti? Per rispondere a questa domanda, Boeri fa riferimento a due definizioni. La prima è quella dell’Enciclopedia Britannica: “i populisti affermano di essere i protettori dell’interesse del cittadino medio contro le élites: assecondano le paure e gli entusiasmi del popolo e si fanno promotori di politiche senza considerarne le conseguenze per il paese”. Questa enunciazione ha il merito di mettere in luce “gli orizzonti angusti della strategia politica” populista: il fatto di offrire “una protezione di brevissimo respiro, apparentemente immediata, ma al tempo stesso del tutto inefficace nel volgere di poco tempo“. Alzando i muri, chiudendo le frontiere e tornando al protezionismo negli scambi commerciali, tipici obiettivi dei partiti populisti, si rischia di mettere in moto meccanismi tutt’altro che positivi per le economie che si vogliono difendere, con risultati controproducenti. Ad esempio, la perdita perdita di posti di lavoro per le minori esportazioni e il serio rischio di sostituire immigrazione regolare con immigrazione clandestina, cioè qualcosa di ben più difficile da gestire.
La seconda definizione è quella del politologo olandese Cas Mudde, autore di Populist Radical Right Parties in Europe: il populismo è una “ideologia” e una conseguente strategia politica leggera, “che considera la società come composta da due gruppi omogenei, da due blocchi monolitici, tra di loro contrapposti: da una parte il popolo, dall’altra l’élite (declinata al singolare)”. Il pregio di questa definizione è quello di evidenziare come “il peggior nemico del populismo sia ‘tutto ciò che sta nel mezzo’, i cosiddetti corpi intermedi della società civile”: l’associazionismo, i partiti, le rappresentanze degli interessi (in primis i sindacati), le istituzioni di garanzia, le autorità indipendenti di controllo, etc.. “La democrazia dei populisti è la democrazia diretta che assegna un potere assoluto alla maggioranza, trasformandosi paradossalmente nella dittatura della maggioranza paventata da Alexis de Tocqueville“. Una visione della democrazia contrapposta a quella del checks and balances. Del resto, molte dittature sono nate proprio da argomenti populisti.
I partiti populisti hanno una lunga storia (il termine si deve al People’s Party, attivo alla fine dell’Ottocento negli Stati Uniti), anche se le concrete esperienze di governo sono rare e concentrate soprattutto in America Latina. Qui, sostiene Boeri, l’esperienza dei diversi populisti (di destra e di sinistra) è caratterizzata ovunque da un iniziale idillio, dovuto a strategie che guardano “ai risultati immediati ignorando le conseguenze di lungo periodo”: politiche espansive e ottimismo che contagia i mercati. Poi, quando i vincoli macroeconomici cominciano a imporre le loro leggi, inizia l’inevitabile discesa: si creano “colli di bottiglia” che portano man mano al crollo dei salari reali, a forti difficoltà nella bilancia dei pagamenti, poi ad un’inflazione galoppante, alla crisi e al collasso dei sistemi economici. Per finire con pesanti interventi del Fondo Monetario Internazionale, in una logica complessiva del tutto autodistruttiva.
In Europa, i diversi, e ormai numerosissimi, partiti populisti presentano differenze importanti, anche perché possono essere connotati da un’impostazione “di destra” o “di sinistra”; tutti però, per Boeri, sono a forte vocazione anti-europeista, sovranista e, quasi sempre, anti-immigrazione. Hanno avuto un rilievo crescente a partire dalla Grande Recessione, traendo linfa vitale dall’esplosione del problema dei rifugiati. Oggi, raggiungono il 10% dei consensi in almeno 20 paesi europei; mediamente, conquistano il 17%; in 5 paesi (tra cui Boeri inserisce l’Italia, pensando al M5S) sono il primo partito; in 7 (5 dell’Ue) sono al governo. E i sondaggi li danno in deciso aumento.
Il fatto è che si sono dimostrati capaci di incidere in maniera fortissima sulle dinamiche politiche in cui sono inseriti, probabilmente ben oltre il loro effettivo seguito. Boeri, per questo, pensa che sia fondamentale individuare antidoti al populismo “anche quando non c’è un rischio concreto che questi partiti possano andare al potere”. Perché? Semplice: perché, “per certi aspetti, al potere lo sono già”. Hanno un’influenza diretta, laddove sono effettivamente al potere; se non lo sono, monopolizzano l’opposizione, obbligando gli altri partiti a costruire grandi coalizioni troppo eterogenee, e quindi inefficaci; dimostrano una grandissima capacità di “porre al centro del confronto i temi a loro più congeniali”, unita a quella di “spostare le piattaforme degli altri partiti”: questi, per non perdere terreno, inseguono gli argomenti dei populisti, spesso abdicando a principi fondamentali (come la libera circolazione delle persone). “Molto anti-europeismo” dei leader di oggi può essere letto proprio come “il tentativo di occupare uno spazio che altrimenti sarebbe destinato ai partiti populisti”.
Il successo
Ma cosa c’è dietro al successo dei partiti populisti? Perché il populismo è un “fenomeno diffuso e potenzialmente maggioritario”? Boeri è chiarissimo: alla base c’è una “tensione latente tra domanda e offerta di protezione sociale“, dovuta a fenomeni di lunga durata e all’effetto della crisi. E questa tensione è l’effetto di due fattori: uno di tipo economico, la perdita di reddito e di sicurezza; l’altro di tipo culturale, la sfiducia verso le classi dirigenti. Da un lato, “una crescente vulnerabilità ai cambiamenti tecnologici e alla globalizzazione di vasti strati della popolazione alimenta una forte domanda di protezione”; dall’altro, “non ci si fida di chi dovrebbe offrire questa protezione e, dunque, si avverte la necessità di rivolgersi ad outsiders che non abbiano apparentemente alcun legame con la classe dirigente”. Questi due ingredienti si incrociano tra loro: uno dei due, da solo, probabilmente non basterebbe a giustificare l’affermazione dei populisti. Negli ultimi decenni, prosegue Boeri, i ceti medio-alti, nel mondo, hanno pagato un prezzo molto alto alla globalizzazione: “coloro che si trovavano trent’anni fa fra il 25% e il 5% più ricco della popolazione mondiale hanno subìto, nei venti anni successivi, un brusco peggioramento della loro posizione relativa nella scala dei redditi, non partecipando alla crescita globale”. Nei piani più bassi della stratificazione sociale, invece, il progresso tecnologico ha portato ad una polarizzazione delle opportunità di impiego, “esponendo la parte inferiore del ceto medio al rischio povertà” e “rendendo socialmente vulnerabili persone che non avrebbero mai pensato di esserlo”. La crisi e la diminuzione delle opportunità di mobilità sociale si sono accompagnate ad una “profonda sfiducia nei confronti di chi dovrebbe offrire protezione sociale”: certo, sostiene Boeri, “poco importa se le classi dirigenti dei diversi paesi hanno effettivamente responsabilità nella crisi o se questa sia dovuta a fattori esterni”; a contare è che esse “vengono percepite come corrotte e lontaneanni luce dai cittadini”. Da qui, il “tentativo disperato di riguadagnare sovranità nazionale per redistribuire risorse a favore di chi è rimasto indietro”. Con un paradosso evidente, tra l’altro: l’Ue non ha tolto sovranità nelle politiche sociali, anzi, tra i difetti comunitari c’è proprio il fatto che esistano tante “Europe sociali” distinte e non armonizzate.
E quale minaccia alla sovranità nazionale può essere più forte dell’immigrazione? Secondo i populisti (di destra, aggiungiamo noi), gli stranieri sono come “spugne dello stato sociale” e tolgono sovranità nel welfare state. Ci sono “mistificatori di professione” per i quali la spesa sociale viene tagliata per colpa degli stranieri. Ovviamente, “scaricare queste responsabilità sugli immigrati significa additarli all’odio di molti nostri concittadini”. Ma gli stranieri sono un comodo capro espiatorio: “visibili, circondati spesso da pregiudizi, con forti difficoltà di integrazione culturale e sociale”. Un tema che polarizza l’opinione pubblica; di più, “il terreno ideale per chi vuole scomporre, ricomporre e riallineare gruppi di elettori”. E non è vero che gli immigrati provochino crisi nei sistemi di protezione sociale. Qui, Boeri tocca un tasto già da lui battuto altrove. Nel nostro paese, gli immigrati versano 8 miliardi di contributi sociali all’anno, e ne ricevono 3 in pensioni e prestazioni sociali: quindi, il saldo è di + 5 miliardi per l’Inps. È vero, ci saranno le future pensioni: ma è noto che molti contributi, nel caso degli stranieri, non si trasformino in pensioni. Negli altri paesi europei, gli studi disponibili evidenziano il contributo economico positivo degli immigrati nei sistemi di protezione sociale: sovrarappresentati, sì, fra i beneficiari di assistenza sociale; ma sottorappresentati fra quelli di tipo contributivo; e “dato che i trasferimenti assistenziali assorbono una quota molto più bassa della spesa sociale dei trasferimenti contributivi, il saldo complessivo è positivo“. Boeri riconosce come sia più difficile valutare l’impatto fiscale generale della presenza dell’immigrazione: gli stranieri hanno meno bisogni sanitari, perché sono mediamente più giovani; ma più bisogni educativi, per lo stesso motivo e perché fanno più figli. Ma “tutti gli studi di cui siamo a conoscenza” mettono in luce un sostanziale saldo netto positivo per la fiscalità generale. E c’è di più: non dovremmo mai dimenticare che gli immigrati “hanno reso più competitive le nostre imprese e risolto i problemi di molte famiglie italiane nel colmare le falle evidenti del nostro stato sociale nell’aiutare le persone non-autosufficienti”.
La percezione dell’immigrazione è notevolmente peggiorata, poi, per effetto dell’impennata dei rifugiati. Le richieste di asilo nel mondo, documenta Boeri, sono più che quintiplucate negli ultimi anni: da 500.000 a 2.500.000 all’anno. E l’immigrazione dei rifugiati è molto diversa da quella cosiddetta economica: innanzitutto, è uno degli esiti tragici dei conflitti armati (origina dal fattore push, non da quello pull), per cui raramente si può scegliere dove andare, con conseguente limitato inserimento nel mercato del lavoro del paese ospitante; poi, le migrazioni dei rifugiati avvengono per grandi ondate, per cui l’integrazione è ovviamente più difficile (anche perché si pensa di rimanere poco tempo nel paese d’arrivo, anche se poi questo effettivamente non accade); infine, è diversa la normativa: il richiedente asilo non può lavorare, quindi riceve trasferimenti pubblici senza contribuirvi, e questo non fa che peggiorarne l’immagine. Insomma, il risultato è che, a tre anni dall’arrivo, i rifugiati hanno il 50% in meno di possibilità di lavorare rispetto agli immigrati economici; e l’integrazione sociale è “inscindibilmente legata” a quella nel mercato del lavoro.
Che fare
Di fronte a tutto ciò, il populismo, secondo Boeri, fornisce le “risposte sbagliate ai problemi da cui trae la propria forza”. Il modo migliore per contrastarlo è affrontare le questioni “alla radice anziché accettare le libere associazioni della propaganda populista”. Come? Prima di tutto, rimuovendo “quelle iniquità che trasmettono all’opinione pubblica l’immagine di una classe dirigente corrotta che pensa esclusivamente ai propri interessi”. Poi, rispondendo “in modo convincente alla richiesta di protezione”. Per far questo, occorre separare i problemi dello stato sociale da quelli dell’immigrazione, perché si tratta di questioni disgiunte, da affrontare a un differente livello di governo: quella dello stato sociale, a livello statale; quella dell’immigrazione, inevitabilmente a livello europeo.
Nei singoli paesi, è quantomai necessario riformare la protezione sociale, rendendola sostenibile di fronte alle sfide della globalizzazione e del cambiamento tecnologico. I sistemi di welfare europei sono costruiti soprattutto per far fronte a crisi temporanee (i sussidi di disoccupazione, la Cassa Integrazione, etc.): occorre trasformare la protezione sociale da “ciclica” a “strutturale”. Compito non certo semplice. Servono, secondo Boeri, strumenti che facilitino la ricollocazione professionale e il cambiamento di lavoro; assicurazioni che integrino i salari nel caso in cui si accetti un nuovo lavoro meno retribuito; interventi che non inibiscano la mobilità territoriale; investimenti costanti sulla formazione nel posto di lavoro; e poi, un Reddito Minimo Garantito per chi non ce la fa. Su quest’ultimo punto, Boeri pensa ad una misura selettiva e condizionata: solo per i più poveri, quindi non universale; e solo per chi fornisce “prova” della propria situazione reddituale e si impegna, se può lavorare, a cercare attivamente un impiego. Insomma, non un Reddito di Base universale e incondizionato. Tutto ciò, però, non basta: occorre anche rendere sostenibile il welfare state, soprattutto nel nostro paese. E questo lo si fa evitando di disperdere risorse a favore chi già sta bene (in Italia, solo 3 euro su 100 per prestazioni sociali vanno al 10% più povero della popolazione, mentre quasi 5 miliardi di euro sono destinati a prestazioni assistenziali rivolte al 40% più ricco) e basando lo stato sociale su un principio effettivamente assicurativo (prestazioni erogate sulla base dei contributi versati).
A livello europeo, invece, vanno gestiti i problemi comuni. Qui, serve una politica omogenea sugli immigrati e sui rifugiati e una revisione della convenzione di Dublino. Per evitare “l’ecatombe di disperati”, Boeri propone di trovare un meccanismo (comune) per decidere sulle domande di asilo prima che si entri nella Ue, creare strutture di prima accoglienza fuori dai confini europei e raggiungere un accordo sulla condivisione fra gli Stati della prima accoglienza, con eventuali forme di compensazione fra paesi. Ma, secondo il presidente dell’Inps, siamo molto lontani da questo: anche perché i populisti sono già al governo in sette paesi europei.
Quanto all’obiettivo di rimuovere le iniquità a favore delle classi dirigenti e favorire un riavvicinamento tra cittadini e “politici”, Boeri sostiene l’approvazione del ricalcolo contributivo dei vitalizi destinati a chi ha avuto cariche elettive. Farebbe risparmiare 125 milioni di euro l’anno, cifra tutt’altro che simbolica. E, legato a questo tema, c’è la forte sottolineatura, nel testo, dell’importanza dei corpi intermedi, di “tutto quello che sta in mezzo” tra élite e popolo. Il ruolo dell’associazionismo nello scoraggiare il voto populista è documentato in molti studi. E i populisti “odiano” i corpi intermedi, perché sono tra i loro peggior nemici: contribuiscono a resistere alla “occupazione totale dei poteri” e offrono alternative “a chi sin qui non ha avuto voce in capitolo”. La questione è di fiducia, prima che di rappresentanza: “quando sei debole e insicuro cerchi qualcuno di cui poterti fidare. Se non lo trovi, non ti rimane che scommettere con la forza della disperazione sulle promesse di qualche bravo oratore”. La frustrazione “ti spinge solo a punire chi ti ha deluso, al di là della razionalità di questo comportamento”; “chi vota populista lo fa più che altro per soddisfare il desiderio di punire una classe politica che si è dimostrata in passato inadeguata in rapporto alle aspettative”. Ma, secondo Boeri, “chi appartiene a una qualche associazione della società civile, chi ha una tessera del sindacato in tasca, difficilmente cade nella propaganda populista”. Non manca, nel testo, una forte critica ai sindacati italiani, che non avrebbero tutelato, nel corso del tempo, chi è realmente bisognoso.
Nell’ultimo capitolo, infine, Boeri avanza la proposta di una “modesta” ma “fattibile” misura, che si può concretizzare sin da subito e senza necessità di approvare nuove leggi: un unico codice identificativo contributivo europeo, per ogni persona. Sembra poco (e forse lo è), ma renderebbe più veloce lo scambio di informazioni tra paesi Ue (cominciando ad ovviare all’assenza di coordinamento tra le amministrazioni dello stato sociale dei singoli paesi), conterrebbe il rischio di frodi (oggi si può percepire un sussidio in un paese e lavorare in un altro), migliorerebbe il monitoraggio dei flussi migratori, potrebbe costituire un “fattore identitario” e porrebbe le basi per misure a carattere realmente comunitario, come, ad esempio, un sussidio di disoccupazione europeo.
Due considerazioni conclusive
Fin qui i contenuti, snocciolati con grande chiarezza espositiva nel libro. Due considerazioni per concludere: la prima sul populismo di destra e di sinistra, la seconda sul tema del welfare.
Il populismo è realmente un pericolo? Boeri prende decisamente posizione su questo e afferma con forza che sì, il populismo è un vero pericolo. Ma c’è populismo e populismo: c’è quello di destra e quello di sinistra. Ora, senza entrare nel merito politologico della distinzione, possiamo senz’altro affermare che Podemos non è il Front National; che Syriza non è la Lega; che Sanders (populista?) non è Trump. C’è un populismo “progressista” e inclusivo (soprattutto nei confronti degli immigrati) e un populismo non tanto conservatore, quanto “comunitario” ed anche “regressivo”, che porta a chiusure e sfocia, non di rado, in posizioni chiaramente (e dichiaratamente) fasciste. Se ci mettiamo nei panni della democrazia, intesa come conquista civile e sociale (quella della nostra Costituzione, per intenderci), avremmo molta, ma molta più paura del populismo di destra. Quello di sinistra ci sembrerebbe, se non un fratello, quantomeno un amico con cui condividere molte cose. Ciò non vuol dire che gli argomenti e i problemi sociali alla base del successo dei populisti (di destra) non siano reali: lo sono, eccome. La differenza sta nelle risposte che si danno: giusto per dirne una, un conto è pensare di risolvere dignitosamente i problemi connessi all’immigrazione (perché ci sono), un conto è tirare su un muro. Su questo, Boeri segnala la distinzione tra i due approcci solo a livello teorico, ma non afferma espressamente che uno è più pericoloso dell’altro. Probabilmente pensa che il rischio per la democrazia venga da entrambi i lati?
Boeri poi propone, e non per la prima volta, una riforma radicale dello stato sociale del nostro paese. Un qualcosa che miri ad una protezione strutturale e non ciclica. Ci arriva non da un’impostazione universalista, ma piuttosto pragmatica, razionale, orientata all’efficienza e all’efficacia: no agli inaccettabili squilibri nella distribuzione della spesa sociale, sì al Reddito Minimo Garantito (ma solo per i poveri e solo se si cerca lavoro), sì anche a interventi mirati sulla formazione, sull’inserimento lavorativo e di sostegno ai salari, sì all’affermazione del principio assicurativo (ricevo per quello che ho pagato). Altrove abbiamo tessuto le lodi del welfare per tutti, con un approccio universalista; ma non possiamo certo non condividere delle proposte di riforma che, se concretizzate, porterebbero l’Italia tra i paesi che hanno un welfare state che funziona. E un grande merito del libro è proprio quello di porre al centro, fin dal titolo, questo tema. La protezione sociale, bistrattata, attaccata, stigmatizzata, quasi derisa dagli anni ottanta ad oggi, viene giustamente riportata tra i temi più importanti per la tenuta di una democrazia. Anzi, forse il tema più importante: Boeri pensa infatti che alla base del successo dei populisti ci sia proprio la tensione tra domanda e offerta di protezione sociale. La globalizzazione selvaggia, i tagli allo stato sociale, la precarizzazione diffusa e via seguendo non potevano passarla così liscia: le persone (la gente) si sentono, giustamente, insicure e vulnerabili, vedono assottigliarsi le dimensioni del portafoglio, hanno sfiducia nel domani o, se sono giovani, proprio non lo vedono, un domani. Non tutti e non allo stesso modo, ma in maniera certamente assai diffusa sì, come documentano tutti gli studi e le statistiche. Serve il welfare, perché la sofferenza sociale, poi,genera mostri: come quello fatto a forma di populismo (di destra).

Fonte: ribalta.info

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