La crisi è quel momento in cui il vecchio muore e il nuovo stenta a nascere. Antonio Gramsci

martedì 3 ottobre 2017

Una bussola per la sinistra italiana? Forse si trova in Inghilterra

di Norma Rossi 
La sinistra italiana in cerca d'autore dovrebbe guardare oltre la Manica: dopo più di un decennio, è tornato il dibattito politico in Inghilterra. Lo scontro tra due opposte visioni e ideologie è di nuovo al centro della discussione. Non che la politica avesse mai lasciato l'isola, ma con Tony Blair si era quasi riusciti a credere che in fondo non ci fosse così tanta diversità fra i Labour e i Tories. La cosa non deve stupire. Sin dagli anni 80, l’Inghilterra di Margaret Thatcher era diventata uno dei laboratori principali di sperimentazione e poi di esportazione del neoliberalismo. Al di là dei suoi dettami sulla deregolamentazione dell’economia e sulla priorità assoluta del privato sul pubblico, il neoliberalismo ha anche una caratteristica peculiare da un punto di vista ideologico: affermatosi in maniera preponderante con la fine della Guerra Fredda, il neoliberalismo è un’ideologia politica che fa della negazione di essere un’ideologia politica un suo pilastro chiave, come ha spiegato impeccabilmente Wendy Brown, professoressa di Scienze Politiche di Berkley, nel suo ultimo libro Disfare il Demos,
la rivoluzione invisibile del neoliberalismo. Il neoliberalismo si fonda sulla economicizzazione di tutte le sfere dell'individuo, così come della politica a cui viene negato di rispondere a una logica a sé stante.
Tutto deve essere in primo luogo discusso in termini economicistici, che diventano l'unico fondamento di ogni ragionamento politico ed etico. Quindi, potremmo dire, più che a-politico, il neoliberalismo è anti politico, perché si basa sul rigetto della logica politica in favore di quella economica delle leggi del mercato.
Un paio di esempi, tutti italiani, illustrano la questione e allo stesso tempo dimostrano come la logica neoliberalista sia penetrata nella politica italiana e nella società civile in maniera trasversale, comprovando il disorientamento della sinistra italiana.
Quando si discute dei diritti dei migranti in termini esclusivamente di costi e benefici per il mercato del lavoro, non importa da che parte si stia nel dibattito: si riproduce comunque una logica neoliberale, perché si riduce tutto a un problema di calcolo economico. E questo succede quando la questione viene posta in termini statistici di domanda/offerta di lavoro, o di calcolo dei benefici che riceviamo sulle pensioni italiane dal lavoro immigrato, o quando ci si dichiara a favore dell’immigrazione esclusivamente in relazione alla crescita del PIL. Assorbita da questi termini, dettati esattamente dalla penetrazione delle logiche neoliberaliste, si rinuncia a porsi domande di carattere politico ed etico che vanno al di là del semplice calcolo razionale del costo/beneficio.
Facendo dell’economicamente utile il parametro di definizione del politicamente opportuno, risulta più facile capire come mai la sinistra italiana non sia stata in grado fino ad ora di articolare un discorso che sfidi i termini e i limiti in cui la questione è posta, abdicando totalmente su questo terreno in favore del Papa; tanto che invece della politica, in Italia sembra che sia rimasta solo l’etica religiosa a ribattere ‘le leggi’ del mercato.
Un secondo esempio mostra l’insidiosità dell’attacco neoliberalista alla politica. Prendiamo il caso del discorso per cui ogni morale e scopo della politica (e di coloro che la praticano) vengono ridotti al calcolo di quanti soldi si ricevano come compenso o della quantità di soldi a cui si è rinunciato. 
In questo caso, paradossalmente, la logica economicistica pervade la politica proprio nel momento in cui si sostiene di voler reinventare la politica attraverso la denuncia e la rinuncia ai suoi benefici economici; ci si scorda, che passione politica e retribuzione economica non sono due opposti; che la passione per la politica corrisponde anche alle necessità di essere pagati, se questa passione non vuole essere limitata ai soli privilegiati che possono permettersi (di nuovo in termini economici) di fare della politica la loro passione. Perché in realtà, è paradossale ma è così, i benefici economici della politica sono anche un modo per tenere l'economia fuori dalla politica. Sicuramente, questo non giustifica incontrollati eccessi, ma è importante riflettere sulla logica con cui si opera e comprendere a cosa si rinuncia quando si riduce il discorso politico solo a un problema di eliminare i ‘privilegi della casta’. Anche in questo caso, la sinistra italiana sembra disorientata nello sfidare i termini in cui la questione è posta.
Ma torniamo oltre la Manica. L'immagine di neutralità è caduta, e adesso anche la May ha dovuto ingaggiare uno scontro in cui proprio due idee diverse di politica, intesa nel suo più alto significato di esprimere differenti modi di concepire e gestire il vivere insieme, sono tornate al centro del dibattito. Così mentre Jeremy Corbyn fa appello alla creazione di un nuovo socialismo, Theresa May si vede costretta a rivendicare il mercato come un agente centrale per il progresso umano nella storia. A testimonianza del cambiamento in corso, il Telegraph, storico giornale pro-Tories ha appena pubblicato un editoriale allarmato, proclamando che ‘per la prima volta dopo 30 anni, i Tories devono difendere il capitalismo dai suoi nemici’. Fuori i guantoni allora, il duello politico può cominciare: chi convincerà l’elettorato è tutto da vedere, ma, almeno adesso, nessuno potrà più dubitare del fatto che ci sia una decisione politica da prendere.
Il merito di questo va largamente a Corbyn e ai militanti del Labour che hanno reclamato il giusto posto della politica nella politica. Corbyn, dal canto suo, ha dato una direzione chiara. Il punto centrale non è ignorare l'economia (tutt’altro!) ma sostenere una diversa politica economica in cui il mercato viene sottoposto al dibattito politico e non la politica piegata a logiche di mercato. Questo significa anche riproporre la ripoliticizzazione dei conflitti esistenti nella società, in una prospettiva però radicalmente diversa da quella dell’estrema destra. Ed ecco un altro merito fondamentale del Labour di Corbyn: mentre il ‘buon senso’ neoliberalista non ha fatto che far crescere, invece che arginare, l’estrema destra (le elezioni tedesche lo confermano), la ripoliticizzazione di Corbyn rappresenta una vera alternativa. Semplicemente, si può dire che Corbyn propone di sostituire una prospettiva verticale a quella orizzontale della destra. La prospettiva orizzontale, per esempio, incoraggia la guerra tra poveri, tracciando la linea di conflitto tra cittadini poveri e stranieri poveri. Invece, la prospettiva verticale traccia la linea di conflitto tra i molti sottoposti che non hanno nulla o quasi, e i pochi che hanno tutto. ‘For the many, not for the few’ è infatti il motto del partito di Corbyn. Guerra di classe? Non del tutto esatto, perché la guerra Corbyn l’ha dichiarata non a specifici gruppi della società, ma alla struttura del neoliberalismo che sostiene queste ineguaglianze facendo finta, allo stesso tempo, che esse obbediscano e riflettano ineluttabili leggi di mercato. Chiunque riconosca questa ingiustizia strutturale può riconoscersi nel progetto Corbyniano.
Certo anche Corbyn ha i suoi grattacapi; in fondo la sua proposta politica di un nuovo socialismo non può neanche immaginare di essere sviluppata se non all'interno del mercato comune dell'Unione Europea, di cui le istituzioni sono state, paradossalmente, uno dei motori propulsori dei principi neoliberalisti di gestione della politica con logiche di mercato, esempio tra tutte, l’austerità. Ma Corbyn e i Labour hanno trovato una bussola che potenzialmente porta verso altre, se non nuove, direzioni. Può la sinistra italiana invertire la rotta?

Fonte: MicroMega online 

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