La crisi è quel momento in cui il vecchio muore e il nuovo stenta a nascere. Antonio Gramsci

giovedì 28 gennaio 2016

Buon Compleanno, Guantánamo

di Belen Fernandez
Si ipotizzava che il 2015 sarebbe stato l’anno in cui avrei visitato la Baia di Guantánamo.
Era inteso che avrei assistito alle udienze predibattimentali in aprile per i 5 “HVD” (detenuti di alto valore) – trattenuti in prigione. Gli HVD sono accusati di coinvolgimento negli attacchi dell’11 settembre; in cima alla lista c’è Khalid Sheikh Mohammed, il presunto “cervello” di questi.
Ho prenotato un volo da Beirut a Washington, D.C. e ho assillato l’ufficiale dell’esercito incaricato di assegnare i posti sull’aeroplano che vola dalla Base dell’aeronautica militare Andrews a Guantánamo fino a quando mi hanno assicurato un posto. Quando però sono arrivata a Washington, D.C, sono stata informata che le udienze erano state cancellate a causa di complicazioni sorte per l’infiltrazione dell’FBI in una delle squadre di difesa l’anno precedente.
Come aveva osservato, pochi mesi prima, l’avvocato della difesa, Ramzy Kassem: “Gli imperativi e la meccanica della giustizia e della raccolta di informazioni, sono, in misura significativa, incompatibili. In nessun posto la contraddizione è più forte che a Guantánamo, dove quei due mondi si scontrano.”
Questa particolare osservazione è stata fatta non come reazione all’infiltrazione dell’FBI, ma piuttosto alla notizia che uno degli interpreti a Guantánamo era un ex impiegato di un “sito nero” della CIA.
Dato che il complesso carcerario festeggia il suo 14° compleanno – più di 7 anni dopo che Barack Obama aveva promesso di chiuderlo – la collisione tra i due mondi continua rapidamente. E mentre potrebbe essere chiaro a qualsiasi osservatore obiettivo che la “giustizia” non esiste nell’ambito di probabili risultati nel campo di detenzione cum camera di tortura che funziona sul territorio cubano occupato, l’America fa ogni sforzo per distrarre dal quadro più ampio, coltivando una facciata di correttezza e di rispetto per la dignità umana, nelle procedure quotidiane a Guantánamo.
Nel 2010, per esempio, Carol Rosenberg, del giornale The Miami Herald, ha riferito circa “una nuova svolta nello sforzo di sensibilità nei riguardi degli islamici delle forze armate statunitensi nei campi di prigionia…Il personale medico militare sta sottoponendo ad alimentazione forzata un numero segreto di prigionieri in sciopero della fame tra il tramonto e l’alba durante il mese di digiuno, il Ramadan musulmano. “ Tra le allettanti scelte di menù, c’era il burro Ensure al gusto di noce pecan (“Il gusto non faceva nessuna differenza quando “andava giù”, ha spiegato un’infermiera, ma il prigioniero poteva sentirlo quando poi faceva un rutto”).
Non importa se il chiaro rispetto per il Ramadan sia più che neutralizzato dal fatto che anche avere dei tubi conficcati nei propri orifizi contro la propria volontà, è una forma di tortura. In base all’approccio statunitense, un milione di errori in qualche modo ammontano a una cosa giusta.
A che serve esattamente tenere Guantánamo aperta quando è ampiamente considerata un ostacolo – dannoso all’immagine dell’America in tutto il mondo e che alimenta sentimenti anti-americani – oltre a essere costosa in modo strabiliante?
Per i principianti: un vasto impegno bipartisan negli schemi di carcerazione esagerati, per non parlare dei considerevoli profitti prodotti dall’industria carceraria, fa parte di quello che ha contribuito a fare degli Stati Uniti un’autentica nazione-prigione.
Guantánamo, naturalmente, è un caso speciale: una colonia penale in alto mare che è abbastanza vicina da amministrare con facilità, ma abbastanza remota da esistere ai margini della legalità.
Scrivendo su The New Yorker circa le funzioni della base navale prima dell’11 settembre, Paul Kramer, della Vanderbilt University, discute dell’utilità del territorio come recinto di custodia per gli Haitiani che cercavano di fuggire dal brutale colpo di stato del 1991 in quel paese. Nel luglio 1992, osserva, le operazioni di intercettazione dei rifugiati eseguite dalla Guardia Costiera degli Stati Uniti, avevano portato a una situazione a Guantánamo in cui “circa 37.000 persone erano confinate in tendopoli improvvisate, circondate da filo spinato.”
Riguardo al successivo confronto finale in un tribunale di New York, per le condizioni del campo, Kramer spiega: “Gli avvocati per il governo hanno risposto che Gitmo era semplicemente ‘una base militare in un paese straniero’ e ‘non nel territorio degli Stati Uniti.’ I detenuti di lì erano ‘fuori dagli Stati Uniti e non hanno perciò diritti giuridicamente di competenza dei tribunali statunitensi.”
Senza dubbio un comodo precedente.
Nella sua attuale incarnazione, le attrattive di Guantánamo sono numerose. La struttura ospita i mega-nemici dell’America, le cui qualità umane come anche le possibili motivazioni dei crimini che si presume abbiano commesso, sono tenute al sicuro fuori della portata del pubblico statunitense. Questo giustifica non soltanto la loro prolungata carcerazione e i maltrattamenti, ma anche la guerra in corso contro altre minacce esagerate in tutto il globo.
Guantánamo offre, inoltre, un contenitore ermetico per più che soltanto corpi in senso fisico: vi sono contenuti anche i pensieri. Dato che così tanti dettagli della tortura pervasiva inflitta ai sospetti di terrorismo dopo l’11 settembre da parte degli Stati Uniti e dei loro alleati, sono considerati troppo pericolosi da diffondere, molte vittime della tortura che sono ora detenute a Guantánamo, vengono di fatto zittite. Come una volta si espresse Lisa Hajjar, autrice di “Torture: A Sociology of Violence and Human Rights” [La tortura: sociologia della violenza e dei diritti umani]: “I loro ricordi sono secretati.”
Il libro Diario di Guantánamo, del detenuto Mohamedou Ould Slahi, scritto nel 2005, è stato finalmente pubblicato l’anno scorso con più di 2.500 punti revisionati dal Dipartimento della Difesa. I censori militari si sono presi la libertà di eliminare non soltanto le informazioni pertinenti circa gli abusi sessuali nei confronti di Slahi da parte delle guardie, ma anche dettagli apparentemente più banali, come il nome del defunto presidente egiziano, Gamal Abdel Nasser.
Ma anche se questi e altri preziosi segreti di stato cominciano a tracimare dal campo di prigionia, le prospettive per mettere fine all’intera struttura violenta restano vaghe. Come ha osservato James Connell, un patrocinante civile per l’HVD Ammar al-Baluci, in una mail inviatami:
“Chiudere Guantánamo significa combattere per i diritti umani e lo stato di diritto, che attualmente non sono politicamente popolari negli Stati Uniti. Anche il piano di [‘chiusura’] di Obama in realtà non fa chiudere Guantánamo, ma trasferisce semplicemente la detenzione illimitata e i tribunali militari a una Guantánamo Nord all’interno degli Stati Uniti.”
E, mentre a 14 anni il campo di detenzione forse è ancora relativamente giovane, è praticamente garantito che – indipendentemente da ciò che accade a Gitmo – il disprezzo degli Stati Uniti per la giustizia continuerà a prosperare.

Da: Z Net – Lo spirito della resistenza è vivo
Originale : teleSUR English
Traduzione di Maria Chiara Starace
Traduzione © 2016 ZNET Italy – Licenza Creative Commons CC BY NC-SA 3.0

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