La crisi è quel momento in cui il vecchio muore e il nuovo stenta a nascere. Antonio Gramsci

sabato 18 marzo 2017

Nuovi volti dei movimenti sociali: dalle lotte sul territorio ai “cortei di testa”

di Serge Quadruppani
In alcune grandi città francesi, durante le manifestazioni di strada della primavera 2016 contro la “Loi Travail”, cosa spingeva tanta gente d’ogni età e categoria sociale a risalire i marciapiedi o a uscire dai ranghi inquadrati dalle organizzazioni sindacali per unirsi a quello che si è rapidamente auto-battezzato “corteo di testa”? Cosa li incitava a raggiungere questa componente che, da una scadenza all’altra, è cresciuta fino a comprendere varie migliaia di persone e a costituire, talora, la metà della manifestazione? Era peraltro là che si subivano i bombardamenti intensivi di lacrimogeni, le incursioni delle Brigate anti-crimine per fermare individui secondo criteri sconosciuti, i getti delle motopompe.
Era là che si rischiava di perdere un occhio per effetto di un lancio di flashball o di cadere in coma a causa di una granata detta “di disimpegno”. Dev’essere accaduto qualcosa perché tanta gente si sia esposta volontariamente a simili pericoli.
Se si deve cercare una novità decisiva del movimento della primavera 2016, non sta forse in quelle “Notti in piedi” su cui si è concentrata l’attenzione dei media, in Francia e soprattutto all’estero. I raduni notturni in certe piazze, a imitazione del 15M spagnolo o di Occupy Wall Street, hanno certo rivelato un bisogno di comunicazione diretta e liberato spazi di espressione collettiva. La loro estensione a tutto il paese ha mostrato l’ampiezza di questo bisogno e la necessità di questa espressione. Ma, a differenza degli omologhi statunitensi e spagnoli, il “movimento delle piazze” è rimasto confinato in limiti temporali quotidiani, che si sono presto rivelati limiti e basta. Promosso sulla bella idea di un mese di marzo destinato a durare oltre il 31, la sua pretesa di cambiare la costituzione o la società discutendo dalle 21 alle 6, su autorizzazione rinnovabile della prefettura, ha giocoforza avuto fin dall’inizio qualcosa di farsesco. Padrone del tempo è rimasto lo Stato, che durante il giorno riprendeva le piazze. Benché la composizione sociale delle Notti in piedi sia stata più varia di quanto abbiano preteso diverse destre, ansiose di classificarle nella categoria onnicomprensiva dei “radical chic”, i loro orari notturni e, malgrado alcuni tentativi in direzione delle periferie, il loro confinamento nel centro cittadino, hanno limitato la partecipazione dei ceti popolari. Se sono state talora sede di dibattiti opportuni, le assemblee generali troppo spesso sono somigliate a gruppi di ascolto, in cui la sfilata delle soggettività sofferenti rimane senza conseguenze. In definitiva, sono state soprattutto utili come luoghi di preparazione di manifestazioni selvagge o di interventi sulle lotte in corso.
Ciò che molti cercavano, partendo dalle piazze occupate per andare a sostenere i ferrovieri in sciopero o i migranti che occupavano un liceo abbandonato – vale a dire una conflittualità non limitata alle parole e comune a soggetti sociali variegati – la trovavano nei “cortei di testa”. Oltre la presenza, tradizionale, di giovani in cerca di scontro (con la novità di un calo sensibile dell’età media), si notava una forte rappresentanza di pensionati attivi, nonché di persone di età matura che esibivano i segni esteriori (spille, caschi, bandiere) dell’appartenenza alla classe operaia sindacalizzata. Questa componente maggioritaria del “corteo di testa” si distingueva per la sua attitudine, se non attivamente complice, quanto meno per niente ostile verso coloro che i media dominanti chiamavano “casseurs”.
Quei manifestanti sembravano quesi tutti insensibili all’argomento ordinario secondo il quale rompere le vetrine delle banche squalificherebbe il movimento presso l’opinione pubblica. Tutto accadeva come se avessero rinunciato a preoccuparsi della reazione dei media che, in assenza di “casseurs”, direbbero in ogni caso che la manifestazione era meno importante della precedente e che il movimento si stava sgonfiando. Nessuno si indignava per i muri coperti di slogan, né sembrava considerare le agenzie bancarie e immobiliari dei bersagli illegittimi.
Il fatto che la maggioranza non si unisca all’azione mostra chiaramente che essa è trattenuta non tanto dalla paura, quanto dal fatto che, per correre maggiori rischi, avrebbe bisogno di far di meglio che rompere vetri: forse nuocere realmente alle banche e all’ordine economico. Questo non impediva i gesti di solidarietà verso chi, mascherato, subiva la repressione, e non sono mancati episodi in cui sindacalisti e sconosciuti di una certa età hanno tentato di liberare i presunti “casseurs” dalle mani della polizia.
Ciò che colpiva, nel corteo di testa, non era tanto la somiglianza con i movimenti sociali anteriori (dallo sciopero contro la “riforma” della sicurezza sociale del 1995 a quello contro la “riforma” del sistema pensionistico del 2010), quanto la similitudine con conflitti nati lontano dalle grandi città e ancorati a territori precisi. Coraggio e determinazione di fronte alla repressione, creatività dei modi espressivi e d’intervento, eterogeneità delle pratiche e degli attori sono anche i tratti salienti dell’opposizione alla costruzione dell’aeroporto di Notre-Dame-des-Landes, cristallizzata attorno alla Zona da Difendere (ZAD), e del movimento NO-TAV.
Quando il corteo di testa si avviava, di fronte ai ranghi serrati delle forze dell’ordine e dei loro furgoni, non avrebbe stupito, davanti alla risoluzione gioiosa delle sue file, sentire urlare: A sarà düra! E’ il grido di adunata, in lingua piemontese, delle popolazioni della Valle di Susa in lotta contro il progetto di nuovo Treno ad Alta Velocità Lione-Torino. Annuncia che lo scontro sarà duro – sottinteso “per noi”, ma anche “per loro”.
Il 17 novembre 2016, al termine di un maxiprocesso d’appello contro 53 attivisti NO TAV, il tribunale di Torino ne ha condannati 38 a pene di prigione varianti da alcuni mesi a quattro anni e mezzo. La loro incriminazione era legata a due episodi della saga di questa lotta che dura da 25 anni: l’evacuazione, nel giugno 2011, della “libera repubblica della Maddalena”, accampamento installato in una zona di estensione del cantiere, e l’imponente manifestazione che ne era seguita, in luglio, col tentativo di riprendersi il terreno.
L’accusa non ha esitato a sostenere la colpevolezza di una persona che sarebbe stata vista in due luoghi diversi nello stesso tempo, né a ricorrere all’imputazione, molto vaga ma pratica, di “concorso morale”. Un fatto fra i tanti dell’interminabile serie di denunce e di limitazioni alla libertà di circolare. Una delle personalità storiche del movimento, Nicoletta Dosio, è divenuta la figura di punta della resistenza agli innumerevoli arresti domiciliari: avendo rifiutato di sottomettersi alle restrizioni, si è ritrovata davanti a un tribunale in cui il procuratore ha chiesto per lei otto mesi di carcere.
Le stesse misure di sicurezza sono state prese in Francia, con il domicilio coatto o l’interdizione da specifici territori cui sono stati costretti nel dicembre del 2015, in virtù dello stato d’urgenza, alcuni militanti e altri notoriamente “zadisti” sospettati di voler partecipare alle manifestazioni contro la Cop 21. Su più vasta scala, in occasione dei movimenti contro la legge sul lavoro del 2016, decine di persone sono state colpite da provvedimenti delle prefetture che impedivano loro di partecipare alle manifestazioni.
A queste misure restrittive della libertà di circolazione va aggiunta una repressione post-factum di un’ampiezza inedita: al 17 giugno 2016 più di 750 persone avevano già costituito l’obiettivo di provvedimenti giudiziari. E, nel novembre 2016, varie persone hanno iniziato a ricevere delle interdizioni a manifestare il loro sostegno alla ZAD. Così sappiamo che, con un giovane che ha perso un occhio a Rennes e un altro che è caduto in coma durante le manifestazioni della primavera del 2016, anche la repressione fisica non è rimasta ferma. Soltanto nel mese di luglio, 68 denunce sono state presentate al Difensore dei diritti contro le violenze ingiustificate della polizia.
Malgrado ciò, gli effettivi e la risolutezza dei partecipanti ai cortei di testa non hanno cessato di crescere. Una tale determinazione nelle mobilitazioni è ugualmente riscontrabile sia nella Valle di Susa che a Notre-Dame-des- Landes. In quest’ultimo caso, il governo ha sempre ignorato sia i rapporti degli esperti nominati dal governo stesso contrari al progetto dell’aeroporto, che le ingiunzioni della Commissione europea tese a far rispettare le direttive a protezione delle zone umide.
Per il tramite di un referendum locale, limitato alla Loira-Atlantica, vale a dire una regione dove il «sì» è stato ottenuto a colpo sicuro, è stata conferita legittimità a una eventuale evacuazione forzata – a condizione di ignorare la tregua invernale. D’altra parte perché, sapendo che il cattivo tempo avrebbe complicato le operazioni, non si è proceduto in tal senso a fine novembre? I responsabili delle forze dell’ordine avevano avvertito le autorità che questa operazione sarebbe stata difficilmente portata a termine senza causare danni alle persone.
Abbiamo così, da un lato, l’ostinazione di governanti che sono certamente attenti alle pressioni dei potenti interessi finanziari (tra i quali quelli della Vinci, l’impresa scelta per realizzare e sfruttare l’aeroporto), ma che soprattutto, in una situazione in cui si accumulano i dubbi sulle loro reali capacità di governare, hanno il bisogno di dimostrare che detengono ancora almeno il comando su qualcosa – all’occorrenza, la polizia. E, dall’altro, la semplice determinazione degli zadisti e dei contadini a difendere, anche a prezzo delle loro vite, un luogo – e attraverso esso, un progetto di vita antagonista rispetto all’aeroporto e al «suo mondo». Che questi ultimi facciano esitare i governanti e i loro premier dimostra bene che una forza potente si è realizzata in questa lotta, al di fuori del quadro politico tradizionale.
L’inventiva gioiosa degli slogan con cui sono stati bombardati i muri durante a primavera – «Nelle ceneri tutto diventa possibile», «Agire da primitivo, presagire da stratega», «La sinistra è morta, non noi», «Guarda il tuo Rolex, è l’ora della rivolta» – si ritrova alla Zad in un percorso che, per esempio, va dal «Faro West» alla «Chat Tignosa» passando per i «Black Bloc sanitari». Sono da rimarcare anche le forme assunte dalle abitazioni della Zad: le case sugli alberi, la bella dimora offerta dall’altipiano di Millevaches, la costruzione dalle dimensioni di una cattedrale edificata come rifugio nella zona non-espropriabile da 80 carpentieri venuti appositamente dalla Francia e dal Belgio. Così come il rovesciamento di significato delle immagini più popolari (Asterix è chiamato a rinforzo, come in Val di Susa), le canzoni, i film, la biblioteca in cui diversi autori sono stati a prendere la parola, lo scambio di saperi (meccanico, agricolo, botanico, medico, etc.), il mercato senza denaro: tutti coloro che vi sono stati possono testimoniare che, su questo lato della barricata, non si manifesta niente di meno che la ricerca di un altro modo di vita, basato sulla gratuità e l’assunzione di decisioni senza gerarchie né rituali assembleari congelati e paralizzanti. E tutto questo funziona; dopo tanti anni, si vive là senza polizia e senza la giustizia dello Stato, i conflitti sono regolati da commissioni di mediazione e non è mai avvenuto alcun incidente grave.
Alla Zad come nella Valle di Susa, così come durante le manifestazioni della primavera del 2016, non hanno mai smesso di esigere una dissociazione tra manifestanti «pacifici» e «violenti». L’hanno ottenuta talvolta da parte delle grandi centrali sindacali (per altri versi incapaci ormai d’impedire qualsiasi straripamento delle lotte ove questo avvenga), ma è da notare che i sindacati che fanno riferimento alla Confederazione generale del lavoro (CGT) presso la Vinci hanno annunciato che chiameranno gli operai a esercitare il loro diritto di ritiro in caso di un passaggio del governo a un’azione di forza, così come le sezioni locali della Confederazione generale italiana del lavoro (CGIL) sono state apertamente coinvolte nella lotta No-Tav. Nella valle le operazioni di polizia hanno suscitato scioperi in diversi stabilimenti locali. Così la componente operaia e contadina ha impedito che le lotte sui territori fossero rappresentate semplicemente come «hippie» o «stupide», allo stesso modo che la presenza degli scaricatori del porto di Havre e degli operai delle officine minacciate di chiusura nel confronto muscolare della primavera passata non dovrebbe essere ignorata.
L’ampiezza delle risposte, dalla riconquista della ZAD il 17 novembre 2012 da parte di decine di migliaia di manifestanti, dopo la sua evacuazione manu militari nell’ottobre, alla ripresa di Venaus, zona occupata della val di Susa, che, nel 2005, era stata violentemente sgomberata dalle forze dell’ordine pochi giorni prima di essere rioccupata da un’imponente manifestazione, come la crescita ostinata dei cortei di testa fino al 15 settembre 2016 quando, malgrado un dispositivo poliziesco inedito volto a ingabbiare l’insieme della manifestazione, questa si è potuta ricostituire e affrontare le forze dell’ordine, tutto fa pensare a un ciclo di repressione-solidarietà-radicalizzazione che aveva già caratterizzato le lotte degli anni ’70. Con lo sviluppo che ben ricordiamo: movimento contro la guerra negli Stati Uniti, maggio ’68 francese, maggio italiano dilagante non costituirono che le espressioni più conosciute di una crisi che contagiò quasi tutto il pianeta. Questa nuova ondata di radicalizzazione si distingue peraltro dalla prima per due motivi: lo straordinario sviluppo delle capacità repressive dello stato e la scarsissima considerazione in cui sono tenuti i governanti che le mettono in atto.
Alla fine di uno dei processi di Torino contro i militanti NoTav, il procuratore ha dichiarato: «Non passeranno alla Storia, questi soggetti, ci si dimenticherà di loro in fretta, perché hanno realizzato un sistema di disordine e di aggressione, un sistema che circola attraverso l’Italia e l’Europa e che non ha nulla a che vedere con la protesta.»
Non sarà certo questa la prima volta nella Storia che un procuratore si sbaglierà su ciò che passerà alla Storia.

Fonte: Carmilla online 

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