La crisi è quel momento in cui il vecchio muore e il nuovo stenta a nascere. Antonio Gramsci

sabato 18 marzo 2017

Gig worker e regolazione. Intervista a Guglielmo Loy

Intervista a Guglielmo Loy di Giacomo Cucignatto
Il termine gig economy fa riferimento ad app che creano “lavoretti” attraverso degli algoritmi che gestiscono un ampio gruppo di prestatori d’opera. Non è in verità un’ennesima forma di sfruttamento?
Guglielmo Loy: Il rischio esiste, non c’è dubbio. L’innovazione non è arginabile e la relazione tra un prestatore d’opera e un datore di lavoro è oggi profondamente influenzata dai processi tecnologici. Ci deve però essere un limite. Il primo nodo concerne il datore di lavoro, spesso difficilmente individuabile. Nel caso del food delivery abbiamo l’intermediatore e il produttore vero e proprio, il ristorante, che passa tramite un’app per consegnare il prodotto al consumatore attraverso il fattorino.
C’è dunque un complesso intreccio di protagonisti. Poi c’è la questione della retribuzione e del rapporto di lavoro. La natura del rapporto di lavoro ci aiuta a definire qual è il livello di retribuzione: in conformità a contratti o a quanto stabilito dalla legge nel caso del lavoro subordinato, molto più complicato nel caso del lavoro autonomo. Un tema non nuovo, che le tecnologie hanno velocizzato.

Ritiene necessario un intervento legislativo che introduca una nuova categoria contrattuale come quella del lavoro indipendente, che sta emergendo nel dibattito americano?
Guglielmo Loy: C’è un buco, noi lo chiamiamo “il mondo di mezzo”. Quelle attività che non sono classificabili come subordinate in termini di orari di lavoro, retribuzione, qualifica, né come autonomo puro – decido io come lavorare in base alla committenza. Questo mondo include una parte di autonomia, relativa alla disponibilità del prestatore, ma c’è oggettivamente un ordine del committente molto chiaro. Paradossalmente questo dibattito emerge proprio quando si è deciso di superare le forme di para-subordinazione attraverso il jobs act. Il sindacato non deve difendere l’abuso che è stato fatto sulla para-subordinazione, però esistono delle attività in cui il confine netto tra subordinazione e autonomia è labile e ci chiediamo se non sia il caso di reintrodurre una modalità che riconosca questa originalità. L’interrogativo cruciale è perché questo “mondo di mezzo” tenda a crescere così rapidamente: se è una piccola nicchia si può costruire una regolamentazione adeguata, altrimenti si deve intervenire su altri fattori che riguardano la nostra economia e il nostro sistema produttivo.

La crescita di questo fenomeno sembra legata a un tentativo di disintermediazione del rapporto di lavoro. Non si rischia di spersonalizzare la relazione tra datore e lavoratore a discapito di questi ultimi?
Guglielmo Loy: Le attuali norme sono insufficienti a cogliere questa innovazione, frutto di un’esigenza oggettiva di alcuni segmenti della nostra economia, basati sulla produzione just-in-time. L’organizzazione del lavoro che risponde a tale esigenza non può essere quella strutturata, ci vuole una modalità di regolazione diversa. Noi crediamo che sia possibile rispondere a questo problema attraverso la legge e una contrattazione più moderna. C’è certamente un problema di costi: è difficile comprendere l’assenza di un limite minimo nella retribuzione. Se si va sul mercato e si offre un prodotto a un prezzo molto basso è inevitabile che si metta in discussione un livello decoroso di retribuzione. Questo è un problema del Paese: se l’Italia si colloca sui mercati globali pensando di competere nel produrre beni e servizi ai livelli minimi di retribuzione alla fine il Paese scoppia. Un circolo vizioso che va compreso e interrotto.

C’è la possibilità che il Decreto Poletti sul lavoro autonomo e sul lavoro agile entri in relazione anche con questi settori? Lo smart working può influenzare la contrattazione che riguarda i gig worker?
Guglielmo Loy: Per come è costruito il decreto, la separazione tra lavoro agile e lavoro autonomo sembra netta. Si specifica più volte che la regolazione dello smart working fa riferimento al solo lavoro subordinato: secondo noi un’impostazione troppo circoscritta della questione. Sul lavoro autonomo, l’ipotesi del decreto riproduce uno schema per cui esiste l’autonomo puro e realtà in cui sussistono abusi evidenti, dove il legislatore interviene per garantire determinate tutele. Delle due l’una. Se è un abuso, va colpito: non si può utilizzare una persona con un lavoro subordinato sotto forma di lavoro autonomo e poi porsi il problema delle tutele. Se invece è lavoro autonomo puro, vanno ripensati gli strumenti di tutela: se il “mondo di mezzo” cresce si deve pensare a un sistema nuovo dal punto di vista della retribuzione e del welfare, che non può essere affidato a strumenti solidaristici. Una quota di reddito del committente o del lavoratore – in misura minore – potrebbe essere devoluta a costruire un sistema di welfare che consenta a queste persone di sviluppare con maggiore serenità un lavoro non tradizionalmente subordinato, ma non autonomo come quello professionale.

Cosa pensa dei nuovi incentivi alle imprese concesse dal decreto Poletti? Non andrebbero forse vincolati al rispetto di determinate tutele e garanzie per i lavoratori?
Guglielmo Loy: Sicuramente abbiamo un arretramento in termini di competitività del nostro sistema produttivo: un forte stimolo all’innovazione tecnologica e al funzionamento delle nostre imprese è assolutamente indispensabile. Detto questo, come in tutti gli incentivi ci sono però alcune condizionalità per dire che le imprese non sono tutte uguali: una delle nostre critiche alla decontribuzione del 2015 si basava sulla loro natura indiscriminata. Nessuna valutazione sulle priorità e sui segmenti sociali da sostenere maggiormente. Il risultato è che oggi la crescita occupazionale si fonda sugli ultra-quarantenni: a parità di condizioni, un’azienda sceglierà sempre una persona qualificata e formata rispetto a un ragazzo con meno esperienza. Stessa questione sugli incentivi all’innovazione, che avrebbero dovuto considerare anche gli effetti sociali, premiando le imprese che si fossero poste il problema di una nuova qualificazione professionale, vincolando l’impatto della nuova tecnologia alla capacità formativa del proprio capitale umano, fino a rendere obbligatorio un certo numero di ore di formazione quando si affronta un processo d’innovazione.

Che ruolo ha avuto la debolezza del sindacato rispetto alla crescita di questi fenomeni? Quali azioni si possono mettere in campo per recuperare un ruolo di rappresentanza di quei settori del lavoro che si sentono sempre più esclusi?
Guglielmo Loy: La globalizzazione e la crisi non hanno solo indebolito, ma trasformato le relazioni industriali nel nostro paese. Quando si affrontano i temi della competitività del singolo segmento produttivo bisogna considerare questi cambiamenti, che costituiscono uno straordinario fattore di difficoltà per il sindacato. La crisi ha reso sociologicamente più deboli i lavoratori, costringendoli ad accettare qualsiasi condizione di lavoro pur di portare a casa un reddito. Ciononostante il tessuto occupazionale ha tenuto e il numero di lavoratori dipendenti del nostro Paese non è crollato, perché abbiamo un sistema produttivo strutturato, ma anche per merito del sindacato, che non ha ceduto rispetto all’utilizzo forte degli ammortizzatori sociali. La cassa integrazione ha permesso di non lacerare il rapporto tra impresa e lavoratore e in alcuni casi ha consentito di rientrare in produzione. Parallelamente, un gran numero di persone sono oggi disposte a svolgere attività non consone al proprio percorso curriculare e questo ha alimentato la crescita di settori economici – specialmente nei servizi – che si fondano su bassi costi del lavoro: è chiaro che questi lavoratori risultano deboli in termini di potere contrattuale e rappresentanza. Indirettamente li tuteliamo attraverso il contratto collettivo nazionale, ma non è sufficiente. Ci vuole senz’altro una regolamentazione moderna di questi settori.

Il processo di sindacalizzazione di questi settori incontra grandi difficoltà, soprattutto perché manca spesso un luogo fisico dove intercettare i lavoratori e sentire le loro esigenze. Quanto potrebbe essere importante la digitalizzazione del sindacato nell’avvicinamento ai lavoratori?
Guglielmo Loy: Sicuramente vanno cambiate le forme di dialogo. In ogni caso, se l’azienda ha la possibilità di disattivarti l’app nel caso in cui rompi le scatole – si fa qui riferimento al licenziamento con un click – è veramente complicato pensare di tutelare il lavoratore nelle forme tradizionali. La debolezza di questi lavoratori è oggettiva. Ci sono stati alcuni casi in cui siamo riusciti a sanare certe situazioni. L’altra strada è premere sul legislatore e aiutarli indirettamente. La rappresentanza incontra oggi difficoltà significative.

Fonte: pandorarivista.it

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