La crisi è quel momento in cui il vecchio muore e il nuovo stenta a nascere. Antonio Gramsci

sabato 18 marzo 2017

Una breve storia dell’imperialismo francese

di Claude Serfati
Attualmente, il complesso militare-industriale svolge un ruolo essenziale nella morfologia del capitalismo francese. È noto il posto centrale occupato dall’esercito e dagli apparati di sicurezza nella Quinta repubblica. Spesso la genealogia di questo stato di cose viene tracciata a partire dalla Guerra d’Algeria e dalle sue conseguenze costituzionali. Tuttavia, si direbbe che una tale posizione delle forze armate affondi le proprie radici lungo tutto il XX secolo, dalla Comune di Parigi alla Guerra d’Algeria, passando per le guerre di conquista coloniale. Appoggiandosi su di una solida concettualizzazione marxista, Serfati, in questo estratto dal volume Le Militaire, traccia un’impressionante genealogia dei dispositivi imperialisti francesi, evidenziando il ruolo della finanza nell’impresa coloniale, ma anche l’impatto dell’esercito sui rapporti sociali.
La fine del XIX secolo è stata segnata da trasformazioni radicali nel funzionamento nel capitale. Si deve a John Hobson, economista vicino al socialismo liberale, una prima sintesi interpretativa del tema nella sua opera Imperialism: A Study (1921), nella quale si distingue accuratamente l’imperialismo moderno dagli imperi antichi. I marxisti hanno sviluppato, talvolta seguendo percorsi paralleli, le proprie analisi di tale inedito periodo storico.
Questa «prima mondializzazione», come l’ha definita lo storico dell’economia Paul Bairoch, è stata indotta da un aumento dei flussi di merci, e ancor di più da un considerevole sviluppo delle esportazioni di capitale monetario, investito in operazioni industriali – dando vita alle imprese multinazionali – così come in forma di prestiti agli stati dipendenti. La comparazione tra la Francia e al Gran Bretagna, le quali effettuavano la maggior parte delle esportazioni di capitali (rispettivamente, 20% e 42% del totale nel 1913, ben più avanti della Germania, 13%) è indicativa delle fisionomie nazionali dell’imperialismo. In effetti, le esportazioni di capitali della Francia, notevolmente acceleratesi a partire dagli anni Novanta dell’Ottocento, esibiscono caratteristiche differenti rispetto a quelle di Gran Bretagna e Germania. A prevalere sono i prestiti, piuttosto che gli investimenti diretti nella produzione. Inoltre, sono in larga parte destinati a paesi meno sviluppati, come la Russia (27,03%), l’Impero ottomano e i paesi balcanici, collocati a grande distanza da altre regioni, come Stati Uniti e gli altri paesi caratterizzati da un forte dinamismo industriale.
Il consolidarsi di gruppi sociali dipendenti dalla rendita, dunque, va posto in relazione con la debole tradizione imprenditoriale delle élite francesi. I rentier francesi, quindi, non hanno esitato a privilegiare gli investimenti all’estero, anziché quelli industriali in Francia: le attività estere, alla soglia della Prima guerra mondiale, costituivano il 21,5% del patrimonio finanziario delle famiglie più ricche (1).In Francia, la diffusione della rendita è di vecchia data. La classe dei rentier ha iniziato a consolidarsi sotto l’Ancien régime grazie ai prestiti concessi ai sovrani per i loro sfarzi e per le guerre, in seguito sotto la Monarchia di luglio ed il Secondo impero, data la necessità di finanziare le spese militari e i conflitti. A partire dalla fine del XIX secolo, il declino relativo nell’emissione di titoli di stato ha spinto gli investitori francesi verso i titoli di stato stranieri, ritenuti sicuri e redditizi, rendendo più dinamico il comparto straniero della Borsa di Parigi. Come illustrato dai lavori di Jean Bouvier, le banche francesi trarranno notevoli profitti dall’incremento di tali prestiti agli stati esteri, mostrandosi invece timorose per quanto riguarda quelli all’industria. Lo scarto in rapporto allo sviluppo industriale dell’Inghilterra, in tal modo, cresce regolarmente, e laddovel’industria tedesca è, nel 1860, inferiore per dimensioni di più della metà rispetto a quella francese nello stesso anno, nel 1913 essa diviene due volte e mezzo più importante. Nel 1917, lo storico Paul Mantoux notava che non solo nella chimica e nella metallurgia, ma anche nei cosiddetti «articoli parigini» (beni di lusso, ma anche giocattoli, ferramenta, ecc.), la Francia aveva un vistoso deficit commerciale.
I prestiti governativi massicciamente concessi dalla Francia venivano generalmente utilizzati dai paesi debitori al fine di finanziare lo sviluppo delle ferrovie, ma più frequentemente per intraprendere spese improduttive, tra le quali l’acquisto di materiali bellici occupava un posto essenziale. Gli imponenti prestiti a favore dello stato russo ritorneranno sotto forma di interessi, nonché di importanti commissioni di armamenti ai gruppi francesi. Lo stesso processo verificatosi nei casi di Turchia, Grecia e Serbia. Un a buona parte dei crediti garantiti a questi stati da consorzi organizzati dalle banche francesi è servito, alla viglia della Prima guerra mondiale, all’ordinazione di sei cacciatorpediniere e due sottomarini costruiti dalla società Creusot.
L’esportazione dei capitali, la quale consente senza ostacolarla quella delle merci, non rappresenta l’unico tratto distintivo dell’imperialismo. La «mano invisibile del mercato», il cui frutto dovrebbe essere la concorrenza ottimale, genera il suo contrario, ovvero la tendenza alla formazione di grandi imprese – monopoli, nel senso di enormi gruppi dominanti – che si spartiscono i mercati mondiali grazie ai cartelli e ad altre forme, più discrete, di accordo a livello mondiale. Successivamente, queste grandi imprese assumono la forma di società per azioni, segnando il controllo della borsa sulle attività industriali. Hilferding ha teorizzato tale evoluzione sottolineando l’emergere del capitale finanziario, «fusione del capitale industriale e di quello bancario, sotto il controllo delle banche» (2). La sua definizione incentrata sulle banche ha condotto numerosi marxisti a rigettare il concetto di capitale finanziario, da essi giudicato obsoleto considerato l’attuale dominio dei mercati finanziari. Si tratta senza dubbio di un modo per «buttare il bambino con l’acqua sporca», poiché lo schiacciante dominio della finanza contemporanea, al contrario, rende ancor più necessaria una riflessione – certamente critica – sul concetto di capitale finanziario e la sua pertinenza per l’attualità (3).
Il periodo dell’imperialismo ha visto anche la spartizione del mondo tra le grandi potenze, in particolare, sebbene non esclusivamente, nella forma della colonizzazione (cf. Riquadro 1). Nel 1900, il 90% dell’Africa, il 99% della Polinesia, il 56% dell’Asia ed il 27% dell’America, appartenevano alle grandi potenze europee ed agli Stati Uniti. La conquista del mondo rifletteva già la tendenza del capitale a sconfinare oltre le sue frontiere nazionali. Tuttavia, questa spartizione, tutt’altro che consensuale, esacerbava le rivalità tra stati che sarebbero poi sfociate nella guerra mondiale.
Tra le definizioni di imperialismo che sono state proposte, quella di Rosa Luxemburg, secondo la quale «l’imperialismo, è l’espressione politica del processo di accumulazione del capitale nella sua lotta di concorrenza intorno ai residui di ambienti non-capitalistici non ancora posti sotto sequestro», conserva il suo interesse. Vi si insiste in effetti sull’interazione tra, da una parte, la dinamica internazionale del capitale – già negli anni Quaranta dell’Ottocento, Marx ed Engels avevano notato che «la tendenza a creare il mercato mondiale è data immediatamente nel concetto stesso di capitale» – e dall’altra, l’organizzazione geopolitica mondiale. Un metodo che consente alla Luxemburg di concentrarsi sul ruolo del militarismo, inteso come strumento per conquistare territori e mercati, ma anche come «un mezzo di prim’ordine per la realizzazione del plusvalore, cioè come campo di accumulazione» per il capitale in cerca di profitti (4). Benché tale analisi sia stata criticata da alcuni marxisti, in quanto fondata su un’interpretazione «sottoconsumista» delle crisi capitalistiche, rimane comunque un lavoro pionieristico, in anticipo sui dibattiti che avranno luogo dopo la Seconda guerra mondiale circa il «keynesismo militare» ed il ruolo delle spese militari nella forte crescita economica dei paesi sviluppati.
Una simile interazione tra la dinamica del capitale e l’organizzazione geopolitica – ciò che può essere definito sistema interstatale – costituisce un problema centrale di questo studio. Certamente, lo stato svolgeva già un suo ruolo determinante in Europa, innanzitutto nelle fasi iniziali dell’espansione del capitalismo, in seguito nel momento della rivoluzione industriale. In Frnacia, la borghesia, spaventata dalle forze popolari da essa scatenate nella sua lotta contro l’assolutismo regio, in particolare tra il 1789 ed il 1793, si era nuovamente affidata allo stato, in forma realista (Luigi Filippo, 1830-1848) poi in forma bonapartista (Secondo impero, 1852-1870), al fine di difendere i propri interessi economici e proteggersi dal movimento operaio. Per queste ragioni, le relazioni tra le classi dominanti e le istituzioni statali vi erano più strette che in altri paesi europei.
L’imperialismo moderno, tuttavia, ha conferito a questa interazione tra il capitale ed il «suo» stato nazionale un’importanza accresciuta. Si tratta, infatti, di un nuovo periodo storico, che ha combinato su scala mondiale gli effetti devastanti della concorrenza intercapitalistica e lo scontro esplosivo tra rivalità politiche. Dunque, non solo ha prodotto il mercato mondiale, ma anche le guerre tra stati. Gli ultimi decenni del XIX secolo sono stati contrassegnati dai conflitti armati, con l’obiettivo puro e semplice dell’annessione di nuovi territori da parte della Gran Bretagna e della Francia, e secondariamente della Germania. Prendere il controllo di territori e risorse strategiche rappresentava un obiettivo primario. I conflitti tra paesi europei erano in aumento, sia per via diretta – in tal senso, la Guerra franco-prussiana del 1870 è emblematica, ma quella russo-giapponese del 1905 ha avuto conseguenze non meno importanti – , sia indiretta (in particolare nei Balcani).
Alle radici del militarismo
Il militarismo, nell’epoca in questione, assume una dimensione inedita, poiché viene promosso dai paesi che dominano il pianeta, oltre a poggiarsi sull’utilizzo a fini militari delle scoperte scientifiche e delle innovazioni tecnologiche in campo civile. La formazione degli ufficiali nelle scuole specializzate diviene sempre più specifica e nel corso del XIX prende piede una «scienza della guerra». In Francia, l’École polytechnique, fondata durante la Rivoluzione e posta sotto statuto militare da Napoleone, viene trasformata, negli anni Ottanta dell’Ottocento, con lo scopo di garantire agli ufficiali una migliore formazione scientifica. La scuola, d’altra parte, continua a preparare indistintamente alle funzioni di ingegnere nell’esercito e nelle imprese civili, fatto singolare in rapporto alla maggior parte degli altri paesi sviluppati, e ulteriore conferma del peso dei militari nel sistema di formazione delle élite francesi (5). L’organizzazione della divisione del lavoro nell’esercito e negli arsenali ha fornito preziose indicazioni a Frederick Taylor per la redazione di L’organizzazione scientifica del lavoro, confermando così il punto di vista di Max Weber, secondo il quale la disciplina impartita nell’esercito dovrebbe servire da modello alla moderna fabbrica capitalista (6).
Un’altra svolta decisiva verso il militarismo ha luogo alla fine del XIX secolo. I critici del capitalismo hanno sottolineato come in quest’epoca, l’esercito ed il militarismo non vengano utilizzati solo ai fini della difesa del territorio contro aggressioni esterne, bensì anche contro “il nemico interno”, innanzitutto chi, nelle colonie, rifiuta il giogo metropolitano, e poi quello interno alla metropoli stessa, identificato nelle classi sfruttate (7). Gli storici confermano una tale evoluzione. In Francia, le funzioni assegnate all’esercito sono cambiate profondamente nel corso del XIX secolo, con la Comune di Parigi a fare da cerniera per quanto concerne il ruolo di repressione degli scioperi e delle insurrezioni operaie (8).
Va inoltre menzionato il ruolo della gendarmeria, presente da secoli in Francia e introdotta in numerosi paesi europei a seguito delle guerre intraprese da essa intraprese dopo la Rivoluzione. Le sue funzioni politiche di mantenimento dell’ordine interno aumentano, nonostante la sua affiliazione all’esercito. La Francia, a tal riguardo, si distingue, poiché alla metà degli anni Ottanta dell’Ottocento disponeva di un effettivo di gendarmeria ben superiore a quello della Germania (25.835 gendarmi a fronte di 9.500 in Germania) per una popolazione meno numerosa. In questi stessi anni in Francia, avranno luogo dei dibattiti parlamentari circa la necessità di porre tali corpi alle dipendenze del ministero del’interno (una misura che verrà presa solo nel 2008, sotto la presidenza di Sarkozy). Infine, la creazione di una gendarmeria più mobile, con preciso obiettivo della mobilitazione sui luoghi del potenziale conflitto sociale, avviene nel 1912. A fianco della gendarmeria, l’esercito di terra viene anch’esso mobilitato per spezzare gli scioperi e le manifestazioni operaie.
Sul piano ideologico, il militarismo poggia su di uno sfruttamento apparentemente illimitato delle aspirazioni nazionali e del «patriottismo», spesso trasformato in sciovinismo. Esso presenta i medesimi contenuti negli altri paesi europei, ma varia in funzione della loro storia particolare. In Germania, l’esercito esalta i valori della monarchia e del conservatorismo sociale. Al contrario, la Repubblica francese, «patria della dichiarazione dei diritti dell’uomo», non può che trasmettere ai popoli, fosse anche con mezzi militari, i valori universali di libertà e fraternità. La Marsigliese ha il compito di cementare l’union sacrée. l’istituzione militare consolida la propria legittimità. La legge sulla libertà di stampa, varata dai governi repubblicani, includeva dispositivi che consentivano di perseguire gli scritti antimilitaristi, e le leggi del 1893 e 1894, definite «scellerate» da Léon Blum (9), inasprivano le pene contro l’antimilitarismo. A partire dal 1900 il ricorso a tali leggi aumenta a fronte delle pubblicazioni antimilitariste.
Tuttavia, il radicamento sempre più profondo dell’esercito nella società francese e l’accettazione del suo ruolo benefico, pongono un problema. L’attitudine dei francesi rispetto all’esercito è funzione del grado, più o meno elevato, di fiducia riguardo all’imparzialità dello stato. Il movimento operaio, istruito dalla repressione che si trova a dover fronteggiare, è generalmente diffidente, persino ostile, verso lo stato, il quale agisce spesso, e senza infingimenti, a difesa delle classi dominanti.
È banale constatare come il militarismo poggi sullo sviluppo di armi finalizzate a sconfiggere l’avversario. Eppure, in questo campo, il periodo di sviluppo dell’imperialismo moderno, a partire dagli anni Ottanta del XIX secolo, ha segnato una rottura. Il moltiplicarsi delle guerre e gli sviluppi tecnologici interagivano per stabilire una vera e propria «corsa agli armamenti», espressione utilizzata in riferimento alla Guerra fredda, ma pertinente per l’epoca in questione. I trasferimenti di tecnologia messi a punto per il mercato civile sono stati via via utilizzati allo scopo di perfezionare gli armamenti. La macchina a vapore, poi l’elettricità, le scoperte nel campo dell’ottica, i progressi realizzati con l’acciaio, hanno aumentato la potenza distruttiva di navi e carri armati, ma le capacità di sterminio sono ancor più debitrici all’applicazione militare delle scoperte compiute nella chimica organica (si pensi agli esplosivi).
Sebbene la corsa agli armamenti abbia riguardato i paesi più potenti, Germania, Francia e Gran Bretagna, ha comunque implicato quelli di secondo rango, in primo luogo in quanto importatori e talvolta come adattatori di armi prodotte dai paesi del centro. Dunque, le esportazioni di armi dei tre grandi paesi europei, in quest’epoca, sono servite da stimolo alle guerre «locali» in Europa centrale (Serbia-Austria), ai conflitti armati con la Turchia, e anche in Asia, dove le importazioni di armi e di tecnologie occidentali alimenteranno la Guerra sino-giapponese del 1893, poi russo-giapponese nel 1905.
L’accentuarsi del militarismo coniugato al nazionalismo è tale, a partire dagli anni Settanta e Ottanta dell’Ottocento, che Friedrich Engels prevede, circa trent’anni prima dell’inizio della barbarie del 1914-1918, «una guerra mondiale di ampiezza e intensità mai viste, nella quale dagli otto ai dieci milioni di soldati si massacreranno a vicenda, svuotando l’europa di ogni sostanza» (10). Nella sua analisi di questo «militarismo che domina e divora l’Europa» (11), Engles individua diverse cause per questa deflagrazione che ritiene inevitabile: le rivalità geo-economiche ne costituiscono la trama esplicativa; ancora, la «corsa alla tecnologia militare» non ha ormai limiti, benché pareggi le capacità distruttive degli stati dominanti; infine, essa pesa sui sempre più sulle finanze pubbliche, rischiando di condurre alla bancarotta degli stati, minacciando in tal modo l’intero edificio capitalistico.
L’espansione dell’industria degli armamenti
La sconfitta della Francia da parte delle armate tedesche aveva segnato durevolmente il trionfo di Krupp e della sua produzione di armi, con la quale era ormai necessario competere, senza dimenticare la potente industria britannica. Malgrado le pesanti indennità di guerra dovute alla Germania (5 miliardi di franchi), i governi francesi poterono beneficiare di budget militari considerevoli. Per il periodo 1870-1913, le spese militari francesi rappresentavano il 3,68% del PIL, contro il 2,63 del Regno Unito, il 2,56 della Germania e lo 0,74 degli Stati Uniti (12). Solo la Russia vantava un rapporto spesa militare/PIL più elevato. Tuttavia, nel momento stesso in cui il riarmo francese si ampliava, il posto della Francia nell’economia mondiale, misurabile sulla base della sua quota di produzione manifatturiera mondiale, iniziava a declinare: tra il 1860 e il 1913, passava dal 7,9% al 6,1%, laddove quella della Germania cresceva dal 4,9% al 14,8% (13).
La diffusione del militarismo venne accompagnata dall’espandersi dell’industria degli armamenti, per quanto la spesa per attrezzature militari, la quale alimentava le commesse degli industriali, non rappresentasse prima del 1914 che una minima parte del bilancio militare (meno del 10%, contro il 40-50% degli anni successivi al 1960), poiché le spese operative delle armate inglobavano la parte essenziale del bilancio della difesa. Dotata di un’esperienza antica, risalente alle manifatture reali, l’industria francese sviluppa, all’indomani della guerra del 1870, una produzione di armi che la colloca in posizione dominante insieme a quelle britannica e tedesca. La società Le Creusot svilupperà acciai per armi da fuoco e protezioni, altre società siderurgiche conosceranno un’espansione tale da spingere alcuni a caratterizzare tale periodo come quello «della formazione di un potente complesso militare-industriale, diversificato ed indipendente alla viglia della Prima guerra mondiale» (14). La concentrazione dei beneficiari di commesse di armi da parte del ministero era già forte, considerando che alla fine del XIX secolo, dieci grandi imprese ne ricevevano il 77%, una proporzione di ordine pari a quello odierno. Ciò nonostante, l’influenza di questo «complesso» sulle strutture produttive dell’industria francese non era comparabile a quella che avrebbe assunto a partire dagli anni Cinquanta del Novecento.
L’era dei «mercanti di cannoni», il cuore della quale risiedeva nell’industria siderurgica, era iniziata. Uno dei suoi emblemi era la società Schneider, la cui storia è ampiamente documentata. dopo aver sostenuto con forza napoleone III nella sua presa del potere, essa svilupperà dopo il 1870 una significativa produzione militare su commissione dei governi repubblicani. Il ruolo della domanda militare nell’espansione dell’industria siderurgica francese è, d’altra parte, innegabile. Certo, la parte riservata alle «produzioni speciali» – espressione designante la produzione destinata alle armi – nel fatturato di quest’industria rimaneva modesta. La domanda militare, nondimeno, ha esercitato un ruolo «anticiclico», in particolare negli anni che seguirono la grande depressione del 1873. Più in generale, l’incremento delle «produzioni speciali», coinciderà con la stagnazione del valore aggiunto nei settori della costruzione meccanica e della metallurgia (15), e sosterrà l’attività delle grandi imprese (ad esempio, Schneider, Marin et Chemin de fer e Châtillon-Commentry).
Forse più importante, il sostegno statale consentirà a tali aziende di sviluppare un’aggressiva strategia per l’esportazione di armi. A questo proposito, le crescenti tensioni del decennio precedente la guerra del 1914-1918 si sarebbero dimostrate estremamente positive per l’industria degli armamenti. La già citata società Schneider è ancora una volta rappresentativa. Quest’ultima costruirà una rete internazionale al fine di vendere le proprie armi, godendo inoltre di una forte presenza in Russia. Sviluppando una ricerca orientata alle specialità militari, realizzerà trasferimenti di tecnologia sotto forma di concessione di licenze sui propri brevetti (sistemi di artiglieria, razzi ed altri esplosivi, siluri ecc. (16)), insieme ad industrie britanniche, poi russe, in particolare le officine Putilov. L’utilizzo dei materiali Schneider nelle guerre balcaniche che precederanno la guerra mondiale, renderà dinamiche le esportazioni della società. Nel momento in cui le esportazioni di materiali bellici costituivano il 10% della produzione siderurgica francese tra il 1870 ed il 1014, il che già di per sé non è trascurabile, la loro progressione si rivelò ancor più forte per il gruppo Schneider: le esportazioni rappresentavano così tra il 60 e l’80% della sua produzione di armamenti nel 1909-1911.
Il mercato internazionale delle armi si strutturava intorno ad alcuni paesi venditori e ad una serie di intermediari, il più noto dei quali era Basile Zaharoff. Le grandi imprese mobilitavano nei rispettivi paesi la stampa ed i partiti politici, al fine di creare un’unione nazionale contro i concorrenti. Ciò non impediva loro di ricorrere, se necessario, agli stessi intermediari, né di adottare un comportamento talvolta collusivo. La società Schneider aveva un rivale insuperabile, la società tedesca Krupp, che incontrava nella maggior parte dei mercati di potenziali clienti.
Il Secondo impero favorirà il militarismo cosmopolita. Napoleone III, del quale Victor Hugo ebbe a dire «infangherebbe il secondo piano della storia e ne macchia il primo» (18), intratteneva comunque buone relazioni con Alfred Krupp, che aveva decorato con la Legion d’onore in occasione dell’Esposizione universale di Parigi. Nel 1868, quando la tensione tra Francia e Germania era ormai divenuta altissima, l’imperatore scriveva a Krupp, il quale gli aveva inviato il suo nuovo catalogo, «l’imperatore […] vi ringrazia e […] vi comunica che [egli] desidera vivamente il successo e lo sviluppo di un’industria chiamata a rendere all’umanità servizi degni di nota» (19).
In tal modo, benché la tensione tra Francia e Germania andasse crescendo all’inizio del secolo passato, le due compagnie rivali erano in grado di superare le rivalità così da aprirsi nuovi mercati: si alleeranno al fine di rafforzare la propria presenza sul mercato russo, il quale, in materia di importazione di armamenti, era importante per i mercanti d’armi francesi dell’epoca quanto lo sono oggi l’Arabia Saudita e d il Qatar per Dassault, Thalès e i gruppi francesi dell’armamento. La società Schneider acquisterà anche le licenze di Krupp in Russia, e la Skoda, filiale cecoslovacca di Krupp, gli concederà un credito, in seguito al rifiuto di Société générale. La banca francese, in effetti, difendeva gli interessi del gruppo britannico Vickers, il quale costituiva la seconda società più quotata della City nel periodo precedente la Prima guerra mondiale, nonché l’altro grande rivale della Schneider (20).
Tutto ciò da un’idea del ruolo delle banche, non solo nel finanziamento dell’esportazione di capitali dei grandi paesi, ma anche nell’espansione del militarismo. La famiglia Schneider, consapevole della loro importanza, aveva preso parte alla fondazione della Banque de l’Union parisienne, al fine di disporre degli stessi vantaggi di Vickers. Il ruolo delle banche consisteva nell’ottenere i finanziamenti indispensabili ai paesi clienti, spesso in stato di potenziale fallimento, e nel fare pressione sui governi dei paesi venditori perché sostenessero, anche attraverso prestiti ai paesi acquirenti, l’acquisto di armi alle loro imprese nazionali.
La guerra del 1914-1918, segnerà il trionfo degli affari dell’industria degli armamenti. Nel momento in cui l’indice della produzione industriale della Francia passa da 100 nel 1913 a 57 nel 1919 (21), i profitti delle società produttrici di armi esplodono, grazie ai margini, talvolta esorbitanti, guadagnati sui contratti con lo stato francese. La guerra ha anche dato adito a progressi tecnologici e all’emergere di un nuovo settore industriale, l’aeronautica. Dopo la Prima guerra mondiale, la Francia era divenuta la seconda esportatrice mondiale di armi, realizzando, secondo i dati della Società delle nazioni (SDN, precorritrice dell’ONU), il 12,9% del totale delle esportazioni tra il 19121 ed il 1930, di gran lunga dietro la Gran Bretagna (30,8%).
I gruppi francesi del settore degli armamenti, talvolta, si sono curati ben poco degli interessi militari del loro paese nelle loro strategie internazionali. Così, tra le due guerre, l’esportazione di armi verso paesi nemici, come il Giappone, si svilupperà a tal punto che nel 1933, l’agenzia di stampa statunitense United Press riporterà che «le fabbriche francesi lavorano giorno e notte per il Giappone», citando come esempio Breguet et Potez (aviazione), Renault (carri armati) e Hotchkiss (armi automatiche) (22). La Schneider acquisirà la Skoda dopo la Prima guerra mondiale, rendendola una piattaforma di esportazione verso paesi nemici, come l’Ungheria ed il Giappone. Inoltre, è cosa nota, dalle dichiarazione all’Assemblea nazionale rese da Paul Faure, deputato socialista del Creusot, che la società francese commerciava con la Germania nazista ed inviava munizioni all’impresa Mauser (Leipzig) (23).
Di fatto i registri tenuti con non poca difficoltà dalla SDN dimostrano come le esportazioni della Francia verso la Germania abbiano rappresentato il 7% di quelle totali tra il 1927 ed il 1931. Sappiamo anche che il 30% delle esportazioni tedesche di munizioni, tra il 1929 ed il 1933, sono andate alla Francia (24). Quanto alle importazioni di munizioni della Francia, la quota proveniente dalla Germania e pari al 27,6% nel 1934 ed al 13% nel 1936 (si tenga a mente che Hitler va al potere il 30 gennaio del 1933). Va anche detto che i mercanti d’armi britannici proseguiranno i propri affari con la Germania nazista con il medesimo entusiasmo dei francesi.
Infine, durante la Seconda guerra mondiale, l’industria francese degli armamenti lavorerà assiduamente per l’esercito tedesco. In effetti, la strategia delle autorità d’occupazione combinava il saccheggio delle risorse disponibili con la ricostruzione degli impianti industriali necessari al perseguimento di una lunga guerra, visto e considerato che Hitler confidava nella sottomissione delle élite francesi. Dal luglio 1940, il Terzo reich riceveva l’appoggio del Regime di Vichy al fine di sostenere il flusso di ordini di materiale bellico. A partire dal 1943, il governo Laval intensificherà il proprio aiuto alla Germania, grazie ad «un piano per l’estensione della produzione delle industrie meccaniche e aeronautiche operanti in Francia nell’interesse dell’economia di guerra europea» (25). Di fatto, il governo francese si mostrerà particolarmente zelante nel collaborare, la sola Francia garantendo la maggior parte delle forniture di beni industriali all’esercito tedesco. Tale coinvolgimento, franco e diretto, nella collaborazione industriale col regime nazista lascia «perplesso lo storico di fronte alle innumerevoli storie spacciate in seguito, dalle aziende interessate, circa un sabotaggio indiretto, grazie ad un rallentamento deliberato» (26).
L’esercito e la questione sociale
Dopo la Rivoluzione francese, la questione del posto e del ruolo dell’esercito nella vita sociale e politica francese non ha cessato di porsi. Nel 1792, la mobilitazione popolare («il popolo in armi») aveva fatto ripiegare le potenti armate dell’Europa coalizzate contro la Rivoluzione, ma ben presto il consolidarsi dello stato (tramite il Comitato di salute pubblica) si accompagnava con l’inasprirsi delle rivalità politiche, le quali riflettevano in parte divergenze sul corso della Rivoluzione. Fu allora la sua ala sinistra, ed in seno ad essa gli «enragés» (gli arrabbiati) e gli «hébertisti», a combattere questa «dittatura spaventosa» (27). L’esercito professionale del 1794, sotto la direzione di Carnot, avrebbe giocato un ruolo essenziale nella conquista del potere da parte di Napoleone, il Consolato innanzitutto, il primo impero in seguito (1804). Durante il regno di Bonaparte, la borghesia affarista conoscerà «un’epoca dell’oro», ed i militari avranno la loro parte, considerando che andranno a comporre il 59% della nobiltà creata dall’imperatore (28).
La disfatta subita a Waterloo (1814) mette un termine alle ambizioni di conquista militare dell’Impero, ma non segna certamente un ridimensionamento del ruolo dell’esercito nella società francese. L’assenza di guerre tra le grandi potenze europee nel corso di numerosi decenni dopo il ritorno della monarchia in Francia (1815) si tradurrà in nuovi compiti assegnati all’esercito. Per riprendere la formula di Raoul Girardet, il profilo del militare di carriera evolverà da «soldato della libertà [la Rivoluzione francese] a soldato dell’ordine» (29), va precisato, tuttavia, che si tratta dell’ordine coloniale e sociale, la cui difesa da parte dell’esercito ha costituito un tratto permanente del XIX secolo.
Un uomo, allora, incarna tale duplice ruolo dell’esercito, al contempo esterno (colonizzatore) e interno (mantenimento dell’ordine). Designato bonariamente come «père Bugeaud», il maresciallo Bugeaud, duca d’Isly, è rimasto celebre per una canzone militare («La casquette du père Bugeaud») che i siti internet classificano con noncuranza come canzoncina per bambini o filastrocca. Senza dubbio per ignoranza, poiché egli è noto per il ruolo svolto nella colonizzazione dell’Algeria e del Marocco, è meno conosciuta la sua attività di repressione dei movimenti popolari a Parigi nel 1834, in particolare il massacro di rue Transnonain. Nel 1848, Bugeaud proponeva a Luigi Filippo di porre fine, una volta per tutte, alla rivoluzione, ricordando come egli non fosse «mai stato sconfitto, sia sul campo di battaglia che nelle insurrezioni»; nella stessa occasione invitava a farla finita rapidamente con «questa canaglia ribelle» che formava il popolo di Parigi (30). Le sue dichiarazioni a proposito dell’Algeria erano altrettanto radicali. Avendo uno dei suoi subordinati murato vivi in delle grotte, per poi “affumicarli”, 700 membri della tribù Ouled Riah, egli ebbe ad affermare nel corso di n’interpellanza alla Camera: «ritengo che il rispetto delle regole umanitarie non farà che prolungare la guerra in Africa indefinitamente» (31).
Più in generale, è possibile affermare che l’esercito è intervenuto per ristabilire l’ordine nel corso di tutti i grandi movimenti popolari che hanno punteggiato il XIX secolo: l’arrivo del duca d’Aumale, alla testa di una truppa di 20.000 effettivi, per spezzare lo sciopero dei tessitori di Lione nel 1930 (egli aveva anche combattuto Abd-el-Kader, del quale aveva ottenuto la resa), la repressione degli operai che rivendicavano la «Repubblica sociale» nel 1848, evento che provocherà, in giugno, oltre 1.500 morti, saranno seguiti dal colpo di stato di Luigi Bonaparte (2 dicembre 1851). Il Secondo impero non si accontenterà di reinstallare l’esercito al cuore del potere, bensì gli offrirà nuove avventure in Europa (in Crimea nel 1854, in italia nel 1859), in Cina (1860), Libano (1861) ed in Messico (1862). Il militarismo del Secondo impero rimpiazzerà, come dirà Karl Marx, al moto «Liberté, égalité, fraternité, le parole di significato non equivoco: Fanteria, cavalleria, artiglieria» (32).
Il primo compito dell’esercito, dopo la sconfitta subita nel giro di pochi mesi con la Germania, consistette nell’organizzare, su richiesta del governo di difesa nazionale (i «Versagliesi») guidato da Adolphe Thiers, la repressione della Comune di Parigi, con un numero di morti stimato tra i 10.000 ed i 20.000 e quello dei condannati e proscritti in decine di migliaia. Il mantenimento dell’ordine sociale non costituiva certo una missione inedita per l’esercito, tuttavia, in questo frangente, si trattava di operare in nome della Repubblica e dei suoi valori. In sintesi, l’esercito veniva invitato dai politici a consolidare la Repubblica contro il «nemico interno» dell’epoca. Il duca d’Audiffret-Pasquier, parlamentare, «portavoce dei gentiluomini di provincia e dei borghesi conservatori, costituenti la maggioranza dell’Assemblea», invocava, durante una delle prime sessioni, il ricordo dell’esercito «che ci ha salvati nel 1848 [e] ci ha salvati ancora nel 1971» (33). Salvati, certo, ma dalla Comune, non dalla disfatta contro la Germania!
La repressione attuata contro il popolo di Parigi costituirà il punto di partenza della rigenerazione dell’esercito, tuttavia non basterà a ristabilirlo come colonna portante dello stato nella Terza repubblica, il cui primo presidente, eletto il 25 maggio del 1873 al posto di Thiers, sarà il maresciallo Mac Mahon, uno dei suoi elementi più brillanti. Trai punti di forza che ne garantiranno l’elezione quasi all’unanimità, il suo status di «comandante dell’esercito, [di] vincitore della Comune, [di] colui che aveva ristabilito l’ordine pubblico e l’autorità del governo legale su Parigi; egli era divenuto l’indispensabile garante dell’ordine interno» (34). Ma l’elezione di un membro dell’esercito non era abbastanza, dato il radicamento della tradizione antirepubblicana nelle sue fila, in larga maggioranza monarchiche e imperiali.
Il processo di integrazione dell’esercito nella Repubblica sarà agevolato dall’espansione coloniale, poiché le conquiste avverranno in nome della missione civilizzatrice della Repubblica francese. Inoltre, i governi della Terza repubblica trasformeranno l’esercito al fine di porlo sotto il controllo delle sue istituzioni. Tra le misure intraprese, la coscrizione obbligatoria, individuale (1872 e 1873), mirante a prevenire attività alternative e a far svolgere, in tal modo, un ruolo di integrazione sociale al servizio militare, l’interdizione del voto per i militari e la loro ineleggibilità alla Camera, nel 1875, e al Senato a partire dal 1884, infine, la democratizzazione del reclutamento dei quadri dell’esercito. Date queste condizioni, l’utilizzo dell’esercito da parte del potere politico nei conflitti sociali non era privo di problemi, essendo ormai composto da soldati che, spesso di concerto con la polizia, erano costretti a partecipare direttamente alle misure di ordine pubblico dirette contro i loro «fratelli nella miseria» (35). Diversa la situazione degli ufficiali di stato maggiore, i quali sottolineavano «i benefici degli scioperi, certo deplorandone la frequenza, ma che presentavano il vantaggio di tenere […] all’erta gli ufficiali e [che] rappresentavano per questi ultimi una sorta di allenamento per ciò che avrebbero dovuto fare in guerra» (36).
Di fatto, gli interventi dell’esercito contro il movimento operaio condotti su richiesta del governo sono stati numerosi. Senza alcuna pretesa di esaustività, si possono citare gli interventi nella Gard (1881), ad Anzin (1885), Fourmies (1 maggio 1891), Carmaux (1892), Limoges (1905), Draveil e Narbonne (1907) e Villeneuve-Saint Georges (1908). Un tale accumularsi di episodi non poteva che nutrire un profondo antimilitarismo operaio, portatore del rischi di esplosioni sociali e politiche incontrollabili, la cui espressione più celebre, ma lungi dall’essere isolata, è rappresentata dalla rivolta del 17° reggimento di fanteria, il quale rifiutò di sparare sui vignaioli del Languedoc-Roussillon. Come precisato da Robert Paxton, «la Francia non era certo, alla fine del XIX secolo, il solo paese europeo le cui truppe regolari reprimevano gli scioperi industriali […]. Ma solo in Francia si è visto l’esercito riconquistare la capitale come fosse una fortezza nemica, e questo per ben due volte : nel 1848 e nel 1871. L’onta che la sua reputazione di «esercito di classe» aveva lasciato sull’istituzione militare rimarrà una ferita aperta» (37). La creazione, nel 1921, a seguito di dibattiti decennali, di un corpo di guardie mobili, dedite esclusivamente all’intervento nelle manifestazioni, è stato un tentativo di attenuare le difficoltà di impiego dell’esercito regolare in tali occasioni.
La progressiva accettazione del parlamentarismo repubblicano da parte dell’esercito, sia pur a malincuore, è andata di pari passo col mantenimento della sua autonomia in seno agli apparati di stato; in molteplici occasioni, esso ha esplicitamente ricercato il conflitto con le legittime istituzioni della Repubblica. Il generale Boulanger, rafforzato dalla sua posizione di ex-ministro della guerra, riesce ad organizzare una mobilitazione popolare al fine di rovesciare il governo. Alcuni anni dopo, nel 1894, l’organizzazione del processo al capitano Dreyfus da parte dello stato maggiore, grazie alla fabbricazione di documenti e testimonianze falsi, consente di fare appello al ruolo vitale dell’esercito contro il nemico esterno ed interno – in quel caso, gli ebrei ed i loro sostenitori – e di condurre, congiuntamente alle correnti monarchiche, una campagna antiparlamentare mirante a destabilizzare le istituzioni della Repubblica, definita la «gueuse» [donna di strada, n.d.t.] dai realisti, ed in seguito, negli anni Trenta, dall’estrema destra.
Le pressioni dell’esercito, rafforzate da movimenti di massa xenofobi e antirepubblicani el contesto dell’affaire Dreyfus, saranno tali che il governo radicale presieduto da Waldeck-Rousseau nominerà nel 1899 il generale Galliffet a ministro della guerra, dopo aver, pochi anni prima, affidato per la prima volta lo stesso incarico ad un civile (Freyssinet). Il generale verrà accolto dai socialisti al grido di «assassino», «fucilatore», «canaglia» (38). Egli era stato, in effetti, uno dei più attivi nella repressione dei comunardi. Lissagaray, nella sua storia della Comune, riporta un aneddoto: «Domenica 28, Galliffet disse “coloro che hanno i capelli bianchi facciano un passo avanti”. Centoundici prigionieri si fecero avanti. “Voi, proseguì Galliffet, avete assistito al giugno del 1848, voi siete più colpevoli degli altri”; poco dopo fece rotolare i loro cadaveri nelle fosse di fortificazione» (39).
All’inizio del XX secolo, i partiti repubblicani «radicalizzeranno» le loro azioni finalizzate a far accettare definitivamente i principi della Repubblica all’esercito e alla chiesa. Ciò non impedirà al Partito radicale, asse politico dei governi repubblicani, di mutare la propria posizione circa il ruolo dell’esercito nei conflitti sociali. Il giovane Clemanceau, che negli anni Ottanta del secolo precedente interveniva animatamente contro la repressione delle manifestazioni operaie da parte dei militari, raggiungerà, diventando vent’anni dopo ministro dell’interno (1906), l’età della ragione (di stato). Le sue direttive muscolari gli varranno la nomea di «distruttore di scioperi» (40).
A partire dall’inizio del XX secolo sino alla Seconda guerra mondiale, la «guerra dei trent’anni» pone l’esercito al centro della politica francese. Se la Germania, nemico tradizionale, rappresenta la principale delle sue preoccupazioni, l’esercito interviene ugualmente nelle colonie. In Marocco, dove 120.000 francesi si installeranno nei quindici anni seguenti la fine della Prima guerra mondiale, la Guerra del Rif (1926) mirerà a reprimere la lotta dei movimenti indipendentisti guidati da Abdelkrim. Questi ultimi verranno bollati dal presidente del consiglio Aristide Briand (premio Nobel per la pace quello stesso anno) «come aggressioni fomentate contro l’opera di civilizzazione e di tradizionale liberalismo della Francia». Nel territorio metropolitano, l’esercito, forte del proprio prestigio, si sentirà pronto a sostenere un ruolo a fronte del «nemico interno» (la «sovversione comunista»), espressione utilizzata in un rapporto scritto nel 1932 dal capo di stato maggiore della regione militare di Parigi e approvato dal maresciallo Pétain, all’epoca il militare di maggior ascendente (41).
Pochi anni dopo, il maresciallo Pétain farà in modo che militari di alto rango, compreso il maresciallo Franchey d’Esperey, l’altro unico maresciallo di Francia ancora in vita all’epoca, partecipino alla fondazione di un gruppo di estrema destra deciso a porre fine alla repubblica: il Comitato segreto di azione rivoluzionaria, noto come «Cagoule». A dispetto della sua ostilità verso la Repubblica, Pétain continuerà a godere del consenso di tutti i partiti politici parlamentari, fatta eccezione per il PCF. Nel marzo del 1939, verrà nominato ambasciatore di Francia presso Franco, una posizione che, avrebbe in seguito confidato al suo aiutante di campo, l’aveva «aiutato ad espiare i peccati del Fronte popolare» (42).
È in quanto più alto graduato nell’esercito francese, affiancato dal maresciallo Weygand, secondo nella gerarchia, che il maresciallo Pétain presiederà il regime collaborazionista con la Germania nazista. Il lavoro di Robert Paxton sul corpo ufficiali francese durante la guerra fornisce informazioni indispensabili.Lo schieramento della gran parte degli ufficiali col maresciallo Pètain sarà entusiastico. Il che spiega come «il corpo degli ufficiali di carriera francesi, sebbene spogliato dell’essenziale dei suoi armamenti e uomini, sia sopravvissuto in quanto gruppo sociale omogeneo e sicuro di sé… Nono contento di sopravvivere, giocherà un ruolo attivo nel regime di Vichy» (43). Diverse le motivazioni alla base di tale scelta: ostilità alla Repubblica, ai «professori socialisti che avevano educato gli ufficiali di riserva facendogli perdere la guerra» (dichiarazione di Pétain del luglio 1940), antisemitismo, anglofobia, ecc. Marc Olivier Baruch aggiunge che il periodo 1940-1944 «rappresenta il punto di convergenza tra l’ordine costituzionale e quello militare [poiché] i valori militari, esaltati nei discorsi del capo di stato, tendevano a penetrare nell’insieme dello stato» (44).
In sintesi, emerge un’idea di fondo: la convinzione che l’esercito costituisca la colonna vertebrale dello stato, del quale deve assicurare continuamente la protezione e talvolta la rigenerazione. L’ordine del giorno del generale Huntziger, rappresentante della Francia alle negoziazioni per l’armistizio, recita «l’esercito d’armistizio esiste innanzitutto per garantire il mantenimento dell’ordine». Ancora una volta, per l’esercito, l’ordine interno è altrettanto importante di quello esterno. Il timore di Huntziger e dello stato maggiore francese è che l’annuncio dell’armistizio possa provocare, come nel 1871, «una nuova Comune». Nell’estate e nell’autunno 1940, il compito prioritario dell’esercito consiste nel «prevenire una rivoluzione sociale», inoltre, il «timore di un soviet parigino […] aveva contribuito inizialmente a convincere il generale Weigand della necessità di un armistizio» (45). Importa poco sapere se una simile preoccupazione fosse fondata su fatti tangibili, più rilevante è il chiarimento che fornisce circa lo stato d’animo della gerarchia militare.
La stessa preoccupazione per l’ordine e la convinzione che l’esercito rimanga l’istituzione centrale dello stato spiegano perché «osservando più da vicino, l’esercito francese del dopoguerra appariva come l’erede diretto di quello dell’armistizio [quello del regime di Vichy], e malgrado mutamenti apparenti, erano in realtà gli anziani di quest’ultimo a guidare l’esercito francese durante la liberazione, nel corso di tutta la Quarta repubblica, nonché sotto la Quinta» (46).

Riquadro 1
Colonialismo e imperialismo

Nel giro di alcuni decenni, un pugno di grandi paesi ha esteso il proprio controllo sull’insieme del pianeta. la Francia e la Gran Bretagna, in particolare, si sono accaparrate numerosi territori i cui governi non erano in grado di resistere. Il colonialismo si è imposto come un’importante modalità di dominio, ma altre forme di controllo delle risorse e dei territori sono state dispiegate, spingendo due storici inglesi a parlare di «impero informale» per caratterizzare l’influsso della Gran Bretagna su paesi ufficialmente indipendenti, o semi sviluppati. Di fatto, «impero formale ed informale erano fondamentalmente interconnessi e, sino ad un certo punto, intercambiabili» (47).
La colonizzazione è stata sovente identificata con l’imperialismo e ridotta al suo interesse economico. Riguardo al primo punto, va ribadito che le teorie marxiste dell’imperialismo sono maggiormente inclusive e segnano un nuova era. La colonizzazione non è altro che uno degli strumenti del dominio, il Portogallo o l’Argentina (Lenin), la Turchia e la Cina (Luxemburg) venivano, ad esempio, citati come paesi indipendenti soggetti al dominio del capitale finanziario (Lenin) ed ai prestiti internazionali (Luxemburg). Per quanto riguarda il secondo punto, concernente il rendimento effettivo del capitale investito nelle colonie, il dibattito tra storici inglesi (inaugurato da Patrick K. O’Brien, in riferimento al peso del «fardello» delle spese militari legate alla colonizzazione dell’India) e quello tra storici francesi (a partire dalle tesi di Jacques Marseille contestanti il punto di vista degli storici marxisti) non sono chiusi, anche se i benefici della colonizzazione per la Francia sono tutt’ora palpabili, come dimostrato dal posto dell’Africa nell’economia francese.
Di certo, i vantaggi tratti dalla colonizzazione (in senso stretto) non possono essere misurati esclusivamente in termini economici, come indica la colonizzazione francese in Africa. I fattori «extraeconomici» – termine troppo riduttivo – sono innumerevoli. Dopo il 1870, i governi e l’esercito hanno trovato nella conquista coloniale una risposta all’umiliazione subita nel 1870, così come all’annessione dell’Alsazia e della Lorena da pare della Germania, da cui una significativa emigrazione verso il Maghreb. La volontà di attenuare le tensioni sociali rientrava ugualmente tra gli obiettivi dei governi inglesi, come conferma il commento di Cecil Rhodes, magnate e uomo politico: «Se non si vuole la guerra civile, occorre diventare imperialisti» (48). La stessa ossessione ha condotto il ministro Abert Sarraut, uno dei teorici della colonizzazione, a patrocinare tra le due guerre la valorizzazione economica delle colonie da parte della Francia, al fine di evitare l’insurrezione comunista.
Le argomentazioni ideologiche serviranno da rinforzo, poiché la Francia, è stato affermato, porta in sé come una seconda natura «una missione civilizzatrice», in particolare per quanto riguarda i popoli ancora primitivi. Albert Sarraut, di conseguenza, dichiara: «la Francia che colonizza organizza senza dubbio lo sfruttamento a proprio vantaggio, ma anche a vantaggio del mondo in generale» (49). Quanto al maresciallo Lyautey, questi afferma che «è nell’azione coloniale [che il mondo] è ora in grado di realizzare una nozione di solidarietà umana» (50).
L’influenza del «partito coloniale», comparso nel 1890, e l’esposizione coloniale del 1931, la quale attirerà 33 milioni di visitatori, non sono che due esempi dell’intensa mobilitazione ideologica a favore di tale «missione civilizzatrice». Questioni di natura geopolitica hanno ugualmente avuto la loro importanza per la colonizzazione, essendo la presa di possesso di territori il mezzo più sicuro per evitare che essi finissero in mano ad altri paesi europei
In breve, i fattori politici, sociali ed ideologici si sono intersecati con i benefici economici nella colonizzazione, i quali ultimi sono reali e sostanziali. Questo intreccio di fattori permane oggi nelle relazioni tra la Francia e le sue ex colonie africane.

  1. Adeline Daumard, «Puissance et inquiétudes de la Belle Époque», in F. Braudel e E. Labrousse (a cura di), Histoire économique et sociale de la France, t. I,  Parigi, Presses universitaires de France, 1993.
  2. Rudolf Hilferding, Il capitale finanziario, Milano – Udine, Mimesis Edizioni, 2011 [1910].
  3. Circa la trasformazione dei grandi gruppi industriali (tutti quanti imprese multinazionali) in gruppi finanziari, si veda C. Sauviat et C. Serfati, «Emprise financière et internationalisation des groupes français : un premier état des lieux», Revue de l’IRES, n° 82, 2014/3, 2014.
  4. Rosa Luxemburg, L’accumulazione del capitale, Torino, Einaudi, 1974, pp. 447 e 455.
  5. Barton C. Hacker, «Engineering a New Order: Military Institutions, Technical Education, and the Rise of the Industrial State», Technology and Culture, vol. 34, n° 1, 1993.
  6. Max Weber, Economia e società, Roma, Donzelli.
  7. Karl Liebknecht, Militarism and Anti-Militarism, with Special Regard to the International Young Socialist Movement, 1907, http://www.marxists.org/archive/liebknecht-k/works/1907/militarism-antimilitarism
  8. Michalina Clifford-Vaughan, «Changing Attitudes to the Army’s Role in French Society», The British Journal of Sociology, vol. 15, n° 4, 1964.
  9. Léon Blum, « Comment ont été faites les lois scélérates », Revue blanche, 1er juillet 1898, http://www.jaures.eu/ressources/divers/les-lois-scelerates-de-1893-1894-1-comment-elles-ont-ete-faites-leon-blum/
  10. Friedrich Engels, «Introduction to Borsheim», 1887, https://www.marxists.org/archive/marx/works/1887/12/15.htm.
  11. Friedrich Engels, Anti-Dühringhttps://www.marxists.org/italiano/marx-engels/1878/antiduhring/2-1.htm
  12. Jari Eloranta, «Struggle for Leadership? Military Spending Behavior of the Great Powers, 1870-1913» (2002), http://www.appstate.edu/~elorantaj/warwick2002d
  13. Paul Bairoch, «International Industrialisation Levels from 1750 to 1980», The Journal of European History, vol. 11, n° 2, 1982.
  14. Claude Beaud, «Les Schneider marchands de canons (1870-1914)», Histoire, économie et société, vol. 14, n° 1, 1995, p. 120.
  15. François Crouzet, «Recherches sur la production d’armements en France (1815-1913)», Revue historique, n° 509, 1974, p. 68.
  16. Claude Beaud, «Les Schneider…», art. cit.
  17. François Crouzet, art. cit.
  18. Napoléon le Petit, livre premier.
  19. Citato in O. Lehmann-Russbüldt, L’Internationale sanglante des armements, Bruxelles, L’Églantine, 1930, p. 39. L’autore aggiunge che «Karl Liebknecht ebbe a rileggere questa corrispondenza al Reichstag, il 19 aprile del 1913».
  20. Cf. H. C. Engelbrecht e F. C. Hanheguen, Marchands de mort. Essai sur l’industrie internationale des armes, Parigi, Flammarion, 1934, cap. 10 : «Le seigneur Schneider».
  21. F. Caron et J. Bouvier, «Guerre, Crise, Guerre» , in F. Braudel e E. Labrousse (a cura di), Histoire économique et sociale de la France, t. IV, op. cit., p. 636.
  22. Citato in Engelbrecht e Vanheguens, Marchands de mortop. cit., p.220.
  23. Ibid. Fatto lungi dall’essere inedito. Le imprese Vickers (Gran Bretagna) e Krupp (Germania) proseguiranno la propria collaborazione tecnica, iniziata nel 1902, sino al 1916, quando i rispettivi paesi erano in guerra già dal 1914.
  24. Società delle nazioni, Annuaire statistique du commerce des armes et des munitions, Genève, 1934 e 1938.
  25. Arne Radtke-Delacor, «Produire pour le Reich. Les commandes allemandes à l’industrie française (1940-1944)», Vingtième Siècle, n° 70, 2001, p. 110.
  26. Ibid., p.115.
  27. Secondo le parole di Théophile Leclerc, collocato all’estrema sinistra, citato da Daniel Guérin, Bourgeois et bras nus, 1793-1795, Parisgi, Gallimard, p. 206.
  28. Albert Soboul, «La reprise économique et la stabilisation sociale, 1797-1815», in F. Braudel e E. Labrousse (a cura di), Histoire économique et sociale de la Franceop. cit.
  29. Citato in Robert Paxton, L’Armée de VichyLe corps des officiers français 1940-1944, Taillandier, Parigi, 2004 [1966], p. 29.
  30. Citato da Marx, il quale redigerà, con l’apporto di Engels, un’articolo su Beugeaud per  The New American Encyclopedia.
  31. https://www.herodote.net/almanach-ID-2991.php
  32. K. Marx, Il 18 Brumaio di Luigi Bonaparte, http://www.sitocomunista.it/marxismo/marx/18brumaio/prefazioni.html
  33. Raoul Girardet, La Société militaire de 1815 à nos jours, Parigi, Perrin, 2001, p. 121-22.
  34. O. Forcade, É. Duhamel, P. Vial (a cura di), Militaires en République (1870-1962). Les officiers, le pouvoir et la vie publique en France, Parigi, Publications de la Sorbonne, 1999, p. 113.
  35. Patrick Bruneteaux, «Le désordre de la répression en France 1871-1921. Des conscrits aux gendarmes mobiles» , Genèses, n° 12, 1993, p. 32.
  36. Odile Roynette-Gland, «L’armée dans la bataille sociale: maintien de l’ordre et grèves ouvrières dans le Nord de la France (1871-1906)», Le Mouvement social, n° 179, 1997, p. 49.
  37. Robert Paxton, L’Armée de Vichyop. cit., p.31.
  38. Mattei Dogan. «Les officiers dans la carrière politique (du maréchal Mac-Mahon au général de Gaulle», Revue française de sociologie, vol. 2, n° 2, 1961, p. 118.
  39. P.-O. Lissagaray, Histoire de la Commune de 1871, Parisgi, Maspero, 1970 [1876], p. 362.
  40. Jacques Julliard, Clemenceau briseur de grèves. L’affaire de Draveil-Villeneuve-Saint-Georges (1908), Parigi, Julliard, «Archives», 1965.
  41. Général Voiriot, «Nota sulla difesa della regione parigina contro il nemico interno in tempo di guerra». Pétain è convinto che se i Tedeschi dovessero attaccare la Francia, «l’intesa è possibile nell’agglomerato parigino, tra tumulti e bombardamenti aerei». Citato in Georges Vidal, «L’armée française face au problème de la subversion communiste au début des années 1930», Guerres mondiales et conflits contemporains, n° 204, 2001.
  42. Jacques Szaluta, «Marshal Petain’s Ambassadorship to Spain: Conspiratorial or Providential Rise toward Power?», French Historical Studies, vol. 8, n° 4, 1974, p. 513.
  43. Robert Paxton, L’Armée de Vichy, op. cit., p. 486 (corsivo mio).
  44. M.-O. Baruch, Servir l’Etat français. L’administration en France de 1940 à 1944, Fayard, Parigi, p. 55.
  45. Robert Paxton, L’Armée de Vichy, op. cit., p. 26.
  46. Ibid., p.442.
  47. John Gallagher et Ronald Robinson, «The Imperialism of Free Trade», The Economic History Review, vol. 6, n° 1, 1953, p. 6.
  48. Citato in Lenin, L’imperialismo, fase suprema del capitalismo, cap. VI, https://www.marxists.org/italiano/lenin/1916/imperialismo/capitolo6.htm
  49. Citato in Catherine Coquery-Vidrovitch, «Colonisation ou impérialisme: la politique africaine de la France entre les deux guerres », Le Mouvement social, n° 107, 1979, p. 54.
  50. Citato in Raoul Girardet, «L’apothéose de la “plus grande France” : l’idée coloniale devant l’opinion française (1930-1935)», Revue française de science politique, n° 6, 1968, p. 1098-1099. Oggi vi è ancora traccia di tale convinzione nell’incredibile scivolamento presente nei discorsi dei politici, i quali passano dal paese della «dichiarazione dei diritti del’uomo» a quello «di diritti dell’uomo» tout court.
Link al testo francese Période

Testo tratto da Claude Serfatti, Le Militaire, edizioni Amsterdam (2017).
Fonte: Traduzioni Marxiste

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