La crisi è quel momento in cui il vecchio muore e il nuovo stenta a nascere. Antonio Gramsci

mercoledì 15 marzo 2017

Sui referendum promossi dalla Cgil

di Sergio Farris 
E' iniziata la campagna della CGIL relativa ai due referendum sul lavoro dichiarati ammissibili dalla Corte Costituzionale. Anche se il governo in carica (che ha fissato al 28 Maggio la data della consultazione popolare) potrebbe cercare di eludere la prova referendaria attraverso l'emanazione di norme specifiche sulle materie oggetto dei quesiti, il merito della campagna è quello di tornare a inserire nell'agenda del paese, dopo anni di generale indifferenza, questioni quali il modo con il quale è attualmente concepito il meccanismo di funzionamento del mercato del lavoro e quali l'effettiva garanzia di diritti fondamentali, come la retribuzione. I due quesiti, infatti, non si limitano alla correzione degli effetti di evidenti distorsioni né possono essere visti solamente come due, pur rilevanti, questioni di civiltà del lavoro.
Essi investono direttamente il concetto di frammentazione del lavoro, ovvero il principale obiettivo delle politiche pervicacemente perseguite negli ultimi anni, nonché il rilevante aspetto della condizione di soggezione nella quale il lavoro dipendente è ormai precipitato.
E' facile scorgere nelle suddette politiche, come detto lucidamente e in un drammatico crescendo perseguite, il risultato: la riduzione delle retribuzioni al fine di aumentare la competitività di impresa. L'ISTAT, nel suo rapporto del 3 marzo, dice che l’Italia è stata interessata negli ultimi quattro anni dalla “svalutazione interna”, vale a dire da un processo di deflazione salariale e diminuzione di prezzo dei beni e dei servizi. Il lavoro è stato volutamente sottoposto a un indebolimento di diritti e tutele per il supremo (o supposto tale) fine della redditività d'impresa.
E' impossibile che a tale processo non abbia contribuito lo sperticato e irresponsabile uso dei buoni lavoro del valore di 10 euro lordi per ora di prestazione, i cosiddetti “voucher” (nel 2016 ne sono stati venduti oltre 145 milioni), molto impiegati nei servizi ma impiegabili e, di fatto impiegati, praticamente in qualunque settore. 
Ragionamenti per certi versi analoghi si possono fare per quanto riguarda la possibilità, oggi prevista dalle norme introdotte nel 2012 (con la c.d. Legge Fornero), di escludere il coinvolgimento dei committenti privati di appalti nella responsabilità in ordine a questioni di carattere retributivo e previdenziale che possono interessare i lavoratori impiegati nelle commesse. In questo caso, infatti, oltre all'evenienza che i dipendenti dell'appaltatore (magari soggetti già deboli e con un inquadramento contrattuale e retributivo diverso rispetto a quello dell'impresa committente la quale abbia ceduto in appalto un servizio interno) vedano leso il proprio diritto relativo al trattamento economico e retributivo, allo stato attuale delle disposizioni normative essi si trovano dinanzi a un notevole aggravamento della procedura legale rivolta all'ottenimento delle spettanze da parte del soggetto coobbligato con il datore di lavoro diretto.
Il primo quesito referendario si prefigge l'abrogazione degli artt. 48, 49 e 50 del D.lgs 81/2015, ovvero la completa rimozione dall'ordinamento del sistema dei buoni lavoro. Dietro la facile e scadente retorica compendiabile nel motto “meglio quello che niente”, detto sistema non solo si è prestato all'occultamento di lavoro sommerso, ma ha ineluttabilmente finito per estremizzare la condizione di precariato e di incertezza previdenziale nella quale un'amplissima fascia di forza lavoro già si trovava. Di particolare gravità è anche il massivo ricorso alla procedura dei &voucher& da parte di imprese dalla dimensione anche medio-grande per finalità di sostituzione delle forme di ingaggio lavorativo maggiormente garantite e retribuite. Il sistema dei buoni lavoro, ricordiamo, non provvede ad alcun diritto “tipico” del lavoro tutelato (ferie, malattia, maternità, trattamento di disoccupazione).
Il secondo quesito si prefigge l'abrogazione di parte dell'art. 29, comma 2, del d.lgs. 276/2003 (c.d. Legge Biagi). Da tale intervento ablativo risulterebbe potenziato il vincolo di “responsabilità solidale” fra il committente e l'appaltatore, consentendo la riespansione del diritto soggettivo, in capo al lavoratore, di esercitare sul primo soggetto la rivalsa per l'ottenimento dei propri emolumenti. In particolare, si mira in primo luogo all'abolizione delle deroghe, consentite a livello di contrattazione nazionale di categoria, tese ad evitare la &responsabilità solidale& delle imprese che si avvalgono di appalti per sostituirla con poco incisive procedure, mancanti delle garanzie previste per i lavoratori dall'istituto tradizionale. E, in secondo luogo, si mira al sormontamento dei notevoli ostacoli che la legge vigente pone alla possibilità, per il “soggetto debole lavoratore” impiegato in un appalto, di esperire l'azione legale nei confronti del soggetto più solvibile (più dotato dal lato economico e patrimoniale). Oggi, infatti, il committente può essere chiamato in causa dal lavoratore solo dopo il preventivo tentativo di escussione del dovuto versus l'impresa appaltatrice.
Per la prima volta dopo molti anni, insomma, si pone all'attenzione pubblica il tema dei “rapporti di forza” fra imprese e lavoratori. E si prospetta, forse, se il paese dovesse rispondere con la necessaria coscienza critica, la possibilità dell'inizio di una inversione di tendenza rispetto all'andamento dei rapporti che ha informato le relazioni industriali negli ultimi 20 anni. Sotto questo punto di vista i referendum sul lavoro rappresentano anche, e soprattutto, una questione di democrazia.

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