La crisi è quel momento in cui il vecchio muore e il nuovo stenta a nascere. Antonio Gramsci

giovedì 16 marzo 2017

Il renzismo sotto accusa è il "chilometro zero" del potere

di Miguel Gotor 
Al Senato ho chiesto, a nome di Articolo 1 - Movimento democratico e progressista, che il Ministro dello sport con delega al Cipe, Luca Lotti, si dimetta dal suo incarico. Penso anche che nel caso in cui egli decidesse di rimanere, il presidente del Consiglio Gentiloni dovrebbe valutare la sospensione delle sue deleghe fino al chiarimento della vicenda che lo vede coinvolto. In particolare l'importante delega al Cipe, rischia di diventare di particolare imbarazzo nella situazione data, perché riguarda la programmazione economica nazionale e il coordinamento dell'attività della pubblica amministrazione e degli enti pubblici, dal momento che la Consip è la centrale pubblica degli acquisti proprio della pubblica amministrazione.
Faccio appello alla sensibilità politica del Ministro dello sport e lo invito ad avere un comportamento sportivo, che significa fare gioco di squadra e tutelare l'immagine dell'esecutivo che, come «Mdp», sosteniamo. Il governo, infatti, deve potere operare al riparo da sospetti su comportamenti non irreprensibili - sul piano politico - dei suoi componenti per potere portare avanti i suoi impegnativi obiettivi.
Vorrei prima di tutto sgombrare il campo da un argomento del tutto fuorviante agitato in questi giorni: il ministro Lotti è indagato per un reato grave per un ministro, ossia favoreggiamento e rivelazione di segreto istruttorio, ma è doveroso attenersi a un rigoroso atteggiamento di civile garantismo, fondato sulla presunzione d'innocenza fino a prova contraria e sino al terzo grado di giudizio.
Mi auguro che Lotti possa dimostrare in sede penale la sua estraneità alla grave accusa e che la sua posizione possa essere archiviata senza che neppure scatti il rinvio a giudizio.
Ma la questione - a nostro parere - riguarda l'opportunità tutta politica che Lotti rimanga nel suo incarico. Infatti, non è necessario attendere che la giustizia faccia il suo corso per rendersi conto di come, nella vicenda Consip, la commistione tra affari e politica abbia dato luogo a un intreccio dannoso per l'autorevolezza e la rispettabilità delle istituzioni.
La questione Consip pone almeno tre problemi. In primo luogo c'è un problema di coerenza. Sarebbe opportuno che la politica, in piena autonomia, si autoregolamentasse elevando l'asticella del rigore dei comportamenti nella gestione della cosa pubblica. La politica deve arrivare prima dell'azione penale, altrimenti è già sconfitta. E deve dotarsi di standard di condotta omogenei per non ingenerare il sospetto di una doppia morale e di un garantismo a intermittenza, che trasformano quel principio di civiltà in una mera condotta opportunistica, da rivendicarsi soltanto quando sono coinvolti i propri amici potenti o i compagni di partito.
Costatiamo che il Pd, nella stagione renziana, ama praticare una doppia morale e un garantismo «alla carta»: soltanto negli ultimi tre anni tre ministri (De Girolamo, Lupi, Guidi) sono stati costretti alle dimissioni seppure, diversamente da Lotti, non erano neppure indagati.
Bene, occorre osservare che Renzi è stato in prima fila nel richiederle per ragioni di stile e di opportunità che oggi si rivelano in tutta la loro ipocrisia. Per non parlare del caso di Josefa Idem, anch'essa ministro dello sport, che ebbe un comportamento «olimpionico» ben diverso da quello di Lotti e alla quale va tutta la mia solidarietà; o per non parlare della vicenda Cancellieri, con le dichiarazioni di Renzi di allora che lisciavano il pelo al giustizialismo più deteriore: «L'idea che ci siamo fatti dell'intera vicenda Cancellieri/Ligresti - disse - è che la legge non sia uguale per tutti e che se conosci qualcuno di importante te la cavi meglio. È la Repubblica degli amici degli amici». Ecco, appunto.
A questo proposito veniamo al secondo aspetto. La vicenda Consip - lo ripeto, a prescindere dal suo eventuale rilievo penale - mette in luce comportamenti clientelari riconducibili alla categoria del «familismo amorale», elaborata dal sociologo Edwuard Banfield a metà Novecento. Tali condotte disvelano come questioni di interesse pubblico siano state affrontate grazie a un ruolo preminente dei rapporti di origine famigliare, personale, privatistica e amicale basati su legami di solidarietà predominanti sugli interessi della collettività e sui principi della libera concorrenza e della meritocrazia.
Purtroppo non si tratta di un caso isolato, ma di una condotta più generale di questi anni, uno stile e una gestione del potere riassumibile nella formula «troppo potere in poco spazio», una sorta di rapace «chilometro zero» della politica. Come autorevolmente sostenuto in un editoriale da Ezio Mauro sulle pagine di «Repubblica», ci troviamo davanti a un sorta di «groviglio del potere cresciuto intorno a Renzi che lo ha coltivato o tollerato nell'illusione di proteggersi, fino a restarne imprigionato».
La gestione del potere pubblico, infatti, non può avvenire mediante la nomina di soggetti di provata fedeltà personale o di una determinata provenienza geografica - in questo caso toscana - a discapito di una verifica delle loro intrinseche qualità professionali. Tale comportamento rischia di alimentare l'affermazione e il favoreggiamento di interessi privati e domestici in cui la famiglia, la fazione, la consorteria si sovrappongono allo Stato fino a confondersi con esso a detrimento della necessaria autorevolezza che deve accompagnare l'esercizio della funzione pubblica.
Infine, emerge il nodo forse più delicato che riguarda il finanziamento della politica e l'indebito intreccio che viene a crearsi tra quanti hanno continuato ad avere rapporti di lavoro con la Consip o sono risultati vincitori di appalti pubblici e, contemporaneamente, come soggetti privati, hanno continuato a finanziare la fondazione legata a Renzi o, addirittura, a presiederla. È questo il caso, ad esempio, dell'avvocato Alberto Bianchi, a proposito del quale, il giornalista Antonio Polito, sulle pagine del «Corriere della sera», ha condivisibilmente commentato che, in qualità di presidente della fondazione di Renzi, avrebbe dovuto porre fine ai suoi rapporti di lavoro con la Consip (ha ricevuto consulenze legali per quasi trecento mila euro in quattro anni) che assegna appalti pubblici, per evitare di esporsi al sospetto di non essere neutrale nei riguardi di quanti gli hanno versato i contributi. O peggio aggravare il rischio che qualche imprenditore, possa chiedere, in cambio dei soldi versati alla fondazione, qualche favore, magari all'amministratore delegato della Consip, il toscano Luigi Marroni che proprio da Renzi, su base fiduciaria, era stato nominato a quel ruolo e che ha ammesso in un interrogatorio di aver subito pressioni e ricatti da parte del padre dell'ex premier Tiziano Renzi, da Denis Verdini e da parlamentari a lui legati che consentono - per alcuni solo ora - di spiegare pratiche parlamentari trasformistiche dispiegate in questi anni dal governo Renzi - non giustificate politicamente dai numeri parlamentari - che noi abbiamo sempre denunciato.
In questi anni sono usciti libri coraggiosi, penso a quello del giornalista del «Fatto quotidiano» Davide Vecchi, che raccontavano di un eccesso di prossimità e di chiusura del «giglio magico» renziano. Ad esempio, segnalavano giochetti troppo furbi riguardanti finanziamenti privati alle fondazioni legate a Renzi che poi hanno trovato «a posteriori» corrispondenze con prebende pubbliche e ruoli istituzionali assegnati dal premier all'interno di un giro tosco-fiorentino, in cui più che un'idea di Paese c'era una pratica da «strapaese»: una sorta di «Amici miei» in salsa governativa.
Non voglio risultare troppo astratto e quindi mi riferisco, senza ovviamente permettermi di esprimere un giudizio sulla loro professionalità, al fiorentino Marco Seracini, commercialista delle fondazioni renziane, che è stato nominato sindaco effettivo di Eni; al senese Fabrizio Landi, tra i finanziatori della fondazione Open, nominato nel cda di Finmeccanica; al pistoiese Federico Lovadina nominato nel cda delle Ferrovie, al suo compagno di Liceo - signor Ministro - l'avvocato Marco Pucci, retribuito da Palazzo Chigi come esperto di anniversari. Ed è solo per citare alcuni casi.
Tali denunce sono state ignorate o quasi, negli anni del rampantismo renziano ma restano e devono indurre a riflettere anche su un eccesso delle classi dirigenti italiane (non solo la politica!) a concedersi - un vizio antico e ricorrente - a questo tipo di modello di potere stretto e corto e dunque meglio condizionabile. Sono certo che ciò riveli un'arretratezza del capitalismo italiano, una sua propensione alla strozzatura e al provincialismo che mostra deficit di modernità e di effettivo spirito di competitività che bisogna cambiare con slancio riformatore.
Per tutte queste ragioni ho chiesto a nome del Movimento democratico e progressista al presidente Gentiloni di ritirare le deleghe al ministro Lotti. Se questo non avverrà, come temo, avremo la conferma che in Italia il dibattito tra politica e giustizia non riguarda il nobile tema del garantismo, ma solo i rapporti di forza: con i nostri amici o con i potenti siamo indulgenti, con i deboli, con i poveracci o con i nostri avversari rigoristi. Questo è uno dei lasciti peggiori del «berlusconismo» che ha attecchito anche in una parte del nostro campo, dove invece la «questione morale» era una stella polare che si è progressivamente offuscata. Infatti la dicotomia tra garantismo e giustizialismo ha costituito da sempre la trappola del berlusconismo trionfante degli anni Novanta/Duemila, una trappola nella quale non da oggi ci siamo cascati anche noi. Eppure nel diritto italiano esistono le garanzie e la giustizia, ma non il garantismo e il giustizialismo l'uno contro l'antro armati in una guerra senza senso.
In questo modo il messaggio «manzoniano» che arriva ai cittadini - quello di una giustizia ingiusta debole con i forti e forte con i deboli - è estremamente negativo sul piano civile e induce ad aumentare il distacco tra questi e le istituzioni.
Insomma, non lo ordina il medico di fare il ministro. Un politico che svolge funzioni esecutive sa che la credibilità è tutto, perché esiste un «capitale sociale» - cioè la fiducia diffusa e collettiva - che i membri di una comunità nutrono l'uno verso gli altri e che si basa sulla valutazione di comportamenti pubblici. Perciò un ministro, più di un altro cittadino, deve essere al di sopra di ogni sospetto e non può continuare a esercitare la sua funzione da indagato. Le istituzioni si servono e non ce ne si serve per proteggersi meglio. La morale della favola è tutta qui.

Fonte: Huffington Post - blog dell'Autore 

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