La crisi è quel momento in cui il vecchio muore e il nuovo stenta a nascere. Antonio Gramsci

sabato 27 maggio 2017

Com'è borghese, questa rivoluzione... Intervista a Alexander Anievas

Intervista a Alexander Anievas di George Souvlis 
Nel tuo studio Capital, the State, and War si concettualizza l’epoca tra le due guerre come l’epoca di una crisi multidimensionale. Vorresti dirci qualcosa di più su questo tema?
Quello che intendevo dire, definendo tutta l’epoca delle due guerre mondiali come quella di una ‘crisi multidimensionale’ era che le caratteristiche fondamentali della politica internazionale dell’epoca, vista nella sua totalità, erano costituite da tre assi conflittuali, distinti ma che si intersecano: (1) un asse ‘verticale’ rappresentato dai conflitti di classe tra capitale e lavoro; (2) un asse ‘orizzontale’ che cattura i rapporti di competizione e rivalità tra i ‘molti capitali’; e, (3) un asse ‘laterale’ costituito dalle rivalità geopolitiche e militari tra Stati all’interno del Nord Globale e dalle varie relazioni di dominazione e di sfruttamento del Nord Globale sul Sud Globale.
Da questo punto di vista, il libro ha lo scopo di offrire una reinterpretazione storica e sociologica delle origini, della natura e della dinamica dell’epoca delle due guerre mondiali nei termini del concetto gramsciano di “crisi organica”: vale a dire, la combinazione di una crisi strutturale e congiunturale dell’egemonia capitalista che, contemporaneamente, assume forme socio-economiche (‘materiali’) e ideologico-politiche (‘ideative’), articolate lungo linee nazionali, internazionali e transnazionali – queste ultime vissute durante gli anni tra le due guerre sotto forma di una ‘guerra di classe’ condotta sia dall’alto che dal basso e che attraversa gli stati nazionali che compongono il sistema internazionale. Come ho sostenuto nel libro, questa guerra fredda avanti lettera, propria del periodo tra le due guerre, ha posto in sostanza le condizioni geopolitiche e ideologiche che conducono direttamente alla seconda guerra mondiale.
La categoria analitica marxiana di “Rivoluzione Borghese” è tornata di moda alla luce di nuovi studi come quello di Neil Davidson, How Revolutionary Were the Bourgeois Revolutions? Questo concetto ha ancora qualcosa da offrire agli storici? Quali sono i suoi principali limiti e in quale modo possiamo spingere la ricerca storica a compiere passi ulteriori?
Sì, io credo che la categoria della “Rivoluzione Borghese” sia ancora un concetto importante per comprendere la nascita e il consolidamento degli stati capitalisti. E, naturalmente, il lavoro di Neil Davidson è stato fondamentale per il recupero di questo concetto in ambito marxista, contro l’attacco sferrato dal revisionismo storiografico negli ultimi decenni. 
Come il concetto ‘consequenzialista’ delle rivoluzioni borghesi adoperato da Davidson dimostra, una volta che si riorienta l’analisi storica staccandola dalle intenzioni particolari o dalla composizione specifica degli agenti rivoluzionari coinvolti, e spostandola invece sugli effetti di tali rivoluzioni rispetto al sorgere e consolidarsi di veri e propri stati capitalisti (concepiti come siti più o meno sovrani di accumulazione del capitale), allora il concetto risulta davvero inestimabile. Questo, poi, sposta il peso definitorio del concetto di Rivoluzione Borghese dalla classe che fa la rivoluzione agli effetti che una rivoluzione ha nel promuovere e/o consolidare una forma capitalistica di Stato che a sua volta andrà a beneficio della classe capitalista, indipendentemente dal ruolo che quest’ultima possa svolgere entro tale rivoluzione.
Il limite principale di Davidson e di altre interpretazioni ‘consequenzialiste’ del concetto, però, è stata la loro tendenza a enfatizzare eccessivamente – nell’esame delle disparate tipologie di rivoluzione nel periodo moderno – la loro ‘identità di sviluppo’ a scapito della ‘differenza di sviluppo’. In altre parole, nel concettualizzare adesso le rivoluzioni rispetto ai loro effetti socio-politici, si è caduti in una problematica omogeneizzazione di quasi tutte le rivoluzioni dell’epoca moderna, viste come essenzialmente capitaliste, dacché tali rivoluzioni incorporano, entro le strutture sociali cui mettono capo, determinati elementi del capitalismo. Da questo punto di vista, gli esiti evolutivi molto diversi delle rivoluzioni – per fare qualche esempio – in Vietnam del Nord (1945), Cina (1949), e Cuba (1959), sono tutti concepiti come varianti più o meno simili di “capitalismo di stato burocratico”, prodotto delle “rivoluzioni permanenti deviate”[1]: la “versione moderna o equivalente funzionale” delle rivoluzioni borghesi, come Davidson ha sostenuto. Sebbene io ritenga corretto sostenere che tali regimi nel corso del tempo abbiano sempre più assimilato caratteristiche significative del capitalismo, concepire invece dette rivoluzioni semplicemente come ‘borghesi’ mi pare un voler sforzare oltremodo il concetto [cliffiano], fino a renderlo inservibile.
Gli USA sono ancora l’indiscusso potere egemone globale o, come molti commentatori suggeriscono, sono entrati in un processo di declino? Vedi qualche altra superpotenza in grado di contrastare seriamente l’egemonia americana? Ha senso parlare di ‘imperialismo americano’? In che misura esso si differenzia oggi dalle sue precedenti forme? La governance di Obama rappresenta a riguardo un’eccezione rispetto ai governi precedenti, o ne è la semplice ripetizione?
Credo che abbiamo certamente visto i segni del relativo declino del potere USA, nel corso degli ultimi due decenni. Per me, i due eventi simbolo, in questo senso, sono stati l’incapacità o la mancanza di volontà di proiettare la potenza militare americana all’estero durante il conflitto tra la Russia e la Georgia nell’estate del 2008 e, in economia, la Grande Recessione del 2007-2009, dalla quale gli Stati Uniti (e il mondo) non sono ancora usciti davvero. E certamente l’incapacità delle classi dirigenti dello stato di proiettare in maniera adeguata la potenza militare americana in tutto il mondo ha molto a che vedere con le conseguenze geopolitiche ed economiche a lungo termine delle guerre fallimentari in Afghanistan e Iraq. Quindi, sì, il potere e l’egemonia degli Stati Uniti nel corso degli ultimi due decenni hanno conosciuto un relativo declino, ma che tale traiettoria prosegua è questione molto più aperta. Potremmo in effetti trovarci in un momento di transizione da un ordine geopolitico egemonico a uno non egemonico. Tuttavia, a differenza di altri commentatori, al momento (o nel medio termine) non vedo nessun altro stato in possesso della forza militare, economica e ideologica – tutt’e tre necessarie per la ricostituzione di un nuova potenza egemone a livello internazionale – che potrebbe permettergli di sfidare gli Stati Uniti a livello di potenza mondiale dominante. Uno scenario plausibile che potrebbe emergere è quello di un ordine geopolitico più decentrato, costituito da varie ‘grandi potenze’ regionali o forse anche egemoni in differenti parti del mondo. All’interno di un tale ordine potenziale, attori del calibro di Cina, India, Russia e, forse, Brasile e Iran potrebbero svolgere un ruolo, come probabilmente continueranno a svolgerlo gli Stati Uniti, anche se in una forma più zoppicante, nei confronti dell’Europa. Ma è anche plausibile che venga fuori uno scenario molto diverso, più simile a quello seguito alla guerra del Vietnam, dove il potere degli Stati Uniti ha attraversato un periodo di relativo declino, dopo il quale si è più o meno riconsolidato nel corso degli anni Ottanta e Novanta. Credo che lo scenario di un ordine geopolitico più decentrato sia leggermente più probabile, anche se ho seri dubbi sul fatto che attori del calibro di Cina e India possano essere in grado di sostenere qualcosa che si approssimi ai tassi di crescita che abbiamo visto negli ultimi 20 anni: anzi, nel caso della Cina, essa sembra già non più in grado di farlo.
In merito alla questione se abbia senso parlare di imperialismo per gli Stati Uniti, la risposta è un enfatico ‘sì’. Con il pretesto dell’‘Intervento Umanitario’ o con quello della ‘Guerra Globale al Terrore’, l’impostazione predefinita della politica estera USA è l’interventismo militare ed economico in tutto il mondo. A livello più generale, l’obiettivo principale della strategia di politica estera degli Stati Uniti più o meno dall’inizio del 20° secolo è stato quello di facilitare l’accumulazione incessante del capitale, sostenuta attraverso un sistema economico mondiale ‘aperto’, in continua espansione. Questo è ciò che il famoso storico americano William Appleman Williams ha definito il sistema “Open Door”. E, contrariamente a quanto dicono i suoi critici ‘realisti’ e i suoi sostenitori liberal, questa grande strategia dell’imperialismo statunitense ha sempre comportato un mix a volte problematico ma sempre ‘persuasivo’ di tattiche unilaterali e multilaterali, a prescindere dalla struttura ideologica o dalla appartenenza di partito delle singole amministrazioni. In breve: ‘multilateralismo se possibile, unilateralismo se necessario’.
Niente di tutto questo è cambiato con l’amministrazione Obama. Le continuità della grande strategia americana sotto Obama rispetto alle passate amministrazioni superano di gran lunga le eventuali differenze. Mentre, per esempio, si possono additare alcune piccole differenze nelle tattiche di politica estera tra le tre amministrazioni degli Stati Uniti del dopo-Guerra Fredda, in effetti colpisce la forte continuità di obiettivi strategici (per uno studio recente molto buono su questo tema, si veda American Grand Strategy and Elite Corporate Networks di Bastiaan Van Apeldoorn e Nana de Graaff ). E anche queste differenze tattiche vengono spesso esagerate.
Sotto l’amministrazione Obama, la ‘guerra al terrore’ del duo Bush/Cheney non solo è continuata, ma si è ampliata, mentre gli argomenti giuridici spuri fatti propri dai predecessori di Obama per legittimare la ‘guerra al terrorismo’ (e, in particolare, la guerra in Iraq) sono stati adottati su larga scala dall’amministrazione Obama e, in certi casi, ulteriormente codificati nel diritto internazionale. Allo stesso modo, Obama ha utilizzato un mix variabile di tattiche unilaterali e multilaterali (come s’è visto durante l’intervento in Libia), con le prime che sono diventate ancora più importanti durante il suo secondo mandato (per una precedente analisi di alcuni di questi sviluppi, vedi Alexander Anievas, Adam Fabry e Robert Knox, Back to Normality? US Foreign Policy under Obama, 2012). Così, mentre Obama può anche essere riuscito a cambiare momentaneamente la “musica d’atmosfera diplomatica” (secondo la felice espressione di Tariq Ali) rispetto alle scomode verità relative allo sfrenato imperialismo degli Stati Uniti pronunciate dagli spavaldi cowboys dell’amministrazione Bush, egli ha fatto molto poco – se ha poi fatto alcunché – per modificare il carattere o gli obiettivi fondamentali della politica estera USA.
Vedi qualche barlume di speranza nella candidatura di Bernie Sanders, ai fini di una rinascita della sinistra americana?
Sì, forse…ma in realtà dipende da ciò che accadrà al movimento che si era coalizzato attorno alla candidatura per la presidenza di Sanders. Credo che il vero significato a lungo termine della campagna Sanders per il potenziale di rinnovamento della sinistra negli Stati Uniti non sia necessariamente legato alle elezioni; sebbene, chiaramente, ciò possa anche essere importante in sé e per sé. Bisognerà vedere, piuttosto, se la sua campagna potrà agire come un ulteriore catalizzatore per l’espansione più ampia dell’organizzazione di base, dal basso, che ha giocato un ruolo tanto importante nella sua campagna; e, inoltre, se ciò avverrà in modo più autosufficiente rispetto a tanti movimenti di sinistra del passato e – cosa ancora più importante – muovendosi al di là della politica elettoralistica. Voglio dire che qualsiasi sobria analisi critica delle posizioni politiche effettive di Sanders mostra chiaramente che egli è in realtà soltanto un democratico del New Deal, vecchia scuola. In effetti, nel contesto politico degli anni Cinquanta e Sessanta sarebbe stato considerato un democratico moderato. Ma in seguito al rimodellamento del Partito Democratico intrapreso dai Nuovi Democratici Clintoniani degli anni Novanta, egli è visto ora come un radicale: cosa che lui – a differenza di molti altri dell’ala ‘progressista’ del Partito Democratico – tutto sommato accoglie con favore, descrivendosi come un ‘socialista democratico’ (vale a dire un socialdemocratico stile scandinavo).
Così, mentre le sue posizioni politiche sono sicuramente migliori e più a sinistra di una Hilary Clinton o della maggior parte dei Nuovi Democratici di centro-destra, la vera speranza rispetto al progetto di rivitalizzare la sinistra americana – e, in particolare una politica comunista con la ‘c’ minuscola[2], o socialista – sono i possibili effetti a lungo termine che potrebbe avere in termini di ampliamento e di consolidamento di una politica di base, dal basso, che operi dentro e fuori l’attività elettorale spostando al contempo il dibattito politico il più possibile a sinistra. Penso che la campagna Sanders abbia più o meno raggiunto il secondoeffetto; resta da vedere se sarà possibile raggiungere il primo. Un segno promettente potrebbe essere che Sanders abbia sostenuto la necessità di continuare a costruire un movimento popolare dal basso con l’obiettivo di fare pressione su chiunque possa essere il prossimo presidente [l’intervista si è svolta prima delle elezioni dello scorso novembre, NdR]. Penso si tratti di un fatto importante, che distingue la campagna di Sanders dalle precedenti campagne presidenziali di populisti di sinistra come Howard Dean nel 2004 o Dennis Kucinich nel 2004 e nel 2008. Ma se invece Sanders si guarda intorno e dice: “Ehi, è stato bellissimo, ma ho perso, perciò adesso tutti a fare campagna elettorale per la Clinton”, punto e basta, probabilmente si spreca una grande opportunità per la ricostruzione della sinistra degli Stati Uniti.

Note 
1. Quello di ‘Rivoluzione Permanente Deviata’ è uno dei concetti attraverso i quali il marxista ebreo palestinese Tony Cliff (1917-2000) prese congedo dal pensiero troskista. Secondo Cliff, lì dove il proletariato non è in grado di prendere il potere, una parte radicalizzata dell’intellighenzia può essere in grado di condurre vittoriosamente una Rivoluzione Borghese. In tali circostanze, l’eventuale utilizzo del pensiero marxista da parte della nuova leadership nazionale sarà di tipo prettamente ideologico, volto a legittimare la realtà del capitalismo di stato [NdR].
2. Nel discorso politico anglo-americano, per “Comunismo con la ‘C’ maiuscola” si intende spesso lo ‘stalinismo’, nonché le forme successive di ‘carrismo’ o ‘kabulismo’ [NdR].


Traduzione di Giovanni Di Benedetto
Fonte: palermo-grad.com

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