La crisi è quel momento in cui il vecchio muore e il nuovo stenta a nascere. Antonio Gramsci

giovedì 25 maggio 2017

Smettiamola di parlare dei migranti come fossero numeri e trattiamoli come persone

di Alessandro Dal Lago
Non ombre e nemmeno fantasmi. I migranti semplicemente non esistono. Nella recente polemica sulle Ong, che sarebbero in combutta con i “trafficanti di uomini” per “destabilizzare l’Italia” (così ha esternato il procuratore di Catania Zuccaro), non una sola voce di quelli che “vogliono la verità” ha ricordato che al centro della questione ci sono esseri umani: persone che rischiano la vita per arrivare in Italia ed Europa, e che la perdono in una misura altissima. Dei quasi 5000 morti del 2016, 3600 sono annegati nel Mediterraneo, tra Libia e Sicilia.
Ma la cifra non tiene conto dei morti nei viaggi interminabili (in media 15 mesi) che portano i migranti dall’Africa subsahariana (Senegal, Nigeria, Gambia, Liberia ecc.) e dal Corno d’Africa (Eritrea e Somalia) sino in Libia.
Morti per aggressioni, rapine, sete, fame o disidratazione. Morti di cui non si sa nulla, se non dalle sparse testimonianze di chi ce l’ha fatta. Ma anche persone torturate, vessate, imprigionate e spogliate di tutto dalle bande che scorrazzano nel deserto tra Niger, Mali, Sudan e soprattutto Libia.

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Né Grillo, né Salvini, né Di Maio, né Zuccaro hanno detto una parola su questi esseri umani. E tantomeno i burocrati-doganieri-poliziotti di Frontex, l’agenzia europea che ha come scopo precipuo o “mission” (parola chiave dell’orribile anglo-burocratese dominante) quello di tenere alla larga gli stranieri africani dalle nostre frontiere (dai “sacri confini della patria”, come disse Grillo nel 2006). Due anni fa, all’epoca di Mare Nostrum, l’operazione lanciata dall’Italia per impedire annegamenti in massa, un burocrate di Frontex criticò aspramente il governo italiano perché “ne salvava troppi”, così da non dissuadere i loro fratelli africani dal mettersi in marcia. Più o meno le stesse accuse sollevate oggi contro le Ong. Il burocrate in questione era un ex-commissario di polizia bavarese. È a gente simile che l’Europa affida la soluzione delle crisi migratorie.

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L’esistenza di Frontex è la prova dell’ottusità e della miopia europee in tema di migrazioni. Non esistendo una visione d’assieme e tantomeno una strategia comune, si cerca di risolvere la questione con i pattugliamenti e misure di rimpatrio, ovviamente fallimentari, viste le dimensioni del fenomeno. Frontex è in sostanza una super-polizia doganale che coordina i controlli delle frontiere, terrestri e marittime, e lancia iniziative surreali come “biometrics on the move”, il cui scopo è costruire un database universale utile per accertare l’identità dei migranti. I documenti elaborati dall’Agenzia sono una dimostrazione della vacuità del pensiero europeo: scritti in un inglese di servizio, burocratico e monotono, pullulano di statistiche e tabelle su respingimenti, tentativi di ingresso fraudolenti e così via, ma non vi si troverà una sola parola sulle “ragioni” dei migranti e sui motivi delle loro partenze. D’altra parte, perché Frontex dovrebbe occuparsene? Non spetta a poliziotti e doganieri studiare le cause delle migrazioni.
In questo modo, tuttavia, si crea un’immagine distorta e caricaturale del problema. Sembrerebbe che sia esclusiva responsabilità degli smugglers, i “trafficanti” di uomini. Ma nessuno osserva mai, tra i pensosi burocrati di Bruxelles e Varsavia (dove ha sede Frontex), che i servizi vengono offerti o imposti là dove c’è una domanda. Questo è esattamente il cuore del problema. La domanda scaturisce da una molteplicità di cause: la fuga dalla guerra o dal servizio militare obbligatorio, la pura e semplice fame, la mancanza di prospettive, i ricongiungimenti famigliari, la ricerca di migliori condizioni di vita e, perché no, l’avventura, l’inquietudine.

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Si tratta di motivazioni universali, del tutto simili a quelle di chi da sempre cerca di emigrare. E anche di chi, semplicemente, vuole vivere meglio. Le loro motivazioni non sono diverse dalle nostre. Con la differenza che, per dire, il Pil pro capite dell’Olanda tocca i 50.000 euro annui mentre quello del Gambia 1.600 (e in Liberia non arriva a 900). Le origini delle catene migratorie, i fattori “push”, vanno cercate in questa discrepanza globale di cui chiunque nel mondo, nell’epoca dei telefoni cellulari, è dolorosamente consapevole. I futuri migranti sanno benissimo che cos’è l’Europa, come ci si vive, e che rischi si corrono per raggiungerla. Ma è tipico dell’Europa disinteressarsi di questa realtà, per concentrarsi ossessivamente sui fattori “pull”, cioè sul ruolo dei trafficanti - che pure esistono, ma si limitano a trarre profitto da una domanda reale. Nasce in questa straordinaria miopia (e ovviamente da sordide strumentalizzazioni politiche) anche la polemica contro le Ong.

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Data la complessità della domanda, una soluzione univoca è impossibile. Dall’Africa subsahariana e dall’Eritrea, dalla Siria, dal Pakistan o dal Bangladesh, esseri umani continueranno a mettersi in marcia verso di noi. E non è pensabile, né augurabile che l’Europa vada a intromettersi ulteriormente negli affari di quei paesi, che hanno già conosciuto il colonialismo, l’imperialismo e le sciagurate guerre occidentali. Nemmeno per aiutarli “a casa loro”, come recita l’ipocrita slogan neo-coloniale di Salvini. Ma un primo passo potrebbe essere il tentativo di descrivere le cose come stanno, di smetterla con la falsificazione della realtà o con l’appalto a burocrati irresponsabili del controllo poliziesco delle frontiere. Certo, il populismo monta, come la xenofobia, ma c’è mai stato un serio tentativo europeo complessivo di contrastarlo con un’accoglienza decente, misure reali di integrazione e di inserimento sociale?
Se questa strada non verrà imboccata, e si terrà conto solo di Grillo, Salvini, Le Pen e Orbán, il Mediterraneo continuerà a richiudersi sugli annegati. Bisogna essere ciechi e sordi per non comprendere che le migrazioni sono divenute ormai un gigantesco problema umanitario. Di fronte al quale, ognuno di noi non potrà che rispondere alla propria coscienza, sempre che ce l’abbia...

Fonte: espresso.repubblica.it 

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