La crisi è quel momento in cui il vecchio muore e il nuovo stenta a nascere. Antonio Gramsci

sabato 27 maggio 2017

Pubblica insicurezza e dominio della sragione

di Mauro Barberis 
“our common assumption is that the acts of Homo sapiens are basically rational […] on the contrary, mistakes are so common that rationality is probably the exception”.
M. Edelman, The Politics of Disinformation
[...] I risultati dei bilanciamenti libertà-sicurezza operati da governi, parlamenti e giudici sono spesso irrazionali. Nei prossimi paragrafi si mostrerà l’irrazionalità di tesi molto diffuse in tema di legittima difesa, tortura e costituzione d’emergenza: forse i tre casi principali in cui la libertà tende a essere sacrificata alla sicurezza.
A questo punto, però, occorre anche chiedersi se misure così palesemente irrazionali non rispondano a ragioni diverse da quelle invocate da parlamenti e governi: ragioni non solo strumentali, quali aumentare il consenso politico, ma anche espressive o simboliche [1].
Il tema della sicurezza, così, diviene emblematico dei tanti problemi che anche i sistemi giuspolitici maggiormente avanzati non riescono più a gestire: inquinamento, speculazione finanziaria, flussi migratori… di fronte a problemi così, evidentemente, la tentazione di ricorrere a misure simboliche – Guantanamo, muri antimigranti, riforme costituzionali non necessarie… – diviene troppo forte. [...]
5.1.        Stupidario securitario
Il razionalismo migliore non s’accontenta di denunciare l’irrazionalità o sragione (unreason)[2], ma si sforza di indagare i limiti della ragione [3]. Qui di seguito elenco tre fallacie tipiche della retorica securitaria [4]: uno stupidario, dunque, ma meno stupido di quanto sembri. intanto, è anche una scatola di trucchi utilizzabile da chiunque detenga il potere. Ma poi, e soprattutto, si potrebbero spiegare le tre fallacie in questione con meccanismi simbolici vecchi come il mondo: capro espiatorio, stigmatizzazione, sacrificio [5]…
5.1.1.
La prima fallacia è relativa alla stessa sicurezza: si potrebbe chiamarla fallacia dell’ambiguità collettivo-individuale. una cosa è la probabilità che un paese subisca attacchi terroristici: la sicurezza collettiva. Altra cosa è la probabilità che un singolo cittadino sia personalmente colpito da tali attacchi: la sicurezza individuale. scambiare le due cose produce non solo l’isteria securitaria sfruttata dai governi, ma anche conseguenze palesemente irrazionali.
Per fare un solo esempio, nelle settimane dopo l’undici settembre si chiese a cittadini statunitensi quante probabilità avessero di essere personalmente coinvolti in un attentato simile nell’anno in corso. la risposta media si attestò attorno al 20 per cento: tante sarebbero state le probabilità di essere colpiti personalmente. Peccato che la risposta sarebbe ragionevole solo se potessero darsi attentati della stessa portata delle Torri gemelle almeno una volta al giorno per un anno [6].
Sempre dopo l’undici settembre circa un milione e mezzo di persone decisero di andare in vacanza in auto invece che in aereo. Ma guidare l’auto è sessantacinque volte più pericoloso che prendere l’aereo: sicché si produsse un migliaio di incidenti stradali in più [7]. Eppure, esponenti dell’amministrazione Bush hanno talora sostenuto la dottrina dell’uno per cento: anche l’uno per cento di probabilità di subire attacchi nucleari giustificherebbe la guerra preventiva [8].
Tutte queste scelte a favore della sicurezza sono palesemente irrazionali. Ognuno dei milioni di morti provocati dall’invasione dell’Iraq, specie fra i civili iracheni, è stato sacrificato con il pretesto di evitare rischi collettivi maggiori, ma del tutto aleatori. I decisori pubblici, qui, si sono comportati con la stessa irrazionalità di quanti hanno preso l’auto invece dell’aereo dopo l’undici settembre. Con l’aggravante di aver sacrificato consapevolmente milioni di vite umane.
5.1.2.
La seconda fallacia consiste nell’assunzione che le misure securitarie non diminuiscano le nostre libertà ma solo quelle dei potenziali terroristi. di questa fallacia esiste anche una versione empirica, per la quale la guerra avrebbe influenza su tutte le decisioni della corte suprema salvo, chissà perché, quelle relative alla stessa guerra9. i sostenitori di questa versione, almeno, adducono spiegazioni; ma forse basterebbe ricordare loro tutti i casi in cui la corte semplicemente ignora leggi come il Patriot Act.
La versione più diffusa della seconda fallacia, d’altra parte, assume che le misure securitarie non riguardino i comuni cittadini, ma solo i potenziali terroristi. in un senso è vero: i provvedimenti di emergenza dei governi colpiscono quasi chirurgicamente minoranze ben individuate, indipendentemente dal fatto che si tratti di cittadini o di stranieri. solo negli stati uniti, sinora, si è trattato di messicani, giapponesi o arabi, ma anche, come vediamo al prossimo punto, di frequentatori di biblioteche.
Qual è il senso di questi provvedimenti discriminatori, di fronte ai quali, inopinatamente, gli stessi liberal statunitensi si dividono (cfr. 5.4)? Una spiegazione banale è che i governi reagiscono come la polizia quando opera retate di sospetti a seguito di crimini particolarmente efferati. così, i governi evitano di farsi punire elettoralmente: è talmente facile essere favorevoli alle limitazioni delle libertà altrui [10]… una spiegazione più profonda, però, sta nel vecchio meccanismo del capro espiatorio. Provvedimenti che stigmatizzano intere minoranze, inducendole a simpatizzare con il terrorismo o, se già simpatizzanti, di spingerle a saltare il fosso, non hanno solo ragioni strumentali. Hanno anche evidenti ragioni simboliche: come quando si imputano tutti i mali della società ai corrotti, ai migranti o direttamente agli ebrei. Émile Durkheim attribuiva proprio questa funzione al diritto penale (repressivo): né punire i crimini né prevenirli, benché ovviamente serva anche a questo, ma rafforzare la solidarietà sociale [11].
5.1.3.
La terza fallacia, che abbiamo visto spesso smascherata dall’impiego del test di adeguatezza, è che sacrificare la libertà – anche la propria, ma soprattutto l’altrui – sia una condizione almeno necessaria per garantire la sicurezza. Qui, mi pare, si danno almeno tre possibilità. Primo, vi sono limitazioni della libertà individuale – alla privacy, alla libertà di prendere l’aereo o di attraversare i confini senza essere soggetti a controlli vessatori – che sono effettivamente utili ad accrescere la sicurezza collettiva.
Secondo, vi sono limitazioni della libertà individuale palesemente inutili al fine. Non penso tanto a casi quali quello di Nizza, città amministrata dalla destra e videosorvegliata come nessun’altra, ma non per questo meno esposta, come s’è visto il 14 luglio 2016, agli attacchi di psicolabili suicidi. Qui la spiegazione è relativamente semplice: come ripetono i governanti più responsabili, non esiste la sicurezza totale, ma solo gradi più o meno accettabili di sicurezza, o piuttosto di insicurezza.
Penso invece a casi più difficili da spiegare razionalmente come, dopo l’undici settembre, la raccolta di dati personali relativi ai frequentatori delle biblioteche, o l’imposizione di chiavi biometriche (tessere con impronte digitali) agli abitanti di un complesso residenziale di Broadway abitato soprattutto da artisti [12]. Si tratta evidentemente di misure inutili a combattere il terrorismo e che, se rispondono a qualche fine, servono semmai a stigmatizzare il dissenso.
Terzo, vi sono limitazioni della libertà individuale non solo inutili ma chiaramente controproducenti: come l’arresto e  la prolungata detenzione, dopo il Patriot Act, di centinaia di musulmani americani che cercavano solo di mettersi in regola con le nuove norme [13]. Qui il meccanismo simbolico, ancor più generale di quello del capro espiatorio, è il sacrificio: analogo, su larga scala, a quello immaginato da Fedor Dostoevskij su scala molto più ridotta.
Prefigurando il terrorismo molecolare odierno, l’autore dei Demoni (1873) immaginava che i nichilisti – organizzati in cellule dette «cinque», autonome e spesso in rapporti poco più che immaginari fra loro – rinsaldassero i loro legami interni assassinando uno dei propri membri. La lotta al terrorismo, analogamente, sceglie di sacrificare diritti individuali, rendendoci complici delle violazioni. Per chi trovasse questa spiegazione troppo cerebrale, naturalmente, ne resta sempre, di default, un’altra: la stupidità umana.
Una spiegazione complessiva di queste fallacie cognitive e simboliche potrebbe ricorrere alla nozione di atavismo: la riattivazione di dinamiche irrazionali solo apparentemente superate nell’evoluzione della specie umana. Qui basti segnalare come la rivoluzione digitale, specie nella forma dei cellulari multi-tasking, lungi dall’impedirle, assecondi tutte queste regressioni: tanto dalla parte del terrorismo, quanto dalla parte dell’antiterrorismo.
Dalla parte del terrorismo c’è una sorta di atavismo mediatico che induce giovani disadattati, non necessariamente provenienti dalle banlieue, ma spesso con poco o niente da perdere, a percepire come più reale l’immagine dei guerrieri dell’Isis rispetto alle vite delle persone in carne e ossa che essi sono disposti a sacrificare. Qui siamo davvero alla «guerra dei sogni» di augé, o alle emozioni del branco evocate da Hayek per liquidare insieme totalitarismi e stato sociale [14].
Dalla parte dell’antiterrorismo, invece, le risposte simboliche date al terrorismo si prestano a loro volta a simbolizzare l’incapacità a governare problemi complessi come degrado ecologico, flussi migratori, disoccupazione di massa, finanziarizzazione dell’economia… scrive Wendy Smith a proposito delle più comuni politiche antiterrorismo: la tentazione è affidarsi alla «finzione teatrale», alla «imago di un potere statuale sovrano a fronte del suo disfacimento» [15].
In termini meno esoterici, osserva David Lyons: «il desiderio di parecchi governi di conservare una parvenza di controllo sociale, che in un mondo sempre più globalizzato alcuni sentivano di stare perdendo, ha ora trovato una valvola di sfogo nella legislazione “antiterrorismo”» [16]. Tale legislazione serve spesso solo a mostrare che esiste ancora un governo, ma finisce per insinuare il sospetto diametralmente opposto: che, in realtà, nessuno governi più nulla.
5.2.        Legittima difesa
La legittima difesa è un esempio di bilanciamento libertà-sicurezza infra-right: fra diritti individuali alla libertà-sicurezza delle vittime di aggressioni e delle vittime delle loro reazioni [17]. Il tema riguarda la pubblica sicurezza, interna, e in particolare il diritto all’autodifesa personale, e non la sicurezza nazionale, esterna, ossia il potere di autodifesa degli stati. Ma vi sono relazioni fra i due temi, la più importante delle quali è la privatizzazione della sicurezza.
Come nella guerra asimmetrica si ricorre sempre più ai contractor o ai droni, che evitano ai governi perdite di vite umane imbarazzanti da giustificare, così nell’ordine pubblico interno. Qui, la direzione intrapresa dalle politiche securitarie sembra ormai opposta a quella pubblicistica delle retate dimostrative, del poliziotto di quartiere o delle ronde. In realtà, è molto più economico installare telecamere e intervenire solo in caso di bisogno: se non intervenire a cose fatte, qualcuno, alla propria sicurezza, ci ha pensato da sé.
La legittima difesa è però un caso di privatizzazione della sicurezza non dichiarato, ingiustificabile per ragioni finanziarie bensì ascrivibile a ragioni simboliche. Da un lato, si riscontra un aumento delle c.d. rapine in villa, compiute contro gli abitanti di case isolate: pur in un quadro di generale diminuzione dei reati c.d. predatori. D’altro lato, c’è una generale sensazione di insicurezza, alimentata più o meno consapevolmente dai media – giornali, web, e ancor più televisione – per banali ragioni di audience, ma spesso anche scopertamente politiche.
In Italia, la materia è regolata dall’art. 52 del Codice Rocco (1930) che nella formulazione originaria constava di un unico comma: «non è punibile chi ha commesso il fatto per esservi stato costretto dalla necessità di difendere un diritto proprio o altrui contro il pericolo attuale di un’offesa ingiusta, sempre che la difesa sia proporzionata all’offesa». La valutazione della proporzione fra difesa e offesa – conflitto intra-right risolto da una forma di bilanciamento – è rimessa al giudice di merito. Nel 2006, la maggioranza di centrodestra, rispondendo alle inquietudini del proprio elettorato, aggiunse altri due commi all’unico anteriore [18]. Il primo introduce una presunzione di legittima difesa a favore delle vittime di rapine a domicilio che reagiscano sparando ai rapinatori per difendere non solo la propria incolumità ma anche i propri beni. il secondo estende la presunzione a chi spara per le stesse ragioni anche nel luogo dove esercita un commercio, professione o impresa.
Certo, la maggioranza degli italiani – all’oscuro del calo degli omicidi in Italia, un ventesimo di quelli compiuti ogni anno in paesi come gli usa, dove la libertà di portare armi è tutelata costituzionalmente [19] – chiede molto di più. Chiede, nientedimeno, che chi uccide per difendersi sia creduto sulla parola, senza che i fatti vengano accertati e che si debba pagare un avvocato «per evitare grane» [20]. Peccato solo che ciò equivalga a un’indiscriminata licenza di uccidere.
La presunzione di legittima difesa, dunque, non potrebbe mai eliminare l’accertamento dei fatti da parte di polizia e giudici, ma almeno tutelerebbe lo sparatore: tutelerebbe, voglio dire, se l’obiettivo della novella del 2006 fosse stato raggiunto. Perché la giurisprudenza della cassazione, invece, nega che la presunzione di legittima difesa precluda la valutazione caso per caso del giudice circa la proporzione fra offesa e difesa: anche perché tale preclusione violerebbe vari principi costituzionali.
Intanto, violerebbe anch’essa, proprio come la sottrazione dello sparatore a qualsiasi indagine, il principio per cui, in caso di omicidio, è pur sempre il giudice di merito a dover valutare le circostanze del caso concreto. Ma poi, ancora più chiaramente, qualsiasi presunzione di legittima difesa, sia essa vincibile o a maggior ragione invincibile, equiparerebbe la tutela di diritti personali come il diritto alla vita alla tutela di diritti patrimoniali come la proprietà.
Si pensi a quello che chiamerò, per economia, il caso del Tabaccaio. Un tabaccaio si sveglia di notte, sente dei rumori provenienti da una casa di fronte, dove ha solo dei magazzini, si affaccia alla finestra, spara nel buio e uccide un ladro. Tribunale, corte d’appello e cassazione lo condannano a un anno e quattro mesi con condizionale, stabilendo che il giudice non può astenersi dal valutare la proporzione fra offesa e difesa: ribadendo quindi che la presunzione di legittima difesa non preclude la valutazione caso per caso della proporzione [21].
Dal punto di vista costituzionale, in effetti, un’interpretazione del nuovo art. 52 che precludesse la valutazione della proporzione sarebbe incostituzionale. nel caso del Tabaccaio come in altri, dunque, la cassazione s’è limitata a fornire, della novella del 2006, un’interpretazione costituzionalmente conforme. eppure l’attuale Parlamento discute riforme della legittima difesa che sarebbero altrettanto incostituzionali, e movimenti populisti – nel senso del populismo penale – raccolgono milioni di firme solo evocando la questione [22].
Non sarebbe la prima volta che una disposizione del legislatore fascista si rivela fatta meglio, e persino più garantista, di disposizioni del legislatore cosiddetto democratico. Qualcosa di simile potrebbe dirsi, a fortiori, della stessa costituzione repubblicana e di tutte le sue riforme non puntuali, concentrate nell’ultimo quindicennio: si stava meglio quando si stava peggio. come scriveva profeticamente bruno leoni: si cerca di rimediare ai difetti della legislazione con sempre maggiore, e peggiore, legislazione [23].
5.3.        Tortura
La storia del recente dibattito sulla tortura – un caso di bilanciamento inter-rights che Alan Dershowitz ha camuffato da bilanciamento intra-rights – è raccontata dallo stesso autore in un contributo successivo al suo libro più famoso, Why Terrorism Work (2002) [24]. Nei tardi anni ottanta del secolo scorso l’autore, famoso avvocato e docente liberal statunitense, graniticamente contrario alla tortura, si reca in Israele: il paese-laboratorio del nuovo terrorismo globale, in guerra dalla nascita con tutti i suoi vicini.
Una delle cose che osserva subito, discutendo con i propri ospiti israeliani, è che tutti sono più o meno favorevoli a forme di tortura dei terroristi palestinesi, ma che tutti si rifiutano di ammetterlo in linea di principio: come fa, del resto, la stessa corte suprema israeliana, sotto l’illuminata guida del suo presidente, Barak. Si fa ma non si dice: questo l’atteggiamento ipocrita che suscita il moto di ripulsa del liberal statunitense. In realtà, Dershowitz sa perfettamente che gran parte dei paesi firmatari della convenzione internazionale contro la tortura del 1984 l’ha firmata solo per mettersi in regola con gli standard ufficiali, salvo continuare a torturare come e più di prima. È relativamente raro, in altri termini, un caso come quello del portavoce del governo egiziano che – ben prima del caso Regeni – ammise di ritenere «naturale» la tortura dei terroristi e che, sul punto, gli stati uniti avevano imparato dagli egiziani [25].
Damasco non è lontana da Israele e, per reazione all’ipocrisia dei propri ospiti, Dershowitz fece come Paolo di Tarso: si convertì. da buon avvocato, aveva sempre saputo che la tortura è comunemente praticata anche in occidente, in questure, carceri, manicomi… e allora ecco l’idea, che ha trasformato Dershowitz da principe del foro statunitense in star internazionale. Invece che continuare a vietare la tortu ra senza eccezioni, chiudendo gli occhi sulla realtà, perché ammettere eccezioni, sia pure al fine di limitare la tortura?
Così l’avvocato liberal scrive il quarto capitolo di Why Terrorism Work, ove propone l’esperimento mentale della bomba a tempo (ticking bomb) [26]. Un terrorista colloca un ordigno chimico o nucleare, e viene arrestato prima dell’esplosione. Ora, si domanda Dershowitz, in un caso come questo non sarebbe moralmente lecito torturare il terrorista per fargli confessare dove ha collocato la bomba, salvando migliaia di vite umane? Non dovrebbe esservi un apposito warrant legale che consente una (moderata e controllata) tortura del  terrorista?
Messa così, la risposta è tanto ovvia che anche gli studenti di Dershowitz, consultati per alzata di mano, infallibilmente concordano. Ma, peggio ancora, pure il controllo di proporzionalità – uno dei cavalli di battaglia del mio libro – non dà risposte troppo diverse. Il consequenzialismo, qui, mette in crisi le nostre più salde convinzioni deontologiche, umanitarie dignitarie liberal: perché, considerati i pro e i contro, ci intima senz’altro «torturiamolo al più presto».
Rispetto al test di adeguatezza, infatti, torturare il terrorista potrebbe davvero essere l’unico modo idoneo a salvare innumerevoli vite. Rispetto al test di necessità, poi, sembra non esserci un’alternativa alla tortura che sia più rispettosa dei diritti per conseguire lo stesso obiettivo. E non parliamo della proporzionalità in senso stretto: che sarà mai qualche scossa elettrica ai genitali, o qualche pinta d’acqua salata da fargli ingurgitare, di fronte al salvataggio d’innumerevoli vite? Ora, si può ironizzare sulla proposta di Dershowitz [27], come sto facendo io, ma non si può liquidarla come se fosse solo un modo ingegnoso di giustificare la tortura. Perché su due punti l’avvocato e docente universitario di Harvard ha perfettamente ragione. Intanto, sul fatto che la tortura sia ancora, qui e oggi, largamente praticata. Poi, sull’autentico tabù cognitivo a discuterne nel merito, per il timore di legittimarla anche solo contemplandone la possibilità [28].
Sulla tortura, del resto, noi italiani non siamo secondi a nessuno, visto che torturiamo come tutti – vedi il G8 del 2001 a Genova [29] – ma che dal 1984, anno in cui firmammo la convenzione, inventiamo sempre nuovi trucchi per non vietare la tortura come reato proprio, commesso da un pubblico ufficiale. L’ultimo trucco è stato presentare in Parlamento una riforma finta – come tante altre tipiche del riformismo attuale – che configura la tortura come reato comune, commissibile da chiunque, in chiara violazione della convenzione [30].
Sul tabù cognitivo sono significative le reazioni al libro di Dershowitz: l’idea stessa di ridiscutere il divieto assoluto della tortura fa stracciare le vesti ai critici, perché incrinerebbe il nostro senso comune garantista. Ora, il tabù sulla tortura come oggetto di discussione non è giustificabile razionalmente: nulla può essere sottratto alla discussione. Né appare convincente la corrente giustificazione deontologica del divieto, in termini di valori non negoziabili, che persuade solo chi è già convinto [31].
Altra cosa, invece, è il vero e proprio tabù normativo che può formarsi con il divieto assoluto della tortura stabilito nel 1984:
«nessuna possibile circostanza eccezionale, sia essa uno stato di guerra o la minaccia di una guerra, l’instabilità politica interna o qualsiasi altra emergenza pubblica, può essere invocata come giustificazione della tortura» (art. 2.2) [32]. A differenza del tabù cognitivo sopra menzionato, il tabù normativo è giustificabile razionalmente: e rappresenta il paradigma dei rimedi (anche) simbolici cui accennavo a inizio capitolo.
Secondo la teoria classica del ragionamento pratico (cfr. 2.5), ogni regola è il risultato di un bilanciamento legislativo: un risultato superabile da bilanciamenti giudiziari solo in casi più unici che rari come la ticking bomb o il rischio di dissoluzione dello stato (cfr. 4.5 in fine). Come osserva il solito Sunstein, infatti, un bilanciamento delle ragioni pro o contro la tortura, operato in costituzione o in trattati come la convenzione, preclude ulteriori bilanciamenti legislativi o giudiziali [33].
Anche Sunstein, come Dershowitz, ammette che la tortura è largamente praticata, e che il nostro obiettivo realisticamente, non può essere di eliminarla ma solo di limitarla. Contro Dershowitz, però, egli osserva che le conseguenze dell’ammissione di eccezioni al divieto sarebbero rovinose. La tortura continuerebbe a essere praticata ma stavolta con il permesso del diritto; mentre ora chi la compie rischia un’incriminazione e una condanna, almeno in tutti i paesi civili tranne il nostro.
Che fare, allora, se il caso della ticking bomb si verificasse davvero? L’unica sicurezza (certainty) è questa. In un caso così, anche oggi il terrorista verrebbe torturato, beninteso senza ammetterlo: ma il torturatore umanitario, per così dire, rischierebbe incriminazione e condanna. Persino nella remota eventualità che in Italia fosse introdotto il reato di tortura il torturatore sfuggirebbe a condanna e pena invocando, a buon diritto, lo stato di necessità (art. 54 c.p.). Questa è l’unica eccezione al divieto assoluto di tortura di cui si senta il bisogno.
Un divieto assoluto, a lungo termine, può produrre un tabù normativo: ma un tabù giustificabile razionalmente, a differenza del tabù cognitivo. Se c’è un mezzo per limitare la pratica della tortura, infatti, non è certo prevedere eccezioni esplicite, come propone Dershowitz, ma mantenere un divieto assoluto, da ridiscutere solo in caso di necessità. Così, il divieto della tortura può diventare davvero un tabù, come quelli dell’incesto o della pedofilia: qualcosa di cui vergognarsi, voglio dire, anche nel caso della ticking bomb.
5.4.        Emergenza costituzionale
Un terzo caso di bilanciamento libertà/sicurezza – interrights, o piuttosto rights-goods – può riassumersi nell’interrogativo se si possa/debba regolare giuridicamente l’emergenza. A questa domanda si danno, mi pare, tre risposte principali. La prima è negativa: l’emergenza non può essere regolata, per ragioni o concettuali, o empiriche, o normative. La seconda e la terza risposta, invece, sono affermative: l’emergenza può essere regolata, o costituzionalmente o per legge ordinaria [34].
5.4.1.
La prima risposta, più radicale, confonde emergenza ed eccezione [35], e sostiene che entrambe non possano essere regolate: ma per ragioni diverse, spesso confuse fra loro però distinguibili. L’emergenza-eccezione non potrebbe essere regolata per ragioni concettuali, o per definizione, secondo Schmitt e i suoi epigoni di destra e di sinistra (cfr. 4.4.1).
Per definizione, cioè, la costituzione non potrebbe prevedere l’emergenza-eccezione ma, al massimo, chi decide su di essa: che sarebbe poi l’autentico sovrano.
L’emergenza-eccezione non potrebbe essere regolata per ragioni (quasi-)empiriche, invece, secondo i sostenitori della necessità come fonte extra ordinem del diritto, quali Santi Romano [36]. Mentre Schmitt attribuiva la decisione in materia al capo dello stato, come custode della costituzione, gli epigoni di romano si accontentano dell’esecutivo: il quale avrebbe poteri di decretazione (di necessità e urgenza) anch’essi straordinari e impliciti, non previsti dalla costituzione, che al sottoscritto paiono costituzionalmente dubbi [37].
L’emergenza-eccezione non può essere regolata per ragioni normative, infine, secondo Mark Tushnet e altri giuristi critici statunitensi, che s’ispirano sia a Schmitt sia alla tradizione di common law. Per costoro, chiudere un occhio su certe violazioni costituzionali è pur sempre meglio che cercare di giustificarle giuridicamente, come ha fatto la corte suprema statunitense in Ex parte Quirin (1942) e Korematsu (1944). Decisioni come queste, infatti, diventano precedenti e rischiano di giustificare ulteriori violazioni della costituzione [38].
5.4.2.
La seconda risposta sostiene che sì, l’emergenza può essere regolata, ma deve esserlo da parte della stessa costituzione. Di fronte alle conseguenze dell’undici settembre, e alla possibilità di una loro replica, il solito Ackerman ha fornito soluzioni di questo tipo prima nel saggio Emergency Constitution (2004), poi nel libro Before the Next Attack (2006), aggiungendo ulteriori proposte di riforma in Decline and Fall of the American Republic (2010) [39].
La costituzione statunitense, come s’è visto nel terzo capitolo, prevede solo i casi di «invasione e ribellione» ed è difficilmente riformabile. Ackerman, così, si vede costretto a proporre leggi organiche, materialmente ma non formalmente costituzionali, con almeno due contenuti significativi. Intanto, la rinnovazione dello stato di emergenza da parte del congresso solo con maggioranze via via crescenti: istituto ripreso dalla costituzione sudafricana post-apartheid, ma di dubbia realizzabilità negli Stati Uniti [40].
Poi, e soprattutto, Ackerman ritiene che «di fronte al prossimo attacco» si ricorrerà di nuovo a retate di sospetti, con incarcerazioni e abusi vari che poi si riveleranno ingiustificabili giuridicamente: retate motivate solo dal fine, da lui ritenuto commendevole, di rassicurare l’opinione pubblica interna. Il liberal Ackerman non trova di meglio, qui, che proporre riparazioni pecuniarie per le incarcerazioni ingiustificate: riparazioni non previste dal diritto statunitense [41].
5.4.3.
La terza risposta sostiene pure che l’emergenza può essere regolata, ma da parte del Parlamento, dunque per legge ordinaria. È la soluzione adottata dal diritto inglese, privo di costituzione scritta e di controllo di costituzionalità, e ispirato al principio della sovranità del Parlamento: l’unico sistema, secondo Waldron, compatibile con la democrazia. Qui però l’autore dovrebbe finalmente scegliere fra democrazia e diritti umani: come mostra l’esempio seguente.
Dopo l’undici settembre il governo Blair fece approvare dal Parlamento l’Anti-Terrorism, Crime and Security Act 2001: legge che ha poco da invidiare al Patriot Act statunitense quanto a inutile durezza. A differenza del Patriot Act, però, la legge inglese ha potuto essere giudicata contraria alla convenzione europea dei diritti dell’uomo (1950), incorporata nel diritto inglese con l’Human Rights Act (1998). Lo ha fatto la House of lords, con una decisione del 2004 già citata in 3.5 in fine. L’Anti-Terrorism Act, infatti, autorizzava la detenzione indefinita di cittadini extracomunitari: con una discriminazione, rispetto ai sudditi di sua maestà britannica, non autorizzata dalla convenzione, benché perfettamente in linea con le tradizioni di common law in materia. La patria dell’habeas corpus, infatti, lo ha sempre concepito come un privilegio dei sudditi britannici, e non come un diritto umano. In Inghilterra, del resto, la prerogativa del re, oggi passata al Parlamento, è sempre stata concepita come contra ed extra legem.
L’espulsione degli extracomunitari, d’altra parte, era ed è vietata dalla convenzione europea e dall’Human Rights Act per persone provenienti da paesi che praticano pena di morte e tortura: sicché potevano darsi detenzioni indefinite di sospetti non rinviabili ai paesi di origine [42]. In assenza di un vero controllo di costituzionalità, la House of lords, nel 2004, ha potuto rimediare al problema solo rinviando l’Anti-Terrorism Act al Parlamento sovrano: le cui maggioranze, specie dopo la Brexit, non sembrano granché sensibili ai diritti umani.
Ed è qui che Waldron, e tutti i democratici duri e puri, ossia contrari al controllo di costituzionalità, dovrebbero finalmente scegliere fra democrazia e diritti umani: ideali il cui possibile conflitto, a oggi, è bilanciato solo tramite forme di judicial review. leggi non meno illiberali dell’Anti-Terrorism Act, dopotutto, erano già previste per combattere il terrorismo nord-irlandese. davvero la patria del costituzionalismo «è al tempo stesso il paese che peggio lo difende e definisce» [43].
Le tre risposte al problema dell’emergenza costituzionale sono solo modelli ideali, combinabili diversamente nei sistemi costituzionali reali. Questi, di solito, presentano qualche disposizione costituzionale in materia (5.4.2), che autorizza il governo ad agire (5.4.1), ma sotto il controllo del Parlamento (5.4.2, seconda variante). A fare la differenza, però, è un istituto escluso dal primo e dal terzo modello e presente solo nel secondo: il controllo di costituzionalità delle leggi, appunto.
È quest’elemento, in particolare, a fare degli Stati Uniti uno stato costituzionale ante litteram, e il prototipo di tutti gli stati costituzionali postbellici. Il Regno Unito, invece, resta un tipico stato legislativo: cioè uno stadio ancora rudimentale nell’evoluzione dello stato di diritto. Il Regno Unito, in particolare, è oggi dotato solo di forme embrionali di judicial review, che lungi dall’evolvere potrebbero fare la stessa fine dell’adesione britannica all’Unione europea. [...]

NOTE
[1] Per la distinzione fra razionalità strumentale ed espressiva, e per l’individuazione di un dominio della a-razionalità, cfr. almeno r. boudon, La rationalité, Paris, Puf, 2009, specie pp. 114-116 e 5.
[2] b. ackermann, The Decline and Fall of American Republic, cit., p. 39.
[3] continuo qui, in qualche modo, la discussione iniziata in l. Ferrajoli, Dei diritti e delle garanzie. Conversazione con Mauro Barberis, bologna, il mulino, 2013.
[4] le tre fallacie non corrispondono a, ma catturano l’essenziale dei tre errori cognitivi segnalati da C. Sunstein, Il diritto della paura, trad. it. cit., pp. 275-280 (cfr. qui 1.5): mancata messa a fuoco, restrizioni discriminatorie alla libertà, e trascuratezza per la probabilità.
[5] il rinvio quasi obbligato è a r. girard, La violenza e il sacro (1972), trad. it. milano, adelphi, 1980, su cui torno nell’epilogo.
[6] J. rosen, The Naked Crowd: Reclaiming Security and Freedom in an Anxious Age, new York, random House, 2004, pp. 72-74.
[7] m. sivak e m.J. Flannagan, Flying and Driving after the September 11 Attacks, in «american scientist», 91, 2003; m. szalavitz, 10 Ways We Get the Odds Wrong, in «Psychology Today», 41, 2008, pp. 96-98.
[8] cfr. r. suskind, The One Percent Doctrine, new York, simon & schuster, 2006.
[9] cfr. l. epstein et al., The Supreme Court During Crisis: How War Affects only Non-WarCases, in «new York university law review», 80/1, 2005, pp. 1-116, specie p. 9: «while the presence of war does affect cases unrelated  to war, there is no evidence that the presence of war affects cases directly related to war».
[10] Qui s’innesta la tematica dei controlli mirati agli stereotipi razziali  o culturali: cfr. J. glaser, Suspect Race: Causes and Consequences of Racial profiling, oxford, oxford university Press, 2014.
[11] cfr. É. durkheim, La divisione del lavoro sociale (1893), trad. it. milano, il saggiatore, 1999, p. 126.
[12] cfr. P. ceri, La società vulnerabile, cit., pp. 46-48.
[13] Ibidem, pp. 48-51.
[14] m. augé, La guerra dei sogni, cit. e F. Hayek, L’atavismo della giustizia sociale (1995), in id., Nuovi studi di filosofia, politica, economia e storia delle idee, roma, armando, 1998, pp. 68-81.
[15] W. brown, Stati murati, sovranità in declino (2010), trad. it. roma-bari, laterza, 2001, p. 13.
[16] così d. lyons, Massima sicurezza, trad. it. cit., p. xv.
[17] cfr. m. barberis, Legittima difesa e bilanciamenti in Legalità penale e crisi del diritto, oggi. Un percorso interdisciplinare, a cura di a. bernardi, b. Pastore e s. Pugiotto, milano, giuffrè, 2008, pp. 83-103.
[18] i commi 2 e 3 recitano: «nei casi previsti dall’art. 614, primo e secondo comma [violazione di domicilio], sussiste il rapporto di proporzione di cui al primo comma del presente articolo se taluno legittimamente presente in uno dei luoghi ivi indicati [nell’art. 614] usa un’arma legittimamente detenuta o altro mezzo idoneo al fine di difendere: a) la propria o altrui incolumità, b)  i beni propri o altrui, quando non vi è desistenza e vi è pericolo di aggressione. la disposizione di cui al secondo comma si applica anche nel caso in cui il fatto sia avvenuto all’interno di ogni altro luogo ove venga esercitata un’attività commerciale, professionale o imprenditoriale.
[19] cfr. r. Volpi, Stop ai facili allarmismi: le violenze in Italia sono in netto calo, in www.ilfoglio.it, 3 aprile 2016, che commenta dati del ministero degli interni, sia pure al fine, curioso, di negare il fenomeno del femminicidio.
[20] alcune regioni governate dal centrodestra hanno cercato di risarcire le spese processuali agli imputati di eccesso in legittima difesa; nel 2016 il governo ha sollevato conflitto di attribuzione contro una legge in tal senso della regione liguria, che peraltro riprendeva analogo provvedimento della regione lombardia.
[21] così cassazione penale, sez. iV, 14 novembre 2013, n. 691.
[22] si pensi all’italia dei Valori, partito travolto dagli scandali per corruzione ma che ha raccolto facilmente un milione di firme per riformare la legittima difesa. sul penal populism, invece, cfr. J.V. roberts et al., Penal Populism and Public Opinion: Lessons from Five Countries, new York, oxford university Press, 2003 e, in italia, s. anastasia, m. anselmi e d. Falcinelli, Populismo penale: una prospettiva italiana, Padova, Wolters Kluwer-cedam, 2015.
[23] cfr. b. leoni, La libertà e la legge (1963), trad. it. macerata, liberilibri, 1994, p. 7.
[24] a.m. Dershowitz, Why Terrorism Work. Understanding the Threat, Responding to the Challenge, new Haven, Yale university Press, 2002 (del libro esiste una trad. it. attualmente introvabile: un altro fenomeno di rimozione?). l’autore racconta la nascita del libro in Tortured Reasoning, in Torture. A Collection, a cura di s. levinson, new York, oxford university Press, 2004, pp. 287-280.
[25] lo riporta lo stesso a. dershowitz, Tortured Reasoning, cit., p. 279, n. 18: dopo aver negato la pratica sistematica della tortura nel proprio paese, il funzionario egiziano si contraddisse affermando che «any terrorist will claim the torture – that’s the easiest thing» e che anzi, in materia di antiterrorismo, gli stati uniti «imitate the egyptian model».
[26] che si tratti di un esperimento mentale, difficilmente replicabile nella realtà, indica già una fallacia – il passaggio dalla soluzione praticabile in un caso ipotetico a quelle praticabili in casi reali – molto più vistosa di quelle segnalate da e. scarry, Five Errors in the Reasoning of Alan Dershowitz, in Torture Reasoning, cit., pp. 281-290.
[27] suppongo sia ironica – ma date le giravolte dell’autore non si può mai sapere – la seguente affermazione di J. gray, A Modest Proposal, in «The new statesman», 17 febbraio 2003: «in fact, in a truly liberal society, terrorists have the inalienable right to be tortured».
[28] lo segnala sin dal titolo s. levinson, Contemplating Torture. An Introduction, in Torture Reasoning, cit.
[29] lo scrivevo già ne Lo stato di natura all’angolo di via Battisti, in «ragion pratica», 17, 2001, pp. 217-230, suscitando lo scandalo di angelo Panebianco. Poi il giudice del processo d’appello, roberto settembre, ha documentato in Gridavano e piangevano. La tortura in Italia: ciò che ci insegna Bolzaneto, Torino, einaudi, 2014, le torture sistematiche praticate nelle carceri predisposte per il g8. infine, il 7 aprile 2015, l’italia è stata condannata dalla  corte europea dei diritti dell’uomo, nel caso Cestaro v. Italia per le torture più occasionali compiute alla scuola diaz.
[30] il combinato disposto degli artt. 1.1 e 4.1, infatti, prevede che costituiscano tortura solo atti «inflicted by or at the instigation of a public official  or other person acting in an official capacity», e che «each state Party [del Trattato] shall ensure that all acts of torture are offences under its criminal law».
[31] di questo tipo mi sembrano le giustificazioni del tabù fornite da m. la Torre e m. lalatta costerbosa, Legalizzare la tortura? Ascesa e declino dello Stato di diritto, bologna, il mulino, 2013 e da m. lalatta costerbosa, Il silenzio della tortura. Contro un crimine estremo, roma, deriveapprodi, 2016: lavori per il resto ammirevoli.
[32] letteralmente: «no exceptional circumstance whatsoever, whether a state of war or a threat of war, internal political instability or any other public emergency, may be invoked as a justification of torture».
[33] Così C. Sunstein, Il diritto della paura, trad. it. cit., pp. 291-298.
[34] modellistiche diverse, da questa e fra loro, sono proposte da G. Marazzita, L’emergenza costituzionale. Definizioni e modelli, milano, giuffrè, 2003, pp. 143-149; P. bonetti, Terrorismo, emergenza e costituzioni democratiche, cit., pp. 121-225; J. Ferejohn e P. Pasquino, The Law of the Exception: A Typology of Emergency Power, in «i-con», 2/2, 2004, pp. 210-239; P. mindus, Nostalgia per Cincinnato? Elementi per una fenomenologia dell’emergenza, in «materiali per una storia della cultura giuridica», 37/2, 2007, pp. 481-523.
[35] come mi fa notare Nicola Muffato, emergenza ed eccezione sono concetti distinti: ad esempio, l’emergenza può comportare eccezioni, mentre non tutte le eccezioni sono determinate dall’emergenza. Quanto all’inversione schmittiana fra eccezione e normalità, per cui la prima spiegherebbe/giustificherebbe la seconda e non viceversa, mi sembra davvero un’ipotesi teologica, ossia appartenente a un sottogenere della letteratura fantastica.
[36] cfr. s. romano, Il diritto pubblico italiano (1914), milano, giuffrè, 1988, specie p. 273.
[37] cfr. ad esempio a. ruggeri, Fonti, norme, criteri ordinatori. Lezioni, 3a ed., Torino, giappichelli, 2001, pp. 174-177.
[38] così, invocando schmitt, m. Tushnet, Emergencies and the Idea of Constitutionalism, in The Constitution in Wartime. Beyond Alarmism and Complacency, a cura di m. Tushnet, durham-london, duke university Press, 2005, p. 40: «to avoid providing law-based justifications for actions that while perhaps understandable in […] moral terms, undermine the values expressed in the rule-of-law tradition».
[39] cfr. B. Ackerman, La costituzione di emergenza (2004), trad. it. roma, meltemi, 2005; id., Before the Next Attack. Preserving Civil Liberties in an Age of Terrorism, new Haven, Yale university Press, 2006; id., The Decline and Fall of the American Republic, cit.: libro che oggi, dopo l’elezione di Trump, appare profetico.
[40] cfr. già La costituzione di emergenza, cit., pp. 40 ss. e, per una critica, l.H. Tribe e P.o. gudridge, The Anti-Emergency Constitution, in «Yale law Journal», 113, 2004, pp. 1801-1873. Per l’istituto sudafricano corrispondente, cfr. P. bonetti, Terrorismo, emergenza e costituzioni democratiche, cit., pp. 196-198.
[41] cfr. id., Before the Next Attack, cit., e, per una critica, M. Goldoni, La costituzione rassicurante. Nota critica sulla teoria dei poteri di emergenza di Bruce Ackerman, in «Teoria politica», 2007, pp. 67-86.
[42] cfr. ancora P. Bonetti, Terrorismo, emergenza e costituzioni democratiche, cit., pp. 274-280.
[43] così G. Sartori, Elementi di teoria politica, Bologna, il mulino, 1987, p. 11.

Fonte: micromega-online online - Il Rasoio di Occam

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