La crisi è quel momento in cui il vecchio muore e il nuovo stenta a nascere. Antonio Gramsci

sabato 27 maggio 2017

Partire dal basso, per cambiare il clima

di Alberto Castagnola
I dati e le nuove analisi che scienziati e centri studi di tutto il mondo hanno messo a disposizione durante tutto il 2016 costringono a pensare che ci troviamo ormai in una situazione di squilibrio climatico incontrovertibile e in via di peggioramento, con in vista drammatici punti di non ritorno. Il riscaldamento globale continua ad aumentare e forse abbiamo già superato quei due gradi centigradi di temperatura che nelle sedi internazionali si considerano il livello minimo di sicurezza per questo secolo, per evitare cioè la perdita di controllo sui tentativi di riequilibrare l’ecosistema in cui si è espansa la specie umana.
Il meccanismo che produce il cosiddetto “effetto serra “ – determinato dall’immissione nell’atmosfera di Co2, metano, e altre sostanze che hanno conseguenze addirittura peggiori di quelle che finora credevamo fossero  causate dalla sola anidride carbonica – non è stato in pratica in nessun modo intaccato e invece stiamo continuando a deforestare e a cementificare i suoli, cioè a diminuire il numero delle piante che fino a qualche decennio fa riassorbivano parte della Co2 prodotta dagli esseri viventi. Il livello dei mari continua a crescere, anzi alcuni studi resi noti di recente (ma sui quali si lavora da oltre dieci anni) stanno suggerendo che le stime finora utilizzate, che  prevedevano aumenti espressi in centimetri, potrebbero essere sostanzialmente sbagliate perché altri modelli analitici prevedono aumenti compresi tra i sei e i nove metri entro questo secolo. Sembra anche che siano stati finora sottovalutati gli effetti dello scioglimento dei ghiacci sia in Groenlandia che in tutta l’Antartide, che si aggiungerebbero quindi a quelli ormai ben noti in atto nell’Artico e nei ghiacciai in terraferma.
Un quadro così terrificante è stato finora tenuto ben lontano dalle sedi politiche all’interno dei paesi maggiori inquinatori e sembra quasi che nessuno stia in realtà elaborando bozze di strategia per una seria lotta al cambiamento climatico in corso.  Come far inserire tutti questi temi nelle sedi governative decisionali e in un dibattito politico più realistico è quindi una priorità ineludibile.
Logiche e contenuti dell’Accordo di Parigi del dicembre 2015
Nelle sedi internazionali la situazione sembrerebbe molto diversa, ma in realtà è molto deludente e forse addirittura pericolosa. Come è abbastanza noto, l’ONU, che da tempo dedica molta attenzione agli squilibri del pianeta (il gruppo di oltre 2500 scienziati riuniti nell’IPCC ha pubblicato nel 2014 il suo Quinto Rapporto) , ha convocato nel dicembre 2015 la sua Ventunesima Conferenza delle Parti, alla quale hanno partecipato 195 Stati e le principali organizzazioni internazionali, per definire i contenuti di un accordo sul clima. Le attese erano quindi ai massimi livelli, ma i risultati purtroppo sono stati modesti, malgrado le denunce e le assunzioni di posizioni responsabili pronunciate durante i quindici giorni di lavoro di una assise così imponente.
Il testo finale dell’accordo firmato da tutte le delegazioni presenti è ben noto e ha circolato anche in italiano,  è piuttosto complesso, ma sono state elaborate in Italia diverse analisi critiche, che vanno al di là delle valutazioni puramente formali e di convenienza, del tipo di “accordo storico”, “assunzione di impegni da parte di tutti i firmatari”, “definizione di un quadro strategico di interventi” e così via.
In realtà, l’accordo presenta molti limiti, che qui indichiamo sinteticamente: a) Non vengono richiesti ai paesi impegni sulle riduzioni di emissioni realmente capaci di incidere sul riscaldamento globale;  b) l’effettiva attuazione degli impegni presi non è sottoposta ad alcun vincolo o meccanismo di compensazione o indennizzo in caso di mancato rispetto degli impegni assunti, che pertanto non possono essere definiti vincolanti; c) le misure previste sono soltanto quelle relative a interventi di adattamento alle conseguenze dei cambiamenti climatici o di mitigazione degli effetti derivanti da riscaldamento globale, non riguardano di fatto la eliminazione o la bonifica degli impianti o di altre fonti che producono le emissioni, e gli interventi di mitigazione appaiono essere solo delle misure che riducono le conseguenze dannose ma non eliminano le cause; d) non sono previste forme di finanziamento da parte dei governi o contributi degli Stati inquinanti al Fondo per aiutare i paesi danneggiati dai cambiamenti climatici (che dovrebbe essere di 100 miliardi di dollari) non ancora istituito formalmente; e) prima della Cop 21 tutti i governi avrebbero dovuto inviare dei documenti contenenti la descrizione dei loro impegni, degli obiettivi dichiarati e delle relative misure di attuazione: ad un primo controllo della segreteria la somma delle cifre contenute nei testi volontari presentati da un certo numero di paesi (mancavano anche dei paesi grandi inquinatori) lasciavano superare ampiamente il livello minimo dei 2 gradi; f) la prima verifica di questi impegni è prevista nel testo dell’accordo per il 2023, quindi molto al di là delle scadenze raccomandate dal V° rapporto dell’IPCC; g) in una dichiarazione fatta di recente, dopo l’entrata in vigore dell’accordo, la Cina sosteneva ufficialmente di non poter affrontare con misure radicali le cause delle emissioni prima del 2030.
Nel complesso, quindi,  l’accordo si presenta più come un quadro generale di lotta al cambiamento climatico, che come un insieme di obiettivi vincolanti, molto dettagliati e con scadenze certe, che tutti i paesi si sono impegnati a realizzare cooperando tra  loro. E’ evidente che in sede Onu ci si è resi conto (anche prima dei lavori della COP 21 a Parigi) che solo i piccoli paesi insulari del Pacifico erano estremamente favorevoli a un trattato globale, gli altri erano poco sensibili alle conseguenze del cambiamento del clima o addirittura erano decisamente contrari ad affrontare con interventi drastici il sistema economico basato sull’uso di combustibili fossili. La strategia adottata dall’apparato internazionale era quindi chiaramente di procedere con cautela e con tempi lunghi, creando però una struttura istituzionale poco vincolante ma che con il tempo avrebbe potuto procedere a costruire un sistema di interventi e misure più incisivo rispetto ai fenomeni climatici. Questa politica, già adottata in altri contesti (ad esempio con il Protocollo di Montreal diretto a salvare la fascia dell’ozono) è ancora in fase iniziale (i paesi aderenti all’Accordo che non lo hanno ancora ratificato, un po’ più di 80, hanno ancora alcuni mesi per farlo) e intanto l’Accordo è già entrato in vigore, malgrado la modestia delle sue prospettive.
La situazione attuale dell’Accordo
Anche la COP 22, tenutasi in Marocco, a Marrakesh, dall’8 al 18 novembre 2016, è stata certamente l’occasione per presentare ufficialmente l’entrata in vigore dell’Accordo, ma non sembra che abbia permesso di esercitare nuove pressioni sui paesi maggiori inquinatori o sul piano degli impegni finanziari verso i paesi che più stanno soffrendo delle conseguenze sempre più drammatiche del riscaldamento globale. Nel frattempo,  è emerso che i dati degli ultimi mesi fanno prevedere che l’anno in corso sarà ricordato come l’anno più caldo rispetto all’inizio delle rilevazioni delle temperature globali  (1880), la presenza di Co2 nell’atmosfera ha superato le 400 ppm e non ha accennato a diminuire da parecchi mesi, e quindi dovrà per un lungo futuro essere considerata una presenza strutturale, non modificabile in tempi brevi (le fonti scientifiche parlano di più generazioni). Inoltre, un particolare tifone, “Mattews” ha ulteriormente devastato Haiti, causando almeno mille vittime e  colpito duramente la Georgia negli Stati Uniti, con circa quaranta morti e un numero elevatissimo di abitazioni danneggiate dai venti che per parecchi giorni hanno viaggiato a velocità superiori a 200 chilometri orari. A conferma del fatto che gli eventi estremi si stanno moltiplicando ed intensificando. In sostanza, le modifiche al clima sono sempre più evidenti, mentre le reazioni a livello degli Stati sembrano muoversi al rallentatore . o non essere ancora pervenute ad un livello politico decisionale.
I governi potrebbero finalmente cambiare strada?
Al momento, sembra difficile che i paesi maggiori inquinatori si sentano responsabili di passare dalle dichiarazioni di principio proiettate in un tempo indefinito (La Cina ha chiarito che non farà niente di radicale prima del 2030, il nuovo Presidente americano potrebbe addirittura svuotare l’impegno assunto con la firma dell’Accordo, ecc.) ad una qualche strategia di politica economica che possa realmente incidere sul rapido progredire del riscaldamento globale.  Quindi la prospettiva di una intensificazione delle lotte dal basso, non legate a governi e partiti, sembra veramente l’unica realistica. E’ bene rilevare che non si tratta di una scelta solamente politico-ideologica (basata sul profondo distacco che si sta allargando nelle società dei paesi più industrializzati tra le rispettive  popolazioni e i loro rappresentati politici, specie sui temi socialmente più pericolosi e urgenti), Siamo solo di fronte ad una necessità di pura resistenza, alla  necessità di lottare senza indugi per la sopravvivenza, commisurata  ai tempi in accelerazione dei danni climatici ed ambientali. Ovviamente queste reazioni di base potranno cominciare ad incidere realmente sui fenomeni naturali in corso, aumentando il senso di responsabilità degli esseri umani verso il pianeta sul quale vivono, solo se l’impegno diretto materiale coinvolgerà un numero rapidamente crescente di persone e permetterà di raggiungere la soglia critica necessaria per modificare le emissioni e le loro conseguenze (soglia che purtroppo continua ad aumentare ogni giorno che passa senza che si decidano interventi radicali).
Cosa fare dal basso, motivazioni e urgenze
Quanto segue non è un programma organico di azioni da avviare con la massima priorità, ma solo una prima serie di indicazioni per orientare le mobilitazioni sui territori e cominciare ad orientare le scelte sicuramente più urgenti. La popolazione di ogni territorio dovrà valutare queste e altre proposte che potranno emergere, stabilendo un proprio piano di priorità in riferimento alle condizioni esistenti in ogni territorio. Quindi troverete suggestioni di percorsi di emersione sociale, delimitazioni di territori e luoghi, forme di organizzazione elastiche e propositive, modalità di lavoro e di controllo, formule innovative di relazioni e cooperazioni. I contenuti e le azioni li devono scegliere gli abitanti coinvolti, dopo scambi e confronti di esperienze.
  • Il ritorno all’agricoltura
Si moltiplicano le esperienze concrete di giovani e famiglie che ritornano alla terra o che curano gli spazi vuoti all’interno di borghi e città. Nascono forme innovative dei rapporti tra centri urbani e attività di produzione alimentare, si creano filiere di rapporti tra produttori agricoli e gruppi di consumatori diretti, si cercano ovunque i metodi che permettano di sottrarsi alle tagliole degli acquisti prima dei raccolti, dei prezzi imposti dai mercati urbani e dalla grande distribuzione organizzata, delle importazioni a basso costo e scarsa qualità da altri paesi dominati dalle monocolture chimicizzate e geneticamente modificate dalle agroindustrie  transnazionali.
  •  Le forme alternative di produzione
Oltre alla permacoltura e al biologico, esistono altre forme alternative di agricoltura, come la bioenergetica e la biodinamica, oltre ad alcune tecniche specifiche. Ultima arrivata la coltivazione spontanea di canne di bambù dai molteplici impieghi.
  • Imporre un cibo sano per tutti
Il continuo proliferare di cibi trasformati industrialmente e riempiti di conservanti , coloranti e potenziatori di sapore di natura chimica, ha ormai creato l’esigenza per i consumatori di ottenere con facilità prodotti sani che non comportino effetti negativi per la salute o una obesità specie in età infantile. Nulla a che vedere con l’inflazione di Maestri della Buona Cucina in tutte le sedi, diventata la più recente minaccia per le popolazioni povere del mondo ricco e di quelle del mondo ancora caratterizzato da fame e malnutrizione endemiche.
  • Risparmiare le risorse naturali
La crescente scarsità di risorse naturali e l’aumento delle perdite di cibo in tutte le fasi della distribuzione viene spesso considerato uno “spreco” da eliminare; in realtà dal punto di vista del sistema capitalistico è un fenomeno che produce profitto in ogni passaggio, mentre gravissimi, perché considerati utili e massimamente illimitati, sono i danni arrecati all’ambiente (sparizione di una risorsa preziosa come l’acqua, dissoluzione di minerali non sempre totalmente recuperabili, residui delle coltivazioni considerate biomassa da trasformare in elettricità (mentre in realtà priva i suoli di sostanze nutrienti), il legno tratto da boschi e foreste troppo spesso bruciato per il solo riscaldamento diretto. Il carbone, fortemente inquinante dovrebbe essere trattenuto nei giacimenti a partire da subito; stessa soluzione per il petrolio da fracking e quello di bassa qualità, mentre una buona parte del restante dovrebbe essere conservato sottoterra per impiegarlo solo per la realizzazione di prodotti chimici essenziali. Per tutti questi motivi la cosiddetta “economia circolare” dovrebbe essere messa in atto solo per il periodo della transizione, mentre gran parte degli attuali rifiuti dovrebbe passare per le forme più avanzate di raccolta differenziata, dopo aver eliminato al più presto gli inquinantissimi  inceneritori in funzione (dopo aver bloccato quelli allo stadio di progetto).
  • Il risparmio energetico
Rappresenta forse la più importante forma di intervento immediato altamente efficace, sia nelle industri che per gli usi domestici, nei sistemi di illuminazione pubblica e così via. Le tecnologie risparmiatrici sono da tempo state sperimentate e molti risparmi consistono solo in misure molto semplici, alla portata anche di ogni componente delle società industrializzate. Da sole le misure di risparmio nei consumi di energia non sono sufficienti a colmare gli squilibri del clima, ma sono sicuramente una delle vie sulle quali è possibile ottenere dei risultati pressoché immediati e costituiscono un fattore essenziale per modificare il ricorso ai combustibili fossili in modo strutturale. Però avranno un significato solo se ogni impresa, ogni abitazione, ogni ente locale modificherà radicalmente le modalità dei consumi pubblici e privati.
  • La casa passiva
Le case di paglia, i mattoni di terra cruda, le strutture di bambù, ma anche le nostre stesse case attuali possono essere costruite o modificate in modo da usare il meno possibile acciaio e cemento per seguire criteri che riducono al massimo le esigenze di riscaldamento e di raffreddamento, magari solo riducendo gli spifferi o l’uso del legno o usando le bottiglie di vetro usate per eliminare le infiltrazioni di umidità, oppure raccogliendo l’acqua piovana. I consumi di energia e di materie prime preziose  si riducono fortemente e gli ambienti diventano più sani.
  • Muoversi diversamente
Qualcuno ha scritto che il miglior modo di incidere sul clima è chiedersi, uscendo di casa, se è proprio necessario prendere l’auto. In realtà serve anche riconquistare la voglia di camminare, magari a passo svelto per migliorare il metabolismo e possedere una bicicletta ben scelta e dotata di piccoli rimorchi.
  • Le modifiche ai consumi personali e familiari
Le modifiche ai consumi sono essenziali, in quanto se realizzate su scala rilevante, possono anche cominciare ad  influire sulle strategie industriali, però devono essere effettuate con la chiara coscienza che le maggiori componenti dell’inquinamento dipendono dalle scelte economiche delle multinazionali e delle grandi imprese, contro le quali deve assolutamente aumentare la contemporanea  pressione ed espansione dei movimenti di base.
  • Le modifiche collettive: condominiali, di zona, di quartiere, di municipio
Le azioni da basso dovrebbero sempre avere una prospettiva spaziale a dimensione umana, cioè evitare eccessivi spostamenti e garantire una certa conoscenza del contesto sociale nel quale si cerca di avviare delle iniziative. Si tratta sempre di operazioni che possono suscitare reazioni negative o il sorgere di muri di indifferenza e che debbano essere ripetute magari più volte. Degli estranei possono essere accolti solo in una fase avanzata del lavoro, in quanto testimonianza di un interesse anche in altre aree, ma possono essere rifiutati a priori in molte situazioni. Invece una esperienza molto locale presenta delle potenzialità maggiori, in quanto sentita più vicina o uguale.
  • Le azioni sul territorio, per zone omogenee
Per individuare l’area di intervento è sempre opportuno delineare una zona omogenea (cioè con caratteristiche sociali analoghe, modi di reagire prevedibili, cultura condivisa, ecc.) che comprende tutte persone colpite in modo simile dallo stesso fenomeno che si vuole combattere. Oppure che presenta delle esigenze di connessione o di integrazione, come il bacino di un corso d’acqua.
  • La tutela dei beni comuni, nei municipi, comuni, consorzi di comuni, ecc.
L’individuazione dei beni che preesistono su ogni territorio e verso i quali gli abitanti possono avere un senso di possesso emotivo è la fase certamente più delicata. Non tutti hanno la stessa percezione di pericolo o di rischio che minaccia un bosco,  un torrente, una chiesa antica, una ricetta locale, una usanza tradizionale o la lingua comunemente parlata. Pochi riescono a comprendere la necessità di una sorveglianza o un controllo anche politico per difendere i beni di interesse collettivo minacciati da un programma governativo o da una legge nazionale percepiti come lontani o addirittura protettivi. Invece bambini e anziani possono più facilmente essere coinvolti in una attività che richiede attenzione e costanza o nei piccoli interventi di protezione e manutenzione.
  1. Il controllo dal basso degli interventi di tutela dell’ambiente (piano Case anti terremoti, piano di riassetto idrogeologico, interventi per la protezione delle coste, controllo delle trivelle, piani regionali per la raccolta e il recupero dei rifiuti, ecc.). Queste attività richiedono una certa maturità politica e qualche capacità professionale per cogliere a fondo i rischi che si corrono a livello nazionale e quelli che si devono affrontare su tutti i territori, meglio se con azioni condivise e coordinate. Qualunque risultato positivo non deve comunque far sospendere la sorveglianza, poiché sono sempre possibili ulteriori pericoli di azioni decise in alto, magari in forma nascosta o capziosa.
  2.  Aumentano ogni giorno le imprese , anche multinazionali, che cercano di trasformarsi in aziende rispettose dell’ambiente (Eni ed Enel in prima fila) generalmente adottando logiche da “green economy”, cioè senza abbandonare le logiche di profitto e curando solo le modifiche della loro pubblicità e della presentazione dei prodotti, oppure aderendo al traffico di certificati previsto dall’Accordo di Montreal (pagare perché qualcun altro possa piantare alberi per compensare la non interruzione delle emissioni dannose). Quindi azioni come guardare la televisione o comprare un alimento o un oggetto di uso ormai comune come un telefonino sono fortemente influenzate da strategie adottate magari in un altro continente. Il caso dei telefonini esplosivi della Samsung o delle auto truccate della Volkswagen sono emblematici ma possono moltiplicarsi.
  3. Il controllo dei cittadini sulla formulazione e l’attuazione degli interventi governativi in attuazione degli impegni assunti a livello internazionale e nel quadro dell’Onu (ad esempio l’Accordo di Parigi). Dovrebbe preliminarmente essere stimolata una maggiore attenzione verso quanto viene deciso a scala internazionale. Sono sedi che possono essere considerate “lontane” o inutili; purtroppo in materia di clima il loro intervento è necessario e urgente data la gravità e la complessità degli eventi in corso. Inoltre ogni ritardo colpisce zone specifiche , incide sulla salute a livello globale, espone ai rischi anche zone apparentemente distanti, ma i cui disastri possono riflettersi su molti altri paesi (ad esempio, i rifugiati mossi da cause ambientali sono già in movimento)
  4.  Il controllo dei cittadini sull’attività degli organismi “verdi” (Coalizione per il Clima, le maggiori organizzazioni ambientaliste, centri studi e facoltà universitarie, italiani e internazionali, ecc.). In molti casi o periodi sarà possibile seguire e non anticipare le iniziative di organismi specializzati, ma al primo sentore di un ritardo in atto, i territori devono essere anche in grado di sollecitare o stimolare le azioni degli organismi più specializzati, spesso esposti a condizionamenti anche sottili.
  5. Promuovere, seguire e diffondere le elaborazioni dei principali esperti e centri studi stranieri che producono analisi sul clima e sulle sue tendenze evolutive. Queste attività devono acquistare una importanza sempre maggiore, poiché sta diminuendo la distanza tra analisi magari teoriche e il manifestarsi di eventi estremi. E la capacità di organizzare le reazioni sui territori deve seguire il ritmo dei fenomeni climatici planetari reali, e non quello delle politiche governative o internazionali.
  6. Questioni di genere. A livello di base i problemi relativi al ruolo svolto dalle donne non si dovrebbero porre. Anzi è da prevedere uno spazio più che proporzionale alle loro iniziative riguardanti i beni comuni e l’ambiente, che nei millenni le hanno viste protagoniste assolute, specie nella cura della natura, nelle scoperte scientifiche, nella elaborazione delle soluzioni tecnologiche.
  7. Stabilire contatti operativi (non alleanze politiche o preludi di fusione) con gruppi informali, con organismi che si occupano di clima o di ambiente, con reti locali attive sugli stessi temi, con centri di comunicazione o di diffusione delle notizie,  per conoscere di più e incidere maggiormente sui territori e a scala superiore.
Qualche suggestione più strategico-politica
  • I luoghi occupati e le sedi di organismi di economia alternativa e solidale , dei gruppi ambientalisti e dei gruppi di acquisto, dovrebbero diventare le fonti di informazioni, sensibilizzazioni, di assistenza a pratiche concrete, di formazione per attivisti sui temi sopra indicati. Agendo in collegamento, ciascuno con i suoi approcci specifici, a Roma potrebbero essere alcune centinaia i punti di irradiazione di riflessioni e azioni dal basso.
  • Con ogni probabilità, il sistema dominante comincia a percepire che sui danni ambientali che arreca al pianeta si sta giocando la sua capacità di sopravvivenza con gli attuali rapporti di forza, mentre le popolazioni dei paesi industrializzati (spesso situate nella fasce intermedie dei cambiamenti climatici, meno toccate dagli eventi estremi meteorologici, quando non addirittura favorite dallo scioglimento dei ghiacciai) tardano a percepire la gravità dei fenomeni in corso e ancora ascoltano i negazionisti di turno. In una logica di contestazione, invece, il fattore ambiente dovrebbe essere scelto come elemento essenziale del conflitto sociale complessivo in corso, non esclusivo, ma strategicamente importante.
  • Essere convinti implicitamente che il sistema dominante, in un modo o nell’altro (costoso per fasce diverse di popolazione e di paesi) sarà in grado di superare l’ennesima mutazione è un atteggiamento a rischio, perché perfino i drammatici avvertimenti dell’IPCC sono superati dagli studi più recenti, che documentano delle trasformazioni molto più gravi di quelle finora previste (permanenza della Co2 nell’atmosfera, innalzamento del livello dei mari, ecc.). In termini politici, ciò significherebbe dover adottare categorie di analisi e di previsioni molto diverse da quelle utilizzate anche nel recente passato.

Letture consigliate
Esistono già numerosissime esperienze in corso, alcune anche di lunga durata; numerose sono anche le pubblicazioni (alcune anche a carattere tecnico-scientifico) piene di spunti e di suggerimenti, che permettono di risparmiare molto tempo e di concentrarsi invece sugli adattamenti richiesti in base alle esigenze specifiche dei rispettivo territorio. Inoltre se ogni realtà che si mette in movimento si collegasse subito in rete e informasse in modo continuativo su errori e successi, tutto il movimento dal basso ne trarrebbe beneficio.
Paolo Cacciari  101 Piccole rivoluzioni. Storie di economia solidale e buone pratiche dal basso (Altreconomia)
Sito e  schede clima  di Comune-info.net
Yoanna Yarrow, “1001 modi per salvare il pianeta”, idee pratiche per curare e  cambiare il mondo, Cooper, Banda Larga Editore, Roma, febbraio 2008.
Paolo Ermani e Andrea Strozzi, Solo la crisi ci può salvare, Basta con la follia  della crescita, Edizioni Il punto d’incontro , Vicenza, maggio 2016

Fonte: comune-info.net
Originale: http://comune-info.net/2017/05/partire-dal-basso-cambiare-clima/

Nessun commento:

Posta un commento

Nota. Solo i membri di questo blog possono postare un commento.