La crisi è quel momento in cui il vecchio muore e il nuovo stenta a nascere. Antonio Gramsci

sabato 27 maggio 2017

Dietro ai dati Istat: tra segreti di pulcinella e un futuro di miseria

Intervista a Ilaria Bertazzi di Commonware
Il Rapporto Istat 2017 presentato di recente, pur nell’algido linguaggio delle statistiche ufficiali e nelle piroette retoriche del mainstream, restituisce un quadro piuttosto chiaro dal punto di vista dei processi di impoverimento delle famiglie, di esplosione del ceto medio, di illusorietà delle politiche sull’occupazione, soprattutto per i giovani, di vertiginoso aumento delle diseguaglianze. Ne abbiamo parlato con Ilaria Bertazzi, economista militante, con cui abbiamo cominciato affrontando la questione della leggera crescita propagandata dai dati macroeconomici del PIL: ma è realmente così? 
“Il Pil italiano è cresciuto dello 0,9% nel 2016, in realtà una cifra irrisoria, ma nella stagnazione che viviamo da anni viene salutato come una stabilizzazione della ripresa. Non si capisce perché si insista a parlare di ripresa a partire dal 2014 quando i dati positivi sono ridicoli ed estremamente volatili (cito: «La fase di ripresa in atto dal 2014 appare caratterizzata da una maggiore instabilità e incertezza rispetto agli episodi di espansione del passato; quella attuale sembra mostrare una maggiore difficoltà di consolidamento della fase espansiva, che si manifesta in una elevata volatilità dei principali indicatori rappresentativi della crescita economica»). Cresce la domanda interna ma non la domanda estera ( -0,1%). Questo dovrebbe far scattare un campanello d’allarme per chi spinge su un’economia italiana ‘d’eccellenza’ della manifattura e sulle storielle del made in Italy che vende all’estero. Le economie verso cui dovremmo esportare stanno tutte crescendo, ma nessuno si sogna di domandare prodotti italiani in più rispetto a prima (in generale i flussi internazionali hanno smesso di crescere, per quasi tutti i paesi). Le storie di una crescita economica basata su basso costo del lavoro (competitività di costi della manifattura) e qualità di prodotto hanno evidentemente fatto il loro tempo. Dal punto di vista interno però la stabilità (pur nella miseria) premia la crescita dei consumi (quel minimo di segno positivo che leggiamo), soprattutto per la mancanza di inflazione. Leggendo questi dati macroeconomici, l’Istat fa la seguente valutazione: «La modesta performance italiana nel corso degli anni Duemila (la crescita del Pil è stata la più bassa tra i paesi europei) è da ricercare in una prolungata stagnazione della produttività». Rifrasando, soprattutto dal punto di vista della qualità del lavoro e della qualità degli investimenti (tipo livello di tecnologia a cui puntano le imprese italiane, relazioni tra qualità delle mansioni e impegno delle competenze, ecc.) il capitalismo italiano è veramente poco sveglio e dinamico.”
E se invece guardiamo alle analisi microeconomiche, che quadro emerge?
“I raggruppamenti sono 9, e già solo il fatto che di questi 3 riguardino pensionati – operai in pensione, anziane sole e pensioni d’argento – dovrebbe dire molto sulla fonte di reddito primaria in Italia. Al di là dell’invecchiamento della popolazione, la stabilità dell’entrata monetaria della previdenza è fondante nella determinazione del benessere e dei consumi di tutto il nucleo famigliare. Da notare che il primo gruppo è anche il più numeroso dei 9 (oltre 22%): altro che emergenza invecchiamento, qui siamo alla catastrofe generazionale! Le famiglie chiamate ‘tradizionali’ della provincia sono invece il gruppo più esiguo dal punto di vista numerico. È importante anche sottolineare che le famiglie con almeno un componente straniero sono le più povere, sempre, secondo qualsivoglia indicatore. Questo dato è un po’ preso come scontato perché si associa migrante a lavoro non qualificato/sottoqualificato e quindi malpagato. Non si commenta e non si analizza la cosa.”
Tornando alla questione generazionale, cosa possiamo notare di interessante dal punto di vista distributivo?
“Come da aspettarsi, i pensionati guadagnano generalmente lo scettro di classe media, sia come reddito che come consumi e patrimonio, anche se in termini di impiego vengono da una vita in fabbrica; questo non perché siano in qualche modo ‘agevolati’, ma perché la situazione della frattura generazionale rende chiunque non sia arrivato alla pensione in balia dell’incertezza (oltre che della precarietà). Sempre sull’onda di questa analisi, per i giovani di 15-34 anni con lavoro atipico i dati evidenziano una riduzione nella permanenza dell’occupazione a distanza di 12 mesi: sono ancora occupati solo il 77,6% dei giovani atipici a fronte dell’82,2% dell’analogo periodo di 12 mesi prima. Diminuiscono anche le transizioni verso il lavoro standard (dal 17,7 al 15,4%), soprattutto per via del Jobs Act.”
Il rapporto mostra una distribuzione delle diseguaglianze ottimistica. Probabilmente assumendo il reddito familiare come indicatore si incorre in questa distorsione, mentre la società italiana pare attraversata da una profonda frattura generazione nella distribuzione della ricchezza e dunque delle diseguaglianze. Cosa ne pensi? 
“La diseguaglianza è aumentata nella maggior parte dei paesi europei, in particolare sui livelli di diseguaglianza dei redditi di mercato (lavoro e capitale). Solo l’intensificarsi dell’azione redistributiva pubblica ha mitigato l’incremento della diseguaglianza; l’Italia si è dimostrata politicamente incapace di portare a termine questo compito di welfare (la capacità redistributiva dell’intervento pubblico è tra le più basse in Europa). La gran parte dell’azione redistributiva è attribuibile ai trasferimenti pensionistici, mentre un ruolo modesto è ricoperto dai trasferimenti di sostegno al reddito quali gli assegni al nucleo familiare o i sussidi di disoccupazione. C’è il segreto di pulcinella dell’ereditarietà delle professioni, veramente vi è chi si stupisce di questi dati? Cito ancora: «Il reddito familiare e il livello di istruzione dei genitori condizionano le scelte e i risultati dei figli sia nella probabilità di iscrizione ai percorsi secondari e terziari nella scelta dell’indirizzo e nella possibilità di completare il percorso di studi. Osservando i percorsi universitari scelti dai figli e dai genitori sembrano emergere elementi a favore di una ereditarietà delle professioni».”
Anche perché c’è un dato, quello della deprivazione materiale grave che continua a crescere...
“Infatti torna a salire l’indicatore di grave deprivazione materiale (11,9%, da 11,5% del 2015). Il fatto che questa percentuale si ostini a non rientrare è pericoloso anche dal punto di vista della durata, ovvero ci sono pochissime speranze di uscita da una condizione di grave disagio economico, soprattutto se consideriamo che si tratta per la maggior parte di famiglie in cui la persona di riferimento è in cerca di lavoro, o con occupazione part-time. Particolarmente critica la condizione dei genitori soli, soprattutto se hanno figli minori, e se combiniamo questo dato con la questione della cristallizzazione intergenerazionale si profila per queste famiglie una trasmissione quasi inevitabile di un futuro di miseria.”

Fonte: commonware.org 

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