La crisi è quel momento in cui il vecchio muore e il nuovo stenta a nascere. Antonio Gramsci

giovedì 25 maggio 2017

Pubblico o privato, sono sempre i lavoratori a rimetterci

di Sergio Farris 
A proposito di pubblico impiego, qualcuno forse ricorderà che a pochissimi giorni dal voto referendario del Dicembre 2016, una prova alla quale il governo Renzi aveva attribuito la sua stessa ragione di esistenza, è stato firmato un nebuloso “accordo quadro” fra Marianna Madia e le confederazioni sindacali. L'accordo contiene alcune vacue promesse e, in sostanza, ribadisce la pessima politica del lavoro imposta dal governo al Paese negli ultimi anni. 
Un aspetto mi aveva, allora, particolarmente colpito: che spiegazione dare al fatto che è sempre il governo a menare le danze, con i sindacati che sono stati convocati a comando e sono accorsi a firmare un accordo con il quale non si fa che riprodurre l'ideologia e la linea politica liberista di tutti gli ultimi pessimi governi, riuscendo a confezionare un rarissimo caso di trattativa in cui il soggetto che più avrebbe interesse a concedere (trovandosi in un frangente di debolezza perchè alla disperata ricerca di consenso) detta le condizioni?
La premessa di quell'accordo è il solito capolavoro di ipocrisia: “il settore pubblico ha bisogno di una profonda innovazione, che parta dai bisogni delle persone e si ponga al fianco e non al di sopra di cittadini e imprese. La Repubblica nel suo complesso e le singole amministrazioni devono porsi macro obiettivi che siano trasparenti, misurabili, idonei a a migliorare concretamente la qualità dei servizi resi e la certezza dei tempi di risposta”.
L'eterno richiamo alla riforma della Pubblica amministrazione. Come è possibile che la Pubblica amministrazione, nonostante 25 anni di riforme, è sempre appuntata nell'agenda dei governi fra i problemi del paese?
Ebbene, perchè i problemi sono stati reiteratamente creati dalle riforme, invece del contrario! Gli anni di tagli alle risorse hanno allontanato la prospettiva di raggiungere quegli stessi obiettivi di efficienza e produttività tanto sbandierati da tutti i governi. Eppure si continua a ragionare (?) come se gli anni scorsi fossero stati neutrali! E poi, perchè se lo sviluppo non arriva, secondo i nostri avvedutissimi governanti l'inghippo deve essere nella burocrazia che scoraggia gli investimenti. Una visuale piuttosto limitata.
A seguire nel testo dell'accordo del 30 novembre: “per rispondere a queste domande, riteniamo fondamentale che la riforma della pubblica amministrazione sia accompagnata dal rinnovo dei contratti di lavoro dei pubblici dipendenti”.
Cioè uno scambio fra riforma della pubblica amministrazione e rinnovo dei contratti. Ma come? Il contratto è un diritto autonomo e imprescindibile, cosa significa “riteniamo fondamentale che la riforma della pubblica amministrazione sia accompagnata dal rinnovo dei contratti di lavoro dei pubblici dipendenti”? Non erano sufficienti sette anni di accantonamento imperativo del diritto democratico al rinnovo dei contratti dei lavoratori, un blocco per giunta sanzionato di illegittimità dalla Corte Costituzionale? Assurdo.
Fatto sta che dopo ulterori sei mesi, l'ennesima (pessima) riforma è stata compiuta, mentre i miseri 85 euro medi lordi pro capite che un governo in teoria alle corde è riuscito a Dicembre a far mettere nero su bianco ai sindacati non si sono ancora visti (è stata annunciata la loro messa a bilancio).
I decreti Madia (rimasta al suo posto nel governo fotocopia di Gentiloni) appena approvati ripropongono la logica liberista, mutuata al settore pubblico, del “jobs act”.
1) C'è una vera ossessione per l'aumento della produttività sotto minaccia di licenziamento, che vede incrementare i casi di applicabilità. Più il lavoro è ricattabile, meglio sarà. Ancora l'infondata persuasione che la determinante della produttività sia la disciplina e non invece fattori quali la dotazione di risorse, la formazione, l'organizzazione, la motivazione data dallo svolgimento di un servizio di pubblica utilità.
2) Della “riforma” non si salva praticamente nulla, tranne forse, la promessa di stabilizzazione di qualche precario (risorse finanziarie permettendo).
3) Non ci saranno più le dotazioni organiche; ci sarà il Piano triennale dei fabbisogni, con l'occhio rivolto, ovviamente, al contenimento della spesa pubblica (eterno scopo).
4) Si demanda a un un unico ente, l'Inps, il compito delle visite in caso di malattia. Era necessario? No, ma l'importante è tenere vivo il fuoco del pregiudizio nei confronti degli statali eternamente malati, perchè porta voti.
5) Aumenta il peso della valutazione dei dipendenti, che diventa strumento minaccioso anche sul piano disciplinare. Ribadisco quanto detto al primo punto. Naturalmente i “minacciati” (sia sul piano retributivo che disciplinare), nonché soggetti ai variabili sentimenti di simpatia secondo l'intensità dell'atto di fede prestato ai dirigenti che li valutano, sono i lavoratori dei livelli inferiori. Quelli di rango superiore, grazie anche alla vicinanza con gli organi politici che si occupano degli obiettivi da raggiungere (e sempre raggiunti), sono sempre tutelati sotto ogni aspetto (si vedano le belle inchieste su “L'Espresso”).
6) Gli aumenti (si fa per dire) saranno sempre più differenziati, secondo i criteri riportati nel contratto collettivo, che stabilirà anche le (magre) risorse “decentrate”. Torna a fare capolino la mai sopita, ma non perciò non ipocrita, retorica liberista del merito individuale.
Torno alla domanda iniziale: che spiegazione dare al fatto che è sempre il governo a menare le danze? Perchè vi sono sindacati che, fra pochi rilievi di facciata, accettano in sostanza tutto questo? Azzardo una malizia. Perchè credono nella politica dei sacrifici, nell'espiazione di una colpa che i lavoratori dovrebbero patire, il che vale a dire che credono il paese non cresca a causa dei presunti privilegi di chi vive di salario. Per semplificare: l'ideologia liberista ha scavato troppo a fondo. E anzichè risalire si continua a scavare.

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