La crisi è quel momento in cui il vecchio muore e il nuovo stenta a nascere. Antonio Gramsci

sabato 27 maggio 2017

I fantasmi dei populismi italiani nell’analisi di Marco Revelli

di Gianfranco Sabattini
Il populismo è il nuovo fantasma che si aggira per l’Europa; per Marco Revelli (“Populismo 2.0”), esso è “il ‘sintomo’ di un male più profondo, anche se troppo spesso taciuto, della democrazia: la manifestazione esterna di una malattia di quella forma contemporanea della democrazia […] che è la Democrazia rappresentativa”. Tale malattia aggredisce una parte del popolo, o tutto il popolo di un Paese, ogni qualvolta percepisce di “non essere più rappresentato nelle istituzioni politiche, dando origine ad una reazione cui si è dato il nome di populismo.
Esso può essere inteso come una “malattia infantile della democrazia”, quando la ristrettezza del suffragio non consentiva una piena democratizzazione delle vita sociale, e come “malattia senile della democrazia”, quando l’affievolimento delle istituzioni democratiche e la formazione di posizioni di potere di natura oligarchica rimandano ai margini il popolo. Nel primo caso – afferma Revelli – il populismo altro non è che una “rivolta degli esclusi”; nel secondo, una “rivolta degli inclusi messi ai margini”. In entrambi i casi, tuttavia, il populismo è un prodotto di un deficit di rappresentanza.
L’indeterminatezza e la grande varietà di significati rendono la parola populismo poco utilizzabile per capire gli orientamenti politici dei cittadini; ciò comporta la necessità che si ponga ordine alla varietà di significati, parlando “più che di ‘populismo’ al singolare di populismi al plurale”, in considerazione delle diverse esperienze che sottendono il termine, per distinguere, a parere di Revelli, i populismi che potrebbero essere chiamati “classici o tradizionali” e i populismi di nuova generazione dotati di caratteri inediti. A parere del politologo, la crisi della democrazia, che è crisi di legittimazione, deriva da una “marcata torsione oligarchica”, cui va imputato il fatto che la stessa democrazia diventasse “sempre meno rappresentativa e sempre più ‘esecutoria’”. Ciò ha determinato il crollo del tradizionale ordine politico, con lo ”sfarinamento del cosiddetto ‘mondo del lavoro’ frammentato in un caleidoscopio di figure e di identità professionali incomunicanti tra loro”, come effetto dello sgretolamento dei vecchi blocchi sociali che avevano caratterizzato l’organizzazione degli interessi individuali delle società industriali.
Tuttavia, il nuovo protagonista delle scena politica, il populismo, non è privo di storia: “La moltitudine liquida che oggi spaventa con i suoi spostamenti repentini se ne stava, fino a ieri, relativamente ordinata […] dentro solidi contenitori, politici e soprattutto elettorali […]. Essa è stata a lungo un fattore di stabilità delle cosiddette ‘democrazie occidentali’: pur nella dialettica delle culture politiche e degli interessi legittimi, ha condiviso a lungo un sostanziale consenso sul modello sociale prevalente. E ha contribuito, quantomeno con la sua passività, alla sua legittimazione”. Cosicché diventa inevitabile chiedersi perché tutto ciò è venuto meno.
La risposta, a parere di Revelli, può essere ricavata sol che si rifletta sullo stato attuale delle cose, sia sul piano politico, sia su quello sociale. Infatti, con riferimento all’esperienza del nostro Paese, con l’avvento della seconda Repubblica, quei solidi antichi contenitori, quali erano i partiti di massa, si sono progressivamente dissolti; inoltre, con la diffusione e il consolidamento dell’ideologia neoliberista vi è stata una profonda “trasformazione antropologica” delle masse, che è valsa a fagli interiorizzare il valore dell’individualismo a scapito di quello della solidarietà; infine, le élite politiche hanno subito una “mutazione culturale”, che ha affievolito la loro autonomia decisionale. Sulla base di queste considerazioni, diventa possibile capire perché il populismo non è un soggetto politico nuovo in senso proprio, ovvero l’equivalente di un partito politico con una propria identità, una propria organizzazione ed una propria cultura politica; si tratta, bensì, di un’entità molto indefinita sul piano organizzativo e scarsamente identificabile sulla base di specifiche istanze politiche rispetto agli antichi partiti, in quanto –afferma Revelli – “forma informe che assumono il disagio e i conati di protesta nelle società sfarinate e lavorate dalla globalizzazione e dalla finanza totale […] nell’epoca dell’assenza di voce e di organizzazione. Nel vuoto, cioè, prodotto dalla dissoluzione di quella che un tempo fu ‘la sinistra’ e la sua capacità di articolare la protesta in proposta di mutamento e di alternativa allo stato di cose presente”.
Sul piano teorico, il populismo è una categoria problematica, perché non si riesce a stabilire se esso sia un’ideologia, o una ricorrente forma emotiva di comportamento politico dei cittadini; oppure se esso sia riconducibile alla categoria del nazionalismo, o a quella del socialismo, o ancora se possa essere dotato di una qualche autonomia significativa. I primi tentativi di definirlo scientificamente – afferma Revelli – contenevano un gran numero di caratteristiche, che via via sono state selezionate, per essere alla fine ridotte principalmente a tre.
Il primo elemento, comune a tutti i populismi, è la “centralità assorbente […] che in essi assume il riferimento al popolo , inteso nella sia dimensione ‘calda’ di comunità vivente, quasi una sorta di comunità pre-poplitica e pre-civile, da ‘stato di natura russoviano”. Un’entità organica, priva di divisioni, fondata su una particolare concezione del conflitto politico. Questo non è espresso dalla “tradizionale dialettica ‘orizzontale’ tra le diverse culture politiche in cui si articola la cittadinanza, di cui la copia destra-sinistra è il più pregnante esempio”; ma dalla contrapposizione “verticale” del popolo, nella sua unità organica, con qualsiasi altra “entità” che pretenda di porsi illegittimamente al di sopra di esso, oppure al di sotto, prefigurando un’estraneità non giustificata e un atteggiamento di ostilità.
In altri termini, sostiene Revelli, la contrapposizione del conflitto politico proprio del populismo è caratterizzata, non più dalla logica orizzontale, tipica delle “Rivoluzione francese in cui i protagonisti del confronto […] stavano tutti sullo stesso piano d’uguaglianza, diversi per idee ma non per rango”, ma dalla logica verticale alto-basso, in cui “i protagonisti del conflitto appartengono a livelli differenti e, per certi versi, a mondi vitali opposti”.
Il secondo elemento comune ai populismi connota il conflitto, non in termini politici e sociali, ma soprattutto in termini etici, implicanti una contrapposizione tra “giusti” e “corrotti”; ciò significa che ad ogni forma di populismo corrisponde una “costruzione morale”, che comporta un’antitesi rispetto al “diverso”, rivelatrice dei valori costitutivi della comunità di riferimento, assunta dai singoli come conforto collettivo.
L’ultimo elemento caratterizzante i populismi evoca l’immagine della rimozione del corpo estraneo e la “restaurazione di una sovranità popolare finalmente riconosciuta, da esercitare non più attraverso la mediazione delle vecchie istituzioni rappresentative ma grazie all’azione di leader […] in grado di fare il ‘bene del popolo’”.
Sulla base dei tre elementi appena richiamati, era sembrato che, alla fine del Novecento, il populismo fosse espresso da una categoria ben definita e sistemata sul piano teorico; invece no, a giudizio di Revelli. L’inizio di questo secolo ha visto irrompere di nuovo la sfida populista, con nuove grandi fratture sul piano del contendere ed anche parole nuove. La critica populista post-novecentesca ha cessato di riguardare “singoli aspetti della vita politica e dell’assetto istituzionale”; ha riguardato invece la politica in quanto tale”, ovvero la sua “estraneità alla vita dei cittadini. La sua incapacità di leggere bisogni e sentimenti, e di rispondere alle loro domande esistenziali”. Le parole nuove con cui il populismo si è riproposto all’inizio del questo secolo sono state, da un lato, “antipolitica” e, dall’altro lato, “neopopulismo”.
Col primo termine (antipolitica), il populismo ha espresso le molteplici forme di protesta e di rivolta elettorale attraverso movimenti antagonistici, in contrapposizione con gli establishment politici consolidati; mentre col secondo (neopopulismo), i movimenti antagonisti “si sono generalmente dati identità politiche non mediabili e strutture completamente separate”, che per certi versi hanno riproposto la vecchia logica orizzontale di contrapposizione destra-sinistra. Secondo Revelli, infatti, la protesta è stata portata da versanti opposti del sistema politico, a “sinistra come a destra”. L’Italia, da questo punto di vista, non ha fatto eccezione, nel senso che la voce populismo ha subito “scostamenti lessicali” rispetto a quella ricorrente sino alla fine del Novecento.
Nell’esperienza italiana, il movimento neopopulista, “in stretta connessione con l’ondata neoliberista che ha caratterizzato il passaggio di secolo”, muovendo d’ambo i lati orizzontali dello schieramento politico tradizionale, ha teso ad organizzare la protesta contro le organizzazioni esistenti per destrutturarle e delegittimarle, al fine di scardinarle dalle loro posizioni consolidate e privilegiate. Questo intento del neopopulismo italiano – afferma Revelli – consente di collegare gli eventi italiani “connessi all’ascesa di Matteo Renzi al governo, alla sua retorica della ‘rottamazione’ e del Paese che ‘cambia verso’ oltre, naturalmente, allo stile con cui è stata lanciata e varata la riforma costituzionale”, per realizzare innovazioni pretese dai mercati, ma finendo per offrire un “neopopulismo dall’alto” che sembrerebbe aver trovato in Italia il “proprio luogo di elezione”.
Dal punto di vista delle diffusione e del consolidarsi dell’esperienza neopopulista, l’Italia costituisce però un’eccezione, in quanto presenta tre varianti, tre forme, che Revelli denomina sulla base dei “nomi dei loro ‘eroi eponimi’, berlusconismo, grillismo e renzismo”; tre fenomeni (chiamati dallo stesso politologo, rispettivamente, “telepopulismo berlusconiano”, “cyberpopulismo grillino”, “populismo dall’alto di Matteo Renzi”) che risultano tra loro “diversi per tempi di ‘emersione’ e di ‘egemonia’ oltre che per cultura politica […], ma accomunati da alcuni tratti non solo formali”. Le tre forme di populismo sono tutte caratterizzate dall’essere guidate da leader che hanno impresso ai loro movimenti una forte personalizzazione, uno stile di comunicazione basato su un rapporto diretto con il pubblico e tendenti a presentare se stessi “sotto il segno della rottura, della diversità e del nuovo inizio”
Sul piano sostanziale, il “telepopulismo berlusconiano” ha ridotto la tradizionale democrazia rappresentativa in “video-politica”; il suo leader ha gestito il rapporto col pubblico come “’un imbonitore’, che nel ‘celebrare la propria diversità’” si è rivolto al popolo, lusingandolo a suon di promesse, come le sue reti televisive gli hanno consentito, “non solo attraverso i segmenti del palinsesto dedicati alla cronaca o al dibattito politico”, ma anche attraverso i programmi d’intrattenimento somministrati al pubblico televisivo. Il “populismo berlusconino”, pur dando “corpo al vuoto” creatosi con la crisi della Prima Repubblica, a seguito della spinta dirompente della “questione giudiziaria”, non ha saputo evitare “la latente crisi di sistema che, sotto la spinta della globalizzazione” ha coinvolto, quasi vent’anni dopo, le democrazie economicamente avanzate dell’intero Occidente.
Il “ciberpopulismo grillino” è emerso dopo una nuova cesura subita dal sistema politico italiano con la caduta dell’ultimo governo di Berlusconi, seguita da una crisi extraparlamentare, per via della quale quasi tutti i partiti erano scomparsi perché sostituiti da un governo dei tecnici, che con le sue scelte si è reso responsabile di “politiche socialmente sanguinose”. Dopo una lunga notte della politica – afferma Revelli – è “ritornato alla luce il sistema politico italiano”, mutato strutturalmente, in quanto non più bipolare, ma tripolare, con la comparsa, dopo le elezioni politiche del 2013, di un terzo incomodo (il Movimento 5 Stelle di Grillo) tra i due poli ridimensionati di centro-sinistra e di centro-destra.
Questo nuovo movimento, sostituendo al medium televisivo (non interattivo) del “populismo berlusconiano”, il più interattivo “web” (rete informatica), scelto come “forma di espressione e di organizzazione” del sorgente “popolo della rete”, ha potuto affermarsi ulla base di un programma completamente diverso rispetto a quello degli altri poli politici; i suoi obiettivi, sottolinea Revelli, affermavano l’urgenza di ricuperare la democrazia partecipativa dei cittadini, di difendere uno stato sociale di tipo universalistico, di tutelare e valorizzare i beni comuni e/o pubblici, di introdurre il reddito di cittadinanza, di sostenere la priorità degli investimenti per la scuola e la sanità pubblica”, nonché di ridurre le differenze di reddito tra i cittadini. Da un altro lato, il “cyberpopulismo grillino” si è affermato per via del fatto che, a differenza degli altri mondi politici, ha sempre nutrito una profonda sfiducia nelle istituzioni, nazionali ed europee, in quanto considerate occupate da un establishment che, secondo il “cyber popolo” del movimento pentastellato, ha perso ogni capacità di garantire un futuro economico-sociale dotato di una qualche certezza.
E’ questa “la chiave del successo” del movimento “grillino”, difficile da scalfire nonostante errori e mancanza di esperienza del suo personale politico, e nonostante “una prova di sfondamento” che – a parere di Revelli – è stato tentato sul suo stesso terreno dal “populismo dall’alto di Matteo Renzi”. Perché dall’alto? Perché tentato attraverso un populismo ibrido, un “po’ di lotta e un po’ di governo”, dice Revelli, con una “base popolare, ed elettorale, costruita attraverso l’impiego di retoriche tipicamente populiste e comportamenti (tipicamente) trasgressivi in funzione delle legittimazione (‘in basso’) di politiche sostanzialmente conformi alle linee guida volute e dettate ‘in alto’”; ma anche con l’uso di apparati comunicativi utilizzati da Berlusconi e da Grillo per comunicare all’elettorato il proprio populismo anticasta, “messo in campo con la retorica delle ‘Rottamazione’ […], sfoderato contro i propri avversari di partito”. In altre parole , si è trattato di un populismo, la cui politica di governo ha soprattutto riguardato l’accoglimento e la soddisfazione delle richieste dell’establishment europeo, piuttosto che l’attuazione di un programma aperto alle più sentite urgenze popolari; una politica che ha sempre avuto, e che continua ad avere, il sostegno dei poteri forti nazionale e quello di gran parte della cosiddetta stampa d’opinione, sedicente progressista.
La “solenne bocciatura” uscita dalle urne il 4 dicembre scorso, con la quale gli italiani hanno respinto il tentativo di Renzi modificare la Costituzione repubblicana, è stata sancita da “una volontà popolare mossasi, in basso, in direzione ostinata e contraria” al populismo renziano. Il rifiuto della modifica costituzionale avrebbe dovuto far capire all’ex capo del governo che la sua proposta politica scontava un netto rigetto popolare e che, nell’attesa di condizioni migliori, gli italiani hanno scelto la conservazione dell’integrità della Carta come “una valida protezione sotto cui ripararsi.
Sennonché, alla luce del suo continuo agitarsi, l’ex capo del governo, contrariamente alle promesse fatte in caso di bocciatura della sua proposta di modifica costituzionale, sembra volersi riproporre con gli stessi intenti aggressivi che lo hanno contraddistinto negli anni di governo; eppure, per rendere il suo populismo più soft nei confronti delle esigenze popolari, basterebbe che Renzi promettesse di voler attuare una politica tendenzialmente più ridistribuiva, con la quale rimediare alle conseguenze “sanguinose” prodotte da tanti anni di austerità e di contenimento della spesa pubblica; in altre parole, egli dovrebbe, quantomeno, promettere l’attuazione di una politica blandamente riformista, ma che allo stato attuale è percepita “rivoluzionaria” dai poteri forti presenti nel Paese e dalla maggior parte della stampa benpensante. Perseverando, invece, nel modo di far politica così come ha fatto sino alle sue dimissioni, il Paese è condannato a conservarsi nell’incertezza chissà per quanti anni ancora.

Fonte: avantionline.it

Nessun commento:

Posta un commento

Nota. Solo i membri di questo blog possono postare un commento.