La crisi è quel momento in cui il vecchio muore e il nuovo stenta a nascere. Antonio Gramsci

giovedì 25 maggio 2017

L’Italia e le sue ferite nel rapporto annuale Istat 2017


di Lorenzo Cattani 
A partire dalla sua presentazione il 17 Maggio, il rapporto Istat ha catturato molte attenzioni. I dati emersi dal rapporto sono indiscutibilmente importanti, poiché restituiscono la fotografia di un’Italia in difficoltà: crescita delle diseguaglianze, il maggior numero di giovani Neet (giovani tra i 15 e 29 anni che non lavorano e non studiano) in Europa, deprivazione materiale in aumento, aumento dei lavoratori sovraistruiti, unitamente ad una crescita dell’occupazione a bassa qualifica, crisi dell’appartenenza sociale e apparente fine della classe operaia.
Sono solo alcuni dei dati che negli ultimi giorni sono circolati sui media e che sicuramente formeranno la base per un dibattito pubblico che, a parere di chi scrive, potrebbe scaldarsi ulteriormente nei prossimi tempi.
Elencare descrittivamente questi dati sarebbe pressoché inutile, chiunque può infatti consultare il documento originale sul sito dell’Istat; quello che si cercherà di fare in questa sede sarà provare a vedere questi dati alla luce di problemi e tematiche più generali. Nello specifico, è opinione di chi scrive che questo rapporto imponga una profonda riflessione sullo stato del capitalismo italiano, una riflessione che deve prendere in considerazione cosa debba essere abbandonato e cosa vada invece difeso.  Ad ogni modo, dal rapporto Istat 2017 emergono tanti elementi, da non leggere solo come buone o cattive notizie, ma che devono essere soppesati molto cautamente, ricordandosi che sfide e opportunità hanno molto spesso una natura ambivalente a seconda di come vengono accolte. È naturalmente impossibile riportarli tutti in un solo articolo, di conseguenza verranno segnalati i dati ritenuti più interessanti.

Istat 2017: produttività delle imprese

In un’intervista rilasciata a Pandora qualche mese fa (intervista-giuseppe-berta), Giuseppe Berta affermava che il nucleo dell’industria italiana fosse composto soprattutto dalle medie imprese esportatrici del Centro-Nord. Per Berta la grande industria avrebbe ormai fatto il suo tempo in Italia, ma nonostante l’ottima performance, le PMI non sono riuscite a guidare lo sviluppo economico italiano. Secondo lo storico servirebbero nuove condizioni per far ripartire l’economia italiana, fra cui il lancio di un nuovo gruppo di grandi imprese, nei cui confronti si mantiene comunque scettico poiché il contesto italiano non darebbe incentivi al consolidamento di questi attori.
Questo è sicuramente un importante interrogativo: qual è il nucleo imprenditoriale su cui l’Italia deve puntare? Bisogna dire addio alla grande industria manifatturiera, al triangolo Genova-Milano-Torino, e abbracciare definitivamente il modello Nec, formato dalle PMI del Nord-Est e del Centro Italia? Oppure bisogna puntare su altre soluzioni? Il rapporto Istat 2017 fornisce dati interessanti al riguardo. Il rapporto dedica una parte del primo capitolo alla misurazione della Total Factor Productivity (Tpf), partendo dall’ipotesi per cui, riprendendo Krugman, “la produttività non è tutto, ma nel lungo periodo è quasi tutto”. L’analisi della Tpf tiene conto della produttività del lavoro, del capitale e anche della capacità di innovazione e di gestione aziendale, che “portano a produrre di più a parità di risorse impiegate”. Il rapporto scompone la Tpf in più componenti, il cui andamento influenza la dinamica aggregata: l’efficienza tecnica e il cambiamento tecnologico. L’efficienza tecnica indica “la capacità delle unità produttive di generare valore aggiunto data la propria dotazione di fattori di produzione”. È sostanzialmente la componente legata alle strategie imprenditoriali e può essere a sua volta scomposta in tre fattori:
  1. Dinamica dell’efficienza delle imprese persistenti. È l’effetto non ponderato legato alla variazione dell’efficienza delle singole unità produttive presenti in tutto il periodo di osservazione.
  2. Effetto allocativo. Misura l’entità con cui la forza lavoro viene allocata nelle imprese caratterizzate da buone performance.
  3. Effetto demografico. È la differenza fra gli andamenti dell’efficienza delle imprese che entrano nel mercato e di quelle che ne escono.
Il cambiamento tecnologico è invece l’evoluzione della tecnologia produttiva ed è stato calcolato come residuo fra la dinamica della Tfp e dell’efficienza tecnica. Relativamente alla dimensione dell’impresa[1] si osserva una dinamica della Tfp debolmente positiva per le microimprese (+ 0,9%), che però è più forte per le piccole e medie unità produttive (rispettivamente +4,4% e +5%), mentre per le grandi imprese ha conosciuto un calo lieve (-0,7%). Tuttavia, osservando la Tfp tramite le sue componenti microeconomiche emergono delle tendenze molto interessanti: si nota soprattutto che il cambiamento tecnologico è quello che ha maggiormente contribuito nel sostenere la Tfp per le unità produttive piccole e medie (+7,3% e +10,3%), mentre ha fornito un contributo negativo per le micro ma soprattutto per le grandi imprese, registrando un calo del 6,9%. Tuttavia, per come è stato calcolato, un dato simile sul cambiamento tecnologico implica che le grandi imprese devono aver mostrato buoni risultati per quanto riguarda l’efficienza tecnica e, in effetti, così è stato. L’efficienza tecnica mostra risultati positivi per microimprese e grandi imprese, per le quali registra un aumento del 6,6%, mentre per quanto riguarda le PMI registra valori negativi, più contenuti per le piccole imprese e più intensi per le medie.
In sintesi, le grandi imprese sono state più brave nel produrre valore aggiunto, data la propria dotazione di fattori, superando nettamente tutte le altre. Al buon dato dell’efficienza tecnica si accosta però un dato negativo di simile entità per quanto riguarda il progresso tecnologico, dove invece dominano le piccole e medie imprese, con le seconde a fare la parte del leone. Per cercare di dare un quadro ancora più preciso, il rapporto mostra le tre componenti dell’efficienza tecnica. Si nota quindi che l’efficienza delle imprese persistenti aumenta con la dimensione aziendale, mentre l’effetto allocativo segue un percorso inverso. Il rapporto commenta questi risultati affermando che per le PMI sia più difficile definire strategie produttive che consentano guadagni di efficienza. Per quanto riguarda l’effetto allocativo è maggiore nelle classi dimensionali inferiori per via della maggiore flessibilità strutturale che consente una migliore riallocazione delle risorse, cosa che invece non avviene nelle grandi imprese.
Come interpretare tutto ciò? Sicuramente il problema dell’imprenditorialità delle PMI, evidenziato da Berta, è presente e parrebbe confermare che le PMI, nonostante l’ottima performance soprattutto delle medie imprese, facciano fatica a guidare l’economia italiana. Allo stesso tempo però, sembra affrettato affermare che la grande impresa, e la grande industria, siano necessariamente destinate a finire. Una politica industriale lungimirante dovrebbe porsi il problema di come “estendere” il progresso tecnologico alle grandi imprese, stimolando allo stesso tempo un certo grado di flessibilità che garantisca una migliore allocazione della forza lavoro (un’ipotesi potrebbe essere quella di ripensare la flessibilità in termini di competenze). Allo stesso tempo è fondamentale risolvere il problema del deficit di imprenditorialità delle PMI, che rappresenta un importante ostacolo all’innovazione. Sarebbe quindi sbagliato guardare a questi dati come una realtà preoccupante, ma è certamente vero che per trarre vantaggio da questa realtà sarà fondamentale che la politica formuli importanti proposte capaci di liberare il potenziale innovativo delle imprese.

Istat 2017: è scomparsa la classe operaia?

Questo è sicuramente stato il tema più discusso negli ultimi giorni. L’Istat ha infatti “ricostruito” le classi sociali italiane, raggruppandole in nove gruppi nuovi: i giovani blue-collar, le famiglie degli operai in pensione (famiglie a reddito medio), le famiglie a basso reddito con stranieri, le famiglie a basso reddito di soli italiani, le famiglie tradizionali della provincia, le anziane sole e i giovani disoccupati (famiglie a reddito basso), le famiglie di impiegati, i pensionati d’argento e la classe dirigente (famiglie benestanti). L’idea alla base di questa classificazione è che le diseguaglianze, che nel corso degli ultimi 50 anni non hanno cessato di crescere, avrebbero generato una frammentazione tale per cui la società non si riconoscerebbe più sulla base di un’identità in termini di valori e portato sociale. Questa crisi sociale sarebbe più forte soprattutto fra il ceto medio, che adesso sarebbe composto dalle famiglie di impiegati, di operai in pensione e famiglie tradizionali della provincia, e la classe operaia, divisa per la metà fra giovani blue-collar e famiglie a basso reddito di italiani o stranieri. Su diversi giornali si è parlato soprattutto di una fine della classe operaia, quasi accettando come fatto compiuto la frammentazione, e conseguente scomparsa, di questo gruppo.
Questa è un’altra domanda importantissima che la politica deve porsi sul futuro dell’economia italiana: la classe operaia ha cessato di essere un attore centrale del capitalismo italiano? Questa domanda pone un dubbio enorme per il modello economico italiano, cioè quali debbano essere le unità lavorative di riferimento per il futuro. Su quali basi dovrebbe poggiare un ipotetico discorso sul rilancio dell’economia italiana? Non è una domanda banale e abbozzare una risposta non è possibile in questa sede, ma è possibile ragionare in termini intuitivi sui dati rilevati dal rapporto Istat. La classe operaia si sarebbe quindi “spezzata”, dirigendosi verso tre gruppi: giovani blue-collar, famiglie a basso reddito con stranieri e di soli italiani, un primo passo potrebbe essere quello di chiedersi quanti siano: dai dati Istat, in questi tre gruppi rientrano 19,2 milioni di individui, pari a 6,6 milioni di famiglie, ovvero il 31,6% della popolazione italiana. Naturalmente non saranno tutti operai, ma questi numeri dovrebbero quantomeno suggerire una forte cautela prima di affermare la fine della classe operaia. Ciò che emerge è una forte differenza in termini settoriali: in un’intervista rilasciata il 18 Maggio, Berta sostiene proprio che vada fatto un discorso diverso per gli operai che lavorano nella logistica e nei magazzini, che per il docente formano un esercito di “invisibili”, privi di tutele, protezioni e rappresentanza. Berta ricorda come a Mirafiori lavorassero 50mila operai, che formavano un gruppo facilmente riconoscibile, mentre invece questi “operai 2.0”, sono dei neo-sfruttati e non si vedono. Ed effettivamente quest’immagine appare confermata dai dati Istat: i giovani blue-collar in effetti hanno un reddito sostanzialmente in linea con la media nazionale e trovano lavoro prevalentemente nell’industria, impegnati in attività manifatturiere ed estrattive, o nel settore dell’energia, gas e acqua e costruzioni. Negli altri due gruppi, nonostante la maggioranza relativa lavori nell’industria manifatturiera, si nota un’incidenza non trascurabile dei servizi privati alle famiglie, il commercio, i trasporti e il magazzinaggio. Le famiglie a basso reddito sono caratterizzata da occupazioni perlopiù non qualificate, un tipo di occupazione che è cresciuta in Italia, e, cosa che ancora più importante, per le famiglie a basso reddito con stranieri si nota un forte problema di matching fra domanda e offerta di lavoro, tenuto conto che l’incidenza di titoli secondari e post-secondari mette questo gruppo alle spalle di quello delle famiglie benestanti.
Anche in questo caso, non solo è consigliabile la via della prudenza ma è anche chiaro come i dati Istat facciano sorgere un problema enorme, a cui la politica dovrà dare una risposta prima che sia troppo tardi: integrare il settore dei servizi all’interno di quella che è storicamente stata la strategia di produzione italiana del settore manifatturiero. Come ricorda Berta, le classiche tute blu “chine sulla catena di montaggio” non esistono da molto tempo, la specializzazione è un elemento chiave, che inevitabilmente impatterà sui diversi settori di competenza. Probabilmente la classe operaia non sarà più come in passato, ma per le caratteristiche del capitalismo italiano, dove l’investimento specifico da parte delle imprese sulle competenze dei lavoratori, riesce difficile pensare che il futuro che si apre davanti a noi sarà un futuro senza operai, anche considerando l’incombente quarta rivoluzione industriale (l’Italia ne ha conosciute tre, come il resto del mondo, e gli operai hanno continuato a svolgere un ruolo importante). Tuttavia, il pregio della “ricostruzione sociale” effettuata dall’Istat è quello di riconoscere i nuovi gruppi più esposti al rischio sociale, nei cui confronti dovrà concentrarsi, e sulle cui basi dovrà essere ricostruito, il Welfare State. Nella formazione di questi gruppi sociali nuovi hanno infatti concorso non solo la posizione professionali ma anche altre caratteristiche della società di oggi: giovani sovraqualificati, stranieri di seconda generazione, stranieri con background formativo non riconosciuto in Italia e soprattutto giovani disoccupati o atipici (che lavorano con contratti a termine o di collaborazione) che frena la crescita demografica (con serie ricadute sulle disuguaglianze) e sociale del Paese. La parte finale dell’articolo sarà infatti dedicata a due temi su cui dovrà concentrarsi una forte azione in termini di politiche sociali e redistributive: la condizione delle donne e l’ereditarietà del livello d’istruzione.

Istat 2017: condizione femminile

Nonostante abbia conosciuto un miglioramento significativo negli ultimi anni, la condizione della donna e il divario di genere continua ad essere un tema fondamentale, che dovrà essere messo al centro dell’azione pubblica. La partecipazione femminile al mercato del lavoro è infatti ancora più bassa di quella maschile (il 48,1% contro il 66,5%), tuttavia le donne lavorano più degli uomini: considerando infatti sia il lavoro retribuito che il lavoro familiare e di cura, un uomo lavora mediamente 39 ore e mezza alla settimana, mentre una donna lavora una media di 46 ore e 52 minuti settimanali. Questi valori aumentano se si prendono in considerazione gli occupati (51 ore e 49 minuti per gli uomini contro 57 ore e 59 minuti per le donne), ma la cosa interessante è che una donna non occupata lavora solo due ore in meno rispetto ad un uomo occupato, a testimonianza del grande contributo delle casalinghe al benessere familiare. Oltre a questi dati si deve prendere in considerazione anche il fatto che gli ostacoli all’accesso e alla permanenza nel mercato del lavoro sono maggiori per le madri: fra le donne di età compresa fra i 25 e i 49 anni, l’occupazione è infatti significativamente più bassa per le madri, con l’eccezione delle madri sole per cui il tasso di occupazione supera il 60%.
Questa è una fotografia molto generale, perché la condizione femminile è un problema che non si palesa solo in maniera trasversale tramite il divario di genere, ma assume dimensioni differenti anche lungo l’asse socioeconomico e geografico. È questo un elemento che la politica non può permettersi di ignorare, che è un altro tema ritenuto fondamentale da chi scrive: la riconciliazione vita-lavoro non può avvenire in maniera indiscriminata, ma deve agire anche sul livellamento delle disuguaglianze socio-economiche e sul riavvicinamento culturale fra Nord e Sud.
Ad una prima disaggregazione dei dati, si nota subito come il possesso di un titolo di studio elevato favorisca l’occupazione femminile, tuttavia questo dato va letto anche in virtù dell’appartenenza al gruppo sociale: per le donne delle classi più abbienti il titolo di studio, unitamente al reddito più elevato, non garantisce solo un’occupazione stabile ma fornisce protezione nel mantenere l’impiego quando le donne diventano madri. A sostegno di questi dati vi è anche il fatto che il sovraccarico di lavoro maggiore si registra nei gruppi a reddito più basso: nelle famiglie a basso reddito con stranieri le donne tendono infatti a lavorare più di 60 ore a settimana tra lavoro retribuito e familiare. Conciliare vita e lavoro risulta però difficile anche per le famiglie di impiegati con un numero di donne sovraccariche al di sopra della media, mentre il sovraccarico delle donne del gruppo giovani blue-collar si colloca sulla media nazionale. Questo dato registra i valori più bassi per la classe dirigente, poiché vi è un maggior ricorso ai servizi privati per le famiglie, affidandosi all’aiuto di colf o baby-sitter ad esempio.
A questo dato, di natura socio-economica, se ne aggiunge un altro di natura geografica, inerente al divario geografico fra il Centro-Nord e il Sud. Nel Mezzogiorno infatti la partecipazione femminile scende al 31,7%, contro il 58,2% del Centro-Nord, ma soprattutto al Sud vi è un’importante quota di donne che non hanno mai lavorato, pari al 33,5% delle donne fra i 50 e 64 anni. In generale, al Sud si è mantenuto molto forte lo stereotipo del male breadwinner, letteralmente l’uomo che porta a casa la pagnotta, figura di riferimento dei Welfare State mediterraneo e dell’Europa continentale sorti dopo il secondo conflitto mondiale. A questa figura fa capo una divisione tradizionali dei ruoli familiari, con l’uomo che si concentra sul lavoro retribuito e la donna che invece si occupa dei compiti casalinghi. Partendo dal fatto che il modello del breadwinner è difficilmente sostenibile, in Italia il 45,1% delle donne e il 53,4% degli uomini è abbastanza o molto d’accordo con l’affermazione per cui sia meglio per la famiglia che l’uomo si dedichi alle attività economiche e la donna alla cura della casa. Al Mezzogiorno questi valori balzano al 52,8% per le donne e al 61,8% per gli uomini e aumentano anche, a livello nazionale, per chi ha un titolo di studio più basso, a conferma della duplice natura, socio-economica e geografica, della condizione femminile in Italia.
Fare passi in avanti sul divario di genere vuol dire fare altrettanti passi avanti per la riduzione delle disuguaglianze, motivo per cui l’agenda pubblica deve aumentare i suoi sforzi per conciliare vita e lavoro. Una soluzione ipotetica, riprendendo Ferrera, potrebbe essere quella di investire pesantemente, a livello locale, sugli asili nido pubblici, ma in generale è fondamentale pensare a investimenti sulla early education and care, come pre-scuola e doposcuola. È naturalmente fondamentale che i servizi per l’infanzia siano soprattutto pubblici: il rapporto ha già rilevato che la conciliazione è più facile per le donne della classe dirigente, di conseguenza una rete locale molto fitta di servizi per l’infanzia pubblici potrebbe agire anche a livello socio-economico e geografico. Bisognerebbe ripensare anche i trasferimenti sotto forma di assegni familiari, i quali sono forse più adatti per le famiglie meno abbienti e vanno visti come una politica per facilitare le nascite più che come strumento per il miglioramento della condizione femminile. Discorso diverso invece per le madri sole, per cui un assegno calcolato sulla base del lavoro familiare svolto potrebbe essere una soluzione interessante.

Istat 2017: ereditarietà del livello d’istruzione

La diffusione delle conoscenze è il principale motore di riduzione delle disuguaglianze, nonché importante strumento per la mobilità sociale, l’uguaglianza all’interno del sistema educativo è quindi un nodo cruciale da sciogliere per poter costruire una società realmente dinamica. I dati Istat confermano che per l’Italia c’è ancora molta strada da fare: il reddito e il titolo di studio dei genitori condizionano fortemente le scelte fatte dai figli sugli indirizzi di istruzione secondaria, di iscrizione all’università e influenzano anche la possibilità di completare gli studi. Da questi dati il rapporto Istat arriva ad affermare che l’uguaglianza di opportunità viene garantita solo per la scuola dell’obbligo, tenendo però conto che i tassi di abbandono sono fortemente correlati col titolo di studio dei genitori anche per l’obbligo scolastico.
Il primo dato fondamentale su cui infatti parte il rapporto è proprio la parziale sovrapposizione fra la scelta dell’indirizzo secondario decisa dagli studenti rispetto al titolo di studio dei genitori. Chi ha almeno un genitore che ha frequentato il liceo ha infatti una probabilità di tre volte superiore alla media di iscriversi al liceo, mentre chi ha i genitori con al più la terza media vede questo dato ridursi a meno della metà della media nazionale. Questa realtà assume un’importanza molto rilevante quando si prende in considerazione che solo il 6,1% degli studenti diplomati in un istituto diverso dal liceo era ancora impegnato negli studi a 4 anni dal conseguimento del diploma, contro il 53,4% dei diplomati al liceo. Nelle famiglie dove la persona di riferimento ha invece un titolo superiore alla licenza media, il rapporto fra diplomati dei licei e degli istituti professionali è superiore di otto volte alla media nazionale per la classe dirigente, di tre nelle pensioni d’argento e di quasi due nelle famiglie di impiegati. Questo rapporto scende, accostandosi al 40-60% della media quando si prendono in esame i giovani blue-collar e le famiglie a basso reddito, valore inferiore anche alle famiglie degli operai in pensione e delle famiglie tradizionali della provincia. Il titolo di studio tende quindi ad essere trasmesso in maniera quasi ereditaria, poiché il 60% dei figli dei laureati ha ottenuto a sua volta una laurea, a fronte di solo un 10% dei figli di chi non va oltre la licenza media. Il rapporto cattura anche un’ereditarietà professionale che coinvolge soprattutto i laureati in giurisprudenza e architettura, per cui avviene una “staffetta generazionale” per le professioni di avvocato e architetto. Ciò che però preoccupa maggiormente è che fra i giovani di 25-34 anni con diploma, la quota di coloro che sono ancora impegnati nel sistema educativo è del 7% per chi ha genitori con al più la licenza media e del 37% per i figli dei laureati.
Al fine di scongiurare una società ingessata, dove i differenti gruppi risultano divisi come fossero compartimenti stagni, sarà fondamentale che la politica prenda in seria considerazione il tema dell’equità nella scuola. Nonostante la riforma del 3+2 abbia aumentato le iscrizioni all’università (l’Italia è comunque al di sotto della media OCSE per numero di laureati), è cruciale scongiurare un aumento selettivo, per questo sarà quindi fondamentale lavorare sul lato dell’università, investendo sulle strutture piuttosto che fare discorsi relativi al numero chiuso, ma allo stesso tempo bisogna scongiurare la formazione di un’istruzione secondaria “di serie A” e una “di serie B”, investendo sia sulla didattica che cercando di uniformare il profilo degli studenti. In tutto ciò appare fondamentale garantire un uguale accesso anche a circuiti formativi post-universitari e di ricerca, assicurandosi che le circostanze familiari non influenzino il merito, motivo per cui potrebbe essere consigliabile investire ulteriormente sulle borse di studio. Un ultimo avviso, non avendo di commentare il dato che però viene preso in esame dal rapporto, è quello sui lavoratori sovraistruiti: garantire un corretto matching tra domanda e offerta di lavoro, provando a garantire lavori in linea con la formazione degli individui sarà una sfida fondamentale.

Bibliografia
Berta, G. (2016), Che fine ha fatto il capitalismo italiano?, Il Mulino, Bologna.
Buonfiglioli, F., Dati Istat, la fotografia di un Paese congelato dalla crisi, Lettera 43 18/05/2017.
Esping-Andersen, G. (1990), Three Worlds of Welfare Capitalism, Cambridge, Polity Press.
Estevez-Abe, M. Iversen, T. Soskice, D. (2001), Social Protection and the Formation of Skills: A Reinterpretation of the Welfare State, in: Peter Hall e David Soskice (a cura di), Varieties of Capitalism: The Institutional Foundations of Comparative Advantage, Oxford University Press pp 145-83.
Ferrera, M. (1996), The’Southern model’of welfare in social Europe, in Journal of European Social Policy, 6(1), pp 17-37.
  • (2016), Rotta di Collisione: euro contro welfare?, Laterza, Roma-Bari.
OECD, Education at a Glance 2016.
Piketty, T. (2013), Il Capitale nel XXI secolo, Bompiani, Milano.
Sabella, M. Rapporto annuale dell’Istat: «Ecco i nuovi 9 gruppi sociali dominanti», Il Corriere della Sera 17/05/2017.
Thelen, K. (2014) Varieties of Liberalization and the New Politics of Social Solidarity, New York: Cambridge University Press.
[1] La Tfp è stata anche calcolata relativamente alla tipologia di beni prodotti, registrando un aumento del 7% per i beni intermedi, del 4,5% per i beni di consumo, del 2,9% per commercio, trasporti e pubblici esercizi, dello 0,8% per le costruzioni, mentre ha registrato un calo dello 0,4% per i servizi alle imprese e del 1% per i beni d’investimento.
Fonte: pandorarivista.it 

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