La crisi è quel momento in cui il vecchio muore e il nuovo stenta a nascere. Antonio Gramsci

mercoledì 14 giugno 2017

America Latina dallo spioncino. Operazione Venezuela?

di JM Arrugaeta
L’alto livello di violenza e l’obiettivo dichiarato dell’opposizione venezuelana di rovesciare il Governo attraverso un calcolato aumento dello scontro sociale e l’uso di metodi violenti, che in qualunque altro paese sarebbero etichettati come “terrorismo urbano”, hanno portato questo paese al centro dell’attenzione nella regione. Il Governo di Nicolas Maduro ha convocato un’assemblea costituente, meccanismo contemplato dalla Costituzione, che non sembra però destinato a segnare un punto e a capo in questo scontro.
Bisogna chiedersi, prima di analizzare i gravi fatti che stanno accadendo in questo paese sudamericano, se obbediscono ad una “Operazione” di aggressione e rovesciamento con sede principale a Washington, della quale ci sono abbondanti e drammatici precedenti nella regione.
Numerosi indizi e similitudini sembrano segnalare in questa direzione, la sinistra del subcontinente si dice convinta della teoria della “cospirazione” e mostra a sostegno di tale tesi una vasta documentazione su finanziamenti e appoggio di vario tipo provenienti dall’estero, che comprendono non solamente istituzioni statunitensi.
Anche se la risposta definitiva appare difficile da dimostrare, è necessario mantenere questo interrogativo e il sospetto ragionevole, perché senza dubbio questi condizionano il modo di guardare e giudicare l’attualità in Venezuela.
Precedenti vicini di una crisi
La scomparsa del Comandante Hugo Chávez sembra essere un punto di partenza necessario per comprendere fatti e dinamiche. Senza entrare nell’analisi dell’importanza dei leader in qualunque contesto, la cosa certa è che la sua “assenza” è più che pesante ed è da questa assenza che la destra venezuelana e i suoi sostenitori esterni, è partita per cercare di recuperare il potere politico e amministrativo che ha perso democraticamente oltre quindici anni fa, di fronte alla spinta costante di una Rivoluzione bolivariana che ha contato con un ampio appoggio sociale ed elettorale.
La morte del Comandante Chávez, che ha coinciso con una svalutazione costante dei prezzi degli idrocarburi, prodotto di esportazione principale, aggiunta alle contraddizioni e indebolimento normale in qualunque processo di trasformazione, hanno portato alla crisi attuale. Una crisi che ha messo in evidenza le debolezze della Rivoluzione bolivariana: continuità di un modello economico basato sull’estrazione e esportazione del petrolio e dei minerali; politiche sociali basate esclusivamente sulla distribuzione di parte della rendita petrolifera attraverso lo Stato; assenza di cambiamenti sostanziali in ciò che riguarda il dominio dell’economia interna e le importazioni da parte della grande borghesia venezuelana (che ottiene le sue risorse in dollari attraverso i fondi assegnati dal proprio Governo); spazi di corruzione ed un indebolimento crescente della sua base sociale che si è riflessa in campo elettorale.
Le due facce dell’opposizione politica e un Governo erratico
Nonostante la vittoria nelle ultime elezioni legislative l’opposizione venezuelana continua a violare con ogni mezzo necessario la legalità cercando così di arrivare ad elezioni presidenziali anticipate o al rovesciamento dell’attuale mandatario attraverso azioni dirette. Se da un lato i gruppi integranti della MUD (Mesa de la Unidad Democratica, Tavolo dell’Unità Democratica) presentano i loro reclami come l’esercizio di un diritto legittimo, pacifico e democratico, allo stesso tempo fomentano una pericolosa tattica di estrema violenza di strada che, como mostrano le immagini, è perfettamente organizzata. In questo contesto è necessario sottolineare il ruolo importante che stanno giocando i grandi gruppi mediatici internazionali che presentano una visione parziale e deformata volta a creare una matrice d’opinione prefissata che confermi che in Venezuela c’è una “dittatura”.
Una dinamica di pericolosa frattura sociale che finora ha causato oltre 55 morti da entrambe le parti, 1200 feriti e ingenti danni materiali.
Da parte sua, il Governo, mantiene posizioni erratiche: utilizza un linguaggio forte e a tratti minaccioso nelle sue dichiarazioni mentre appare poco coerente nelle sue azioni e in questo senso come esempio si può constatare come, di fronte alla gravità della mancanza di alimenti e medicine, le autorità non adottino misure di fondo e strutturali, cercando di non condizionare il tradizionale “monopolio importatore” perpetrato proprio dalla grande borghesia che appoggia l’opposizione. O ancora lo schizofrenico atteggiamento dell’esecutivo che da una parte accetta immediatamente l’inspiegabile decisione del massimo potere giudiziario di dissolvere l’assemblea legislativa a tutti gli effetti conferendo i suoi poteri al Presidente per poi, il giorno dopo, rettificare, per bocca dello stesso Presidente Maduro, e chiedere al tribunale di rivedere tale decisione.
La costituente e l’intromissione straniera
La direzione del movimento chavista ha proposto, come soluzione all’attuale situazione, la convocazione di una Assemblea Costituente con il fine chiaro di promuovere un ampio dialogo sociale, che superi i partiti, istituzioni e gruppi politici che dovrebbero, teoricamente, tradurre il consenso che si raggiunga in un nuovo testo costituzionale. Rimane però l’interrogativo se davvero il rischioso passo annunciato dal Presidente, già convocato dal Potere elettorale, riuscirà a segnare un punto e a capo nell’attuale scontro, visto che per il momento la maggioranza dell’opposizione ha respinto l’iniziativa e continua impegnata a spingere per elezioni presidenziali anticipate.
Chiudere provvisoriamente questo sguardo all’attualità venezuelana obbliga a far riferimento all’attivo intervento straniero. Basti iniziare dalle azioni insolitamente ingerentiste del Segretario dell’Organizzazione di Stati Americani (OEA), Luis Almagro, che sembrano la riedizione di tristi pratiche viste nei primi anni della Rivoluzione cubana, quando questa organizzazione fu denominata come Ministero di colonie degli Stati Uniti.
Un’offensiva diplomatica e internazionale appoggiata da importanti governi del continente come quelli di Brasile, Messico e Argentina, oltre che dal governo degli USA, ovviamente, e da fuori della regione dalla Spagna sempre impegnata a recuperare antiche influenze coloniali, il che ha portato il Governo venezuelano ad annunciare la sua uscita dalla OEA.
Un’azione diretta internazionale che si giustifica, come solitamente accade in questi casi, “a favore della democrazia e dei diritti umani”, accompagnata dalla corrispondente artiglieria pesante mediatica che sembra alla ricerca di un possibile “intervento umanitario”.
Dati e notizie allarmanti che ci indicano chiaramente l’importanza strategica di quello che la regione si sta giocando in Venezuela, e che ci ritornano la domanda iniziale sulla possibile esistenza di una “Operazione Venezuela” in marcia.
Brasile, Messico e il caso ecuatoriano
Numerosi analisti stanno commentando un cambio di tendenza nella correlazione di forze delle regioni dopo la preminenza del gruppo di governi “progressisti e/o nazionalisti” per oltre quindici anni. Un breve ripasso alle politiche implementate dal Governo di Mauricio Macri in Argentina ci piò dare un’idea approssimativa di quali siano gli interessi economici che si muovono dopo i numerosi eventi politici. In appena un anno di gestione, il Presidente argentino, Maurizio Macri, ha abbassato al massimo le tasse alle rendite più alte e ai grandi gruppi esportatori. Nel contempo aumentavano esponenzialmente le tasse indirette, la disoccupazione, accompagnata dall’aumento nell’indice di povertà ed emarginazione sociale, la privatizzazione di imprese pubbliche, l’accordo di pagamento ai cosiddetti fondi avvoltoio e il vertiginoso aumento del debito pubblico… Tutte conseguenze legate direttamente all’applicazione inflessibile di ricette neoliberali.
Lo stesso si potrebbe dire dell’espediente economico del Brasile, fin dal rovesciamento “legale” della presidente Dilma Rousseff, con una aggiunta, nel caso di questo importante membro dei BRICS: la rivelazioni di numerosi casi di corruzione che hanno finito con il colpire non solo l’apparato politico istituzionale ma anche lo stesso Presidente non eletto per voto popolare, Michel Temer, che sembra ormai tenere i giorni contati.
Le notizie che arrivano dal Brasile parlano chiaramente di una profonda crisi di governabilità e sfiducia sociale che sembrano spingere verso la convocazione di elezioni presidenziali dirette a breve. E in questo scenario, con i principali settori politici tradizionali sotto sospetto, riappare come candidato con possibilità molto concrete, la figura dell’ex presidente Lula da Silva. Non è da scartare comunque, vista la dimensione degli scandali di corruzione, che “compiano in scena” figure politiche e movimenti non tradizionali che provengono per esempio dalle chiese evangeliche che hanno una forte presenza in zone del paese e che già governano diversi territori ed alcune città importanti.
Se viaggiamo in Ecuador, i risultati del secondo turno elettorale hanno dato la vittoria netta al candidato di Alianza Pais, e per questo Lenin Moreno appare come il continuatore delle politiche dell’ex presidente Raffael Correa. Un’elezione che entra nel dibattito sulla correlazione di forze a favore della destra più neo-liberale e pro-nordamericana nella regione.
Minacce alla pace in Colombia
Dopo la firma degli Accordi di Pace tra il Governo e le FARC-EP, lo scorso novembre, l’implementazione degli stessi è stata segnata da ritardi e carenze da parte del governo. Le autorità per esempio hanno completato appena il 10% delle strutture delle Zone Transitorie dove sono concentrati i guerriglieri, una situazione che ha spinto le due parti a spostare la data della consegna delle armi al 20 giugno, anziché a fine maggio come inizialmente previsto.
Non si ferma la forte attività paramilitare che nei primi sei mesi del 2017 ha già fatto oltre 44 vittime, tra cui 3 militanti delle FARC. Crimini e attacchi alla pace che accadono in una atmosfera di impunità vista l’inattività delle autorità. Un altro segnale di pericolo è quello rappresentato dalla decisione della Corte Costituzionale che ha autorizzato la possibilità che il parlamento modifichi gli accordi già firmati tra le parti e che, incluso, quanto accordato possa essere annullato o riscritto da futuri parlamenti.
E’ evidente, per quanto detto, che i detrattori della pace negoziata continuano a tenere una forza ed una influenza. Sostenuti e capeggiati dall’ex presidente Alvaro Uribe, quando si avvicinano le elezioni presidenziali (previste nel 2018) che danno buone possibilità proprio alla destra.
Di fronte a questo allarmante panorama gli atteggiamenti delle FARC-EP e dell’ELN si possono definire differenti, d’accordo alle loro posizioni e dichiarazioni. Da una parte le FARC-EP sembrano impegnate a conseguire la più ampia implementazione degli accordi nel minor tempo possibile, cercando una posizione politica solida e raggiungere così una linea del “non ritorno” che impedisca il retrocesso o la rinegoziazione di quanto già accordato. D’altra parte l’ELN dimostra non aver troppa fretta nel raggiungere accordi a breve termine, evitando così impegni, di fronte alla minaccia reale del ritorno alla casa presidenziale di un candidato della destra uribista.

Fonte: dirittiglobali.it

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