La crisi è quel momento in cui il vecchio muore e il nuovo stenta a nascere. Antonio Gramsci

martedì 13 giugno 2017

Cosa possiamo dedurre dal rapporto Censis, e cosa no

di Lorenzo Paglione
Partiamo da un numero: 12 milioni. Sono, secondo l’edizione 2017 del rapporto Censis-RBM Assicurazione Salute, le persone che in Italia hanno dovuto rinunciare, o rinviare prestazioni sanitarie, con un aumento di 1,2 milioni rispetto all’anno scorso. Si tratta chiaramente di un numero spaventoso (stiamo parlando di circa il 20% della popolazione italiana), soprattutto per un paese con un Servizio Sanitario Nazionale che, almeno nelle intenzioni, risulta universalistico.
Questo dato chiaramente è stato immediatamente messo in relazione alle stime della Corte dei Conti, che quantifica un taglio della spesa pubblica reale di circa 1,1% l’anno nel periodo 2009-2015, con un andamento temporale della spesa sanitaria in totale controtendenza rispetto alla media europea. Ma il dato forse più preoccupante risulta quello relativo alla spesa out-of-pocket. Questa rappresenta l’esborso privato per l’utilizzo dei servizi, e fondamentalmente, nella stima Censis-RBM, si compone di più voci, come l’acquisto dei farmaci, la compartecipazione alla spesa sanitaria (ticket per farmaci o prestazioni), e le prestazioni pagate per intero (specialmente analisi di laboratorio e strumentali, ma anche visite private). Tutte queste spese, come segnala il rapporto, non sono più appannaggio esclusivamente delle fasce più abbienti della popolazione, ma si muovono trasversalmente, ed in particolare colpiscono anziani e persone affette da patologie cronico-degenerative (ad es. ipertensione o diabete, per citarne due). Ciò sta portando un numero crescente di persone e famiglie a sopportare una pressione economica fortissima a causa del costo delle cure, con circa 1,8 milioni di persone che dichiarano di essere entrate nell’area di povertà a causa delle spese sanitarie sostenute di tasca propria, in particolare nelle regioni del meridione.
Il terzo problema sollevato è quindi quello delle liste di attesa, globalmente in aumento, che effettivamente stanno avendo una funzione di imbuto, indirizzando chi ha particolare necessità, o la disponibilità economica, a prenotare e svolgere analisi e visite specialistiche nel privato, in particolare per quanto riguarda la diagnostica strumentale. 
SSN 2017, un disastro?
Sempre in questi giorni è stato pubblicato un altro rapporto, dal titolo “Cosa sappiamo della salute disuguale in Italia?”, a cura di Giuseppe Costa, epidemiologo dell’Università di Torino. Tale rapporto permette di inquadrare sicuramente meglio la questione, in particolare rispetto alle dinamiche di salute e le scelte di cura della popolazione. Il documento segnala che il 7% degli italiani, nel 2015, hanno dovuto rinunciare alle cure (dato se vogliamo in linea con quello Censis, che non scorpora rinuncia da rinvio), ma che soprattutto tale problema si presenta nelle regioni del sud, dove la percentuale sale fino al 20%, con una media italiana in lieve aumento. Ciò però riguarda in particolare le cure odontoiatriche, storicamente tenute fuori dal pacchetto dei LEA, e oggi, tranne alcuni casi isolati, esclusivamente in mano al privato.
Come riporta anche questo documento, quindi, “nonostante le misure di austerità l’uso dei livelli di assistenza in Italia è a vantaggio di tutti ma soprattutto di chi ha più problemi di salute, soprattutto i più poveri. L’accesso alle cure appropriate è assicurato senza barriere grazie alle esenzioni. Il principale ostacolo all’equità rimangono le liste di attesa e la rinuncia alle cure, come ad esempio quelle dentali”. 
Ok, e quindi? 
Letti insieme, i due rapporti ci restituiscono quindi un quadro abbastanza esaustivo dell’assistenza sanitaria in Italia: la spesa pubblica diminuisce, quella privata aumenta, il divario nord-sud cresce. Ad un nord con un profilo di spesa sanitaria europeo, si affianca un sud dove l’impoverimento generale e la carenza dei servizi stanno intaccando il vantaggio in termini di salute che da sempre caratterizza le regioni meridionali rispetto al nord del paese. Ciò in particolare è dovuto all’approccio che i governi negli ultimi anni hanno tenuto rispetto alla spesa sanitaria, legandola indissolubilmente al PIL del paese piuttosto che ai bisogni reali di salute, provocando una stagnazione in termini di spesa che necessariamente ha avuto delle ripercussioni sia sugli operatori, sia sulla popolazione. Il federalismo sanitario di certo non ha aiutato (ma di certo il referendum di Dicembre non avrebbe risolto questi problemi), amplificando le disuguaglianze, aumentando la mobilità tra le regioni e complessivamente diminuendo la capacità redistributiva delle risorse.
Ci troviamo di fronte quindi ad un momento di estrema difficoltà del nostro Servizio Sanitario, il cui impianto universalistico si ritrova sotto attacco da diversi fronti. Non sono infatti solo i problemi di bilancio a creare le maggiori preoccupazioni, quanto le speculazioni che attorno a questi problemi stanno nascendo.
La crescente attenzione alla spesa, ed in particolare all’out-of-pocket, si può spiegare infatti anche in altri termini. Stiamo parlando infatti di un tesoretto da 35 miliardi di euro, che le previsioni vedono in crescita vertiginosa nei prossimi anni, sul quale in molti stanno provando a mettere le mani. Il crescente dibattito rispetto ai modelli di Servizio Sanitario, lungi dall’essere una discussione puramente accademica, si gioca infatti su chi dovrà gestire i fondi, pubblici o privati che sia. Se infatti, con il nostro SSN modello Beveridge, la committenza ed il pagamento spettano in larga parte allo stato, nel modello Bismarck, da più parti in questi giorni proposto, gli attori principali, come avviene in Germania, diventano le casse mutua collettive e le assicurazioni (che oggi occupano “solo”, rispettivamente, il 6,1 ed il 4% della spesa privata, anche qui con disuguaglianze evidenti tra nord e sud del paese), che di fatto agiscono da cosiddetto “terzo pagante”, come intermediari tra il cittadino/paziente e l’erogazione del servizio. Qui si entra in un campo minato (medici e giornalisti hanno la loro cassa mutua, così come la maggior parte degli ordini professionali, e anche i sindacati stanno iniziando a promuovere casse mutua interne), in cui grandi gruppi bancari e assicurativi privati stanno iniziando ad affacciarsi, per provare ad entrare in un mercato in Italia tutto da esplorare, ma che per ora, vista anche la tenuta del Servizio Sanitario e dei suoi operatori, risulta occupare solo alcune fasce di servizi ed offerte.
Il rischio è chiaramente che questo “terzo pilastro” della spesa vada ad erodere in orizzontale prima, rispetto quindi a pezzi dei percorsi diagnostici, e verticale poi, determinando percorsi paralleli tra pubblico e privato. Non si tratta di una situazione inverosimile, ma di proposte che ogni tanto riescono persino a trovare spazio nel dibattito nazionale, e che chiaramente porterebbero al collasso l’intero impianto universalistico del SSN, portando allo “sganciamento” delle fasce più ricche della popolazione, che pagherebbero un servizio interamente privato e di altissimo livello, lasciandosi alle spalle le rovine di un Servizio pubblico di serie b destinato a tutti gli altri.

Fonte: Il corsaro 

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