La crisi è quel momento in cui il vecchio muore e il nuovo stenta a nascere. Antonio Gramsci

mercoledì 14 giugno 2017

Che fine ha fatto il capitalismo italiano?

di Alessandro Visalli
Giuseppe Berta, autore di molto studi sulla struttura industriale italiana, tra i quali è da ricordare “L’Italia delle fabbriche”, un’ampia ricostruzione dell’industrialismo italiano dal primo novecento al 2001, e del successivo (2014) testo sulla “Produzione intelligente”, torna sul tema con questo libro del 2016, nel quale si chiede se la dimensione che ci è più consona non sia quella del ‘mercato’, anziché del vero e proprio ‘capitalismo’, con la sua alta incidenza di capitale e le sue lunghe reti (la distinzione è quella della scuola delle Annales, e di Braudel in particolare, si può vedere qui, espressamente richiamata a pag.11).
In certo senso secondo lo storico torinese oggi l’Italia non ha più un suo modello di capitalismo, come lo poteva avere negli anni sessanta e settanta. La ragione è che nella seconda parte degli anni novanta, con le privatizzazioni, e nei primi anni duemila, come dice: “l’Italia ha smontato, pezzo dopo pezzo, l’intelaiatura che sosteneva la sua compagine economica”. Non abbiamo dunque più un modello economico.
Dato che, però, il paese è comunque immerso nell’ambiente economico internazionale in cui il capitalismo è ovunque (con le reti lunghe della finanza e del grande capitale più o meno mobile) gli restano margini di autonomia sempre più ristretti.
Non si tratta solo del fatto che molte imprese sono passate sotto controllo estero, ma proprio che la trama del tessuto economico si è dissolta. E nello scontro tra due assi di sviluppo, quello rivolto ad imitare le grandi imprese di successo in aree economiche dotate di maggiore capacità e mercati interni (gli USA in primis) e quello rivolto ad una crescita per linee più interne e dimensioni più controllabili (le famose “medie imprese” e le reti di distretti), oggi rimane in campo solo la seconda. Che è quindi da considerare il nostro carattere più proprio, verso il quale sintonizzarci.
La ricostruzione di Berta parte da una visione a campo largo dell’industrialismo gigantista del novecento e delle sue recenti involuzioni, come anche della tendenza del grande capitale, nella nuova forma dell’economia dei servizi innovativi connessi con la gestione dell’informazione e la valorizzazione del possesso dei dati. Quindi descrive nella prima parte il capitalismo manageriale e la grande industria automobilistica, Drucker e la General Motors, come primo modello nella metà del secolo scorso. Di questo grande modello integrato di capitalismo resta un’industria stanca, poco innovativa, impegnata in una violenta competizione interna, ne sono espressione lo scandalo della Vw, presa dall’ossessione di “essere la prima”, costi quel che costi (p.19) e l’esempio della Toyota, che per ottenere lo stesso effetto sacrificò nella corsa il proprio modello stessi, allentando la ricerca di qualità, salvo poi dover fare precipitosamente marcia indietro. In particolare l’indagine dell’EPA, sulle centraline Bosh che occultavano le emissioni, scoperchia letteralmente la fragilità del modello capitalistico tedesco. Ovvero il modo di fare grande impresa, e grande capitalismo, troppo opaco, poco proiettato all’innovazione e dipendente da equilibri di potere: “è la concretizzazione di una forma di capitalismo che, lungi dall’essere vitale, ha bisogno del soccorso dello Stato per reggersi e del cemento costituito da un blocco di interessi che agisce come un freno, e non solo potenziale, all’innovazione e alla mobilità sociale” (p.23). Si tratta di un “capitalismo arrembante” fondato su un sistema di privilegi.
Ma questo vecchio modello di capitalismo è oggi sfidato, proprio nel luogo più caratteristico, l’industria automobilistica, dal nuovo capitalismo “californiano”. Forti di una enorme dotazione finanziaria, praticamente illimitata tra risorse liquide proprie e capacità di attrarre il capitale mobile data la sua aspettativa di creazione di valore (e hybris), aziende come Apple, con la sua i-car, Google, con la “self-driving car”, e infine Tesla, propongono ognuna un modello del tutto diverso: l’auto come gadget, auto aggiornante, sempre connesso e catalizzatore di servizi. Cade la barriera tra oggetto industria e servizi, ma anche si incarna la promessa di una costante deflazione dei prezzi delle cose, e insieme del lavoro che si polarizza (p.33), e avviene una separazione tra lavoratore e consumatore. Queste nuove piattaforme di servizi, travestite da auto, sono in effetti, come dice qualcuno, “dei monumenti alla sorveglianza” (p.34), grazie anche alla interconnessione e intreccio con la Iot territoriale e le smart cities.
In questo scenario, rapidamente tratteggiato in poco più di trenta pagine, per lo più per suggestioni, Berta descrive quindi il modello stratificato di Braudel (che abbiamo descritto più compiutamente leggendo “La dinamica del capitalismo”, del 1977) che vede la società fondata su un sostrato di strutture della vita quotidiana, sulle quali si elevano le condizioni del mercato, ovvero le ragioni della cooperazione volta allo scambio e i suoi luoghi, e infine il livello “alto” del capitale mobile e dello Stato, reciprocamente intrecciati. Una struttura triadrica in cui i tre elementi sono sempre compresenti. Nella storia italiana, ad esempio, esprimono la logica del terzo livello agenti come Guido Carli e come Gianni Agnelli.
Nel blocco centrale del libro lo storico piemontese descrive la parabola dell’IRI, nata nell’urgenza di rispondere alla crisi importata del ’29, che metteva a serio rischio la tenuta politica e sopravvivenza del fascismo, ed affidata da Mussolini a Beneduce. L’origine è quindi casuale, ma improntata alla più forte necessità. I protagonisti, però, condividevano un giudizio negativo sulal comunità imprenditoriale italiana, quindi l’Istituto viene improntato dall’inizio alla più netta indipendenza. Già nel 1937 ha circa 200.000 addetti.
Nel tempo intorno all’IRI si va a costituire un nuovo sistema economico, in cui il livello “alto” di capitalismo è in parte notevole affidato allo Stato, e quindi gestito con sguardo lungo e capitali “pazienti”, ma anche con finalità sociali. Nel primo dopoguerra si affiancano la Finmeccanica (1948) e lo Svimez. Il giudizio di Berta è netto: “in larga misura grazie all’IRI, il sistema misto divenne la forma stessa che distingueva e identificava l’assetto dell’economia italiana” (p.61). Si è trattato di una condizione di interdipendenza che, alla lunga, è stata anche “una condizione di garanzia per la continuità stessa dell’iniziativa privata” (p.62).
Certo, non sono mai mancate le critiche da parte liberista, ne è espressione ad esempio Luigi Einaudi.
E al momento dell’apertura della crisi strutturale degli anni settanta, si alzano forti le voci di attori come Glisenti per il quale l’IRI determina nel suo insieme “la rottura della logica stessa del calcolo imprenditoriale”. Si tratta di una stagione di attacco concentrico che è meglio descritta nel suo “L’Italia delle fabbriche”, e che vede enfatizzare sistematicamente le deformazioni clientelari (nella crisi che prende piede in effetti crescenti, dato che al sistema pubblico dell’industria vengono attribuiti oneri che altre parti dovrebbero sostenere) e vede sorgere un contropolo nella Mediobanca di Cuccia (“un soggetto di regolazione e resistenza degli interessi degli imprenditori privati”, p.70). sono gli anni degli scontri tra Prodi e Cuccia, e poi dell’ultimo atto: la liquidazione via privatizzazione. I vari pezzi vengono venduti, talvolta regalati letteralmente, al capitale privato incarnato dal “salotto buono” di Mediobanca.
Allo smantellamento dell’economia mista, che lascia un capitalismo debole affidato a esili capacità e volontà di competizione, segue il declino economico del paese. Berta ne registra la contemporaneità e ipotizza una relazione (p.78). Il deficit che lascia non è solo inerente la disponibilità di capitali disponibili agli investimenti, ma anche la carenza di spirito e volontà di intraprendere. Il capitalismo privato si trova ad essere privato di quella interazione, intenzionalmente ricercata, con una capacità di investimento e di intrapresa di cui è strutturalmente carente. Come dice a pagina 80, “l’origine e il consolidamento dell’IRI ebbero come presupposto che l’intervento pubblico fosse richiesto, non soltanto per colmare questo deficit e investire là dove i privati non investivano, ma soprattutto per attivare un’interazione sistemica tra il polo delle attività economiche soggette al controllo dello stato e il polo dell’imprenditoria privata. Diversamente il processo di sviluppo non si sarebbe innescato”. In altre parole, “l’economia mista non era soltanto un correttivo attuato allo scopo di supplire all’inerzia degli operatori privati, ma un dispositivo indispensabile anche per il funzionamento della parte dell’economia non soggetta allo Stato”.
Se anche questa diagnosi viene accettata, oggi questa strada di sviluppo è preclusa, perché l’Italia ha accettato con le regole europee un sistema di vincoli esattamente preordinato ad impedire allo Stato di sostenere lo sviluppo. Questo vincolo fu coscientemente assunto da Guido Carli (su cui rinvia al suo “Oligarchie”) e Nino Andreatta. L’azione di questi politici fu diretta a distruggere le condizioni dell’assetto misto, visto come “impuro” del capitalismo italiano, riportandolo a più chiare basi neoliberali.
Ora cosa resta?
Molto poco, quasi tutte le nostre aziende primarie sono state vendute o vivono acque pericolose. Resta una Italia che “si radica e trincea là dove il terreno le è più congeniale, le dimensioni sono più controllabili e non entrano in campo estese filiere verticali” (p.93). Cioè restano alcune centinaia di imprese intermedie, nelle quali il rimanente capitalismo imprenditoriale riesce ancora ad esprimere un desiderio di innovazione. Dunque restano più o meno 140 piccole “locomotive” innervate in distretti vitali. La gran parte nel Nord-Ovest, che meglio di altre aree resiste (pur cedendo terreno).
Nel seguito il libro ricostruisce i termini delle sue ricerche sul campo (ad esempio in “Nord. Dal triangolo industriale alla megalopoli padana, 1950-2000” del 2008), e si chiede se si possa tornare ad un sentiero di sviluppo.
La sua risposta è in qualche modo dolorosa, anche se contiene una speranza: si può e si deve puntare su un “ridimensionamento”. Su una sorta di “capitalismo leggero”, fondato sull’Italia minore, quella del Nord-Est e del Centro (la Nec di Giorgio Fuà), cioè su una rete di imprese piccole e medie, diffuse, connesse con l’ambiente e con la società locale. Un modello che ha sospetto per le “cattedrali nel deserto”, e valorizza i mille centri e la flessibilità la connessione. Una collezione di nicchie, si potrebbe dire, per chi certo non può ambire a riprodurre il “capitalismo californiano”, e neppure l’ingessato e vischioso “capitalismo renano” contemporaneo. Un modello italiano, persa la grande scommessa dell’economia mista nella gabbia dei vincoli europei, che guardi alle nostre migliori tradizioni e tentativi, anche a quell’Adriano Olivetti (sempre presente nella riflessione di Berta, ed oggetto di “Le idee al potere” del 2015) che seppe pensare ed attuare una grande azienda internazionale partendo dall’amore per il suo cavanese ed il rispetto per i lavoratori (p.146).
Una sorta di economia “intermedia” (nel senso di Braudel), capace di presidiare i segmenti e recuperare anche il racconto di sé che una società compie.
Insieme di ridimensionarsi.
Sobriamente.

Fonte: Tempo Fertile

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