La crisi è quel momento in cui il vecchio muore e il nuovo stenta a nascere. Antonio Gramsci

martedì 13 giugno 2017

Sulla storia del Medio Oriente contemporaneo


di Francesco Rustichelli 
Vi è un’espressione che da tempo è entrata a far parte della prassi quotidiana ed è ormai onnipresente nei titoli di tutti i media globali: quella di “Medio Oriente”. Difficilmente vi sono parole che rievocano allo stesso modo nell’immaginario collettivo occidentale una simile commistione di sentimenti contrastanti: dal fascino alla paura; dalla curiosità allo sdegno. Il costante susseguirsi negli ultimi decenni di guerre, migrazioni e attacchi terroristici hanno contribuito a creare una percezione semplicistica (e spesso malsana) del Medio Oriente, sempre più visto come un blocco instabile, arretrato e ostile da contrapporre ad una crescente identità “occidentale”.
Ad una aumentata percezione del Medio Oriente come presenza nel mondo contemporaneo, però, spesso non corrisponde una più realistica rappresentazione della sua realtà, così complessa e variegata. Al contrario, l’esposizione ad una simile mole di informazioni, prive di un qualsivoglia ordine, contribuisce unicamente a gettare ulteriore fumo negli occhi a coloro a cui sono indirizzate. In definitiva, sorge spontaneo domandarsi: che cos’è il Medio Oriente? Qual è la sua storia? E quali eventi hanno contribuito a definirne la realtà odierna?
Si propone di adempiere a questo arduo compito l’orientalista italiano Massimo Campanini. Nel suo volume Storia del Medio Oriente contemporaneo, infatti, egli offre un’analisi dei principali avvenimenti che hanno caratterizzato la storia del Medio Oriente sino ai giorni nostri. Ripercorrendo le complesse e spesso drammatiche trasformazioni nella regione, quest’opera getta luce sulle evoluzioni che si sono susseguite nel corso degli ultimi due secoli, dallo sbarco delle truppe napoleoniche in Egitto, all’avvento di Dā’ish e del terrorismo internazionale.
Massimo Campanini ha alle spalle una vasta esperienza nell’ambito degli studi mediorientali, avendo ricoperto per anni il ruolo di docente di civiltà islamica e di storia contemporanea del Medio Oriente presso le Università di Urbino, Milano, Napoli e Trento. Il libro è principalmente destinato a svolgere il ruolo di testo introduttivo per gli studenti di storia politica mediorientale, sebbene la sua linearità e la sua semplicità ne rendano possibile la comprensione anche ad un pubblico non direttamente coinvolto in tali studi. La forza di questo lavoro, infatti, risiede nella sua capacità di offrire un’analisi generosa di un insieme complesso, ma intimamente intrecciato, di soggetti che uniscono aspetti culturali, sociali, economici e politici delle trasformazioni del Medio Oriente in una prospettiva storica ampia e che si presenta ben scritta e facile da cogliere.

Comprendere il Medio Oriente

Prima di intraprendere una qualsivoglia opera di ricerca in ambiti mediorientali, è fondamentale innanzitutto definire cosa sia il “Medio Oriente”. L’idea di Medio Oriente è di norma presente nell’immaginario collettivo occidentale come un’unica essenza, una realtà monolitica nella storia, con leggi, precetti, e tendenze univoche, spesso legato ad un concetto sottinteso di “opposto” rispetto all’Occidente. È proprio da questa connotazione geografica, invece, che la nostra analisi deve aver inizio. Per Campanini, infatti, il termine Oriente deve la sua origine ad una prospettiva eurocentrica, volta a definire quei territori che si frapponevano tra gli stati europei e l’India britannica. Tale concetto di Vicino Oriente venne presto rivisitato dall’ingresso sulla scena mondiale degli Stati Uniti, i quali spostarono ulteriormente il baricentro della regione attraverso la coniazione del termine Medio Oriente. Al di là della parentesi storica, è chiaro che una simile formulazione, impregnata di preconcetti riguardanti arretratezza e inciviltà, consentì all’Europa di estendere progressivamente la propria influenza su queste regioni. Citando le parole dell’autore, “l’Europa ricca, avanzata e civile, portava il fardello di educare e ricostruire, riportando all’interno della storia i popoli emarginati ed esclusi dal progresso”. Una prima categoria ermeneutica, quindi, sotto la quale si pretese (e ancora si pretende) di raggruppare una realtà storica e culturale estremamente differenziata, che si estende dalle coste dell’Africa settentrionale al Sud-Est asiatico, dall’Asia centrale all’Africa sub-sahariana e che è presente con comunità stabili e crescenti in tutto l’Occidente. Di non diversa accezione è l’idea di attribuire alla concetto di Medio Oriente l’Islam come variante principale. Se ciò da un lato sembra escludere il fatto che in alcune di queste terre risiedano numerose comunità di altre confessioni religiose, dall’altro applica all’Islam la medesima chiave di lettura, relegando così popoli diversi per etnia, lingua, storia, tradizioni sociali e culturali ad una presunta condizione di staticità e di immutabilità nel tempo.

Lo scontro con la modernità

Campanini fa iniziare la sua opera dalla spedizione napoleonica in Egitto del 1798. Nonostante questo non fu un evento di particolare rilevanza dal punto di vista storico, la scelta dell’autore è tutt’altro che casuale. Con lo sbarco delle truppe di Napoleone, infatti, la comunità islamica entrò a diretto contatto con una moderna potenza europea, all’epoca in rapida ascesa e portatrice di un nuovo messaggio rivoluzionario. Sebbene i primi segni di arretratezza rispetto al mondo cristiano iniziarono ad emergere già un secolo prima, “di fatto, per la prima volta da più di quattrocento anni, il cuore delle terre islamiche veniva a contatto diretto con l’Europa, apportatrice di modernità, e scopriva di avere un vuoto da colmare rispetto al progresso acquisito da “altri”. All’epoca l’Egitto era sotto il controllo dell’impero ottomano, i cui confini si estendevano dalle coste algerine ad Ovest, alla Mesopotamia ad Est; dalle città sacre del Hijaz a Sud, sino al Danubio a Nord. Nonostante fosse indubbiamente la realtà politica islamica più solida alla fine del Settecento, in quel periodo la sua influenza su diverse regioni era ormai divenuta soltanto formale. Per tutto il XIX secolo, inoltre, l’impero fu colpito da una serie di rivolte e iniziò a sperimentare la sempre più crescente invasività delle principali potenze europee. Fu a partire dello sbarco delle truppe napoleoniche, quindi, che vennero poste le basi per le future campagne di sottomissione dei territori arabo-islamici nel Medio Oriente. 
Nell’arco di un secolo, gli eserciti europei occuparono tutto il Nord Africa e parte del Golfo Persico. Se all’inizio dell’Ottocento l’Europa era vista da alcuni pensatori mediorientali come una reale portatrice di civiltà, a distanza di qualche decennio essa mostrò il suo vero volto, diventando sempre più oppressiva e a tutti gli effetti un pericolo per l’integrità dei territori musulmani. I nuovi rapporti tra i popoli che abitavano il Medio Oriente e le grandi potenze europee, di conseguenza, avvennero attraverso l’occupazione coloniale. Sarebbe errato, però, ritenere che per questo gli stati europei fossero più civilizzati rispetto alle popolazioni assoggettate. Come sottolinea Campanini, “la potenza dell’Europa consisteva nella sua superiorità economica, tecnologica e militare, frutto della rivoluzione industriale e del capitalismo”. Questo concetto, all’apparenza dato per scontato, riveste invece un ruolo fondamentale, in quanto getta luce su come i traguardi raggiunti dagli europei siano stati il risultato di un peculiare sviluppo avvenuto in una specifica area geografica e durante un determinato periodo storico. Davanti alla concreta possibilità di continuare a subire il giogo europeo, i diversi popoli che componevano l’ecumene mediorientale furono costretti a trovare un rimedio a questi innegabili elementi di arretratezza rispetto all’Occidente. Le alternative, purtroppo, erano scarse: adeguarsi alla superiorità europea, tentando di introdurre i cambiamenti necessari a colmare le distanze tecnologiche e cercando di non modificare eccessivamente le proprie tradizioni (turāth); oppure trovare una via alternativa che riuscisse a mediare tra le antiche tradizioni islamiche e la nuova realtà occidentale (asāla).
Durante la prima metà dell’Ottocento una serie di rovinose sconfitte imposero un’accelerazione dei processi di riforma in tutto l’impero ottomano. Ebbe così inizio una fase nota come tanzīmāt, “riorganizzazione”, attraverso cui il governo ottomano confidava di modernizzare il Paese. Nel giro di pochi decenni si tentò di introdurre innovazioni che l’Europa aveva elaborato nell’arco di secoli: venne creato un esercito permanente sul modello europeo; vennero standardizzati i codici giuridici; si procedette ad una razionalizzazione delle funzioni dei governatori, migliorando la riscossione delle tasse ed estendendo il controllo del governo centrale; infine, venne riformato anche il sistema scolastico, introducendo scuole secolari per la formazione di nuovi studenti per la crescente amministrazione imperiale. Fu uno sforzo enorme per adeguare l’impero ai livelli di complessità raggiunti dall’Occidente, modificando indubbiamente sotto molti aspetti la società ottomana. Secondo Campanini, l’aspetto particolare che eleva i tanzīmāt ad un qualcosa di più di una semplice imitazione dei progressi occidentali, però, fu il tentativo di introdurre un’identità che fosse compatibile con la natura multietnica dell’impero. “Il riformismo del periodo dei tanzīmāt appare dunque come un movimento che prese le mosse dallo scontro con l’Europa e dalla modernizzazione, ma si sviluppò poi secondo linee sue proprie e caratteristiche”. L’esempio ottomano fu presto motivo di ispirazione per gli shāh di Persia della dinastia Qājār, i quali intrapresero anch’essi un campagna di riforme, nel tentativo di unificare l’impero, all’epoca frammentato in varie autonomie locali. Nonostante questi sforzi, ne’ il governo ottomano ne’ quello cagiaro riuscirono a proteggere i loro imperi dalle potenze europee. Alla fine del XIX secolo, Francia e Gran Bretagna si spartirono i Nord Africa, la Russia fece da garante per la separazione delle varie realtà slave dei Balcani e, in Persia, l’impero zarista e quello britannico entrarono in competizione per il controllo delle risorse cagiare. All’alba del Novecento, la situazione nell’impero ottomano era divenuta così drammatica che nel 1913 fu necessario un coup d’état, imponendo allo stato ottomano una dittatura militare sotto l’egida di Tal’at Pasha. In Persia, l’inasprimento del conservatorismo dello Shāh e le pressioni britanniche e russe fecero sprofondare nel 1911 il paese in una grave crisi interna.
Mentre gli imperi islamici languivano e le potenze europee si contendevano il controllo sul Medio Oriente, si assistette ad una straordinaria rinascita della cultura e dell’identità araba, la nahda. Letteralmente “rinascita”, fu un movimento culturale e politico i cui esponenti ambivano a trovare una via per far progredire la civiltà araba, unendo alcuni elementi della loro civiltà a quelli occidentali. Tali dibattiti avevano luogo nelle pagine dei vari giornali, che iniziarono a diffondersi a partire dalla metà del XIX secolo in città come Beirut e il Cairo, che presto emersero come capitali dell’editoria mediorientale. Sul piano sociale si assistette alla nascita dei primi movimenti femministi arabi, mentre in quello politico fu fondamentale la diffusione di concetti-chiave quali quello di patria (watan) e quello di libertà (hurriyya). Alla riconosciuta esistenza di una nazione araba, però, non corrispose una “liberazione” dei territori arabi dal controllo ottomano. Un filone importante, all’interno di questi dibattiti, venne fornito dai modernisti islamici. Come afferma Campanini: “la tendenza opposta alla modernizzazione dell’Islam fu quella dell’islamizzazione della modernità, cioè l’attitudine a considerare l’Islam come un’ideologia perfettamente in grado di interpretare la modernità senza sottostare a particolari cambiamenti o modificazioni”. I pilastri di questa ideologia furono Jamāl al-Dīn al-Afghānī, Muhammad ‘Abduh e Rashīd Ridà, “una triade di pensatori e di attivisti che ebbero un ruolo fondamentale nel gettare le basi del riformismo islamico, cioè un riformismo dell’Islam endogeno e non esogeno, come poteva essere quello della nahda”. Essi sostenevano la necessità di rinnovare l’Islam (islāh), nel tentativo di riunire tutti i credenti sotto la medesima bandiera e creare uno stato musulmano sufficientemente forte per potersi difendere dall’imperialismo europeo. Si rendeva così necessario “il ritorno alle origini, all’esempio dei salaf, la prima generazione dei credenti […] (da cui deriva il termine salafiyya)”.

Il riassetto politico della regione

L’ingresso nella Grande Guerra al fianco degli Imperi Centrali, unita alla conseguente sconfitta per mano degli Alleati, decretò il definitivo collasso dell’impero ottomano. Se sino ad allora la “Sublime Porta” era riuscita ad impedire che l’imperialismo europeo colonizzasse l’intero Medio Oriente, ora, con la sua definitiva scomparsa, le potenze vincitrici poterono estendere ulteriormente il loro controllo sulle precedenti province ottomane. Dopo il crollo dell’impero tedesco, lo smembramento di quello asburgico e con la Russia zarista sconvolta da una guerra civile, a Francia e Gran Bretagna furono assicurati i territori del defunto “malato d’Europa”, nonché un controllo diretto lungo le rotte commerciali con l’Asia e, soprattutto, l’accesso ai pozzi petroliferi del Golfo Persico. Il nuovo assetto territoriale delle aree post-ottomane era stato definito ancor prima della fine della guerra attraverso l’accordo Sykes-Picot, un chiaro tradimento nei confronti degli arabi che avevano combattuto a fianco degli Alleati. Tali spartizioni furono in seguito confermate dai trattati di Parigi, di Sanremo, di Sèvres e di Losanna, attraverso i quali la neonata Turchia rinunciava a ogni pretesa di sovranità sui precedenti territori arabi dell’impero. Furono inoltre stabilite due diverse aree di influenza per Francia e Gran Bretagna attraverso il sistema dei “mandati”. A Parigi fu affidata la “Grande Siria”, mentre a Londra il controllo su Palestina e Mesopotamia, senza stabilire “quale avrebbe dovuto poi esserne l’evoluzione successiva, ne’ se e come si dovesse venire incontro alle aspirazioni degli arabi”. Ben presto le potenze mandatarie intrapresero l’antico metodo del divide et impera, suddividendo i territori occupati secondo confini arbitrariamente tracciati che recisero i precedenti rapporti delle società dominate ed esacerbando ulteriormente le differenze etniche. Fu così che, durante la prima metà degli anni Venti, nacquero stati come il Libano, la Siria, l’Iraq, la Palestina e la Transgiordania. Citando Campanini: “è certo forzato attribuire all’accordo Sykes-Picot tutti gli sviluppi politici che si sono fin qui delineati. Gli accordi tuttavia denunciano come un elemento di insincerità e di ambiguità avesse dominato fin dagli inizi i rapporti tra le potenze coloniali europee e gli arabi. Il vizio era dunque all’origine e spiega di fatto l’evoluzione seriore. Tutti gli stati arabi nati […] dal sistema mandatario […] si costituivano in sostanza come creazioni artificiali, esito dei giochi diplomatici delle grandi potenze, e dunque con una pesante ipoteca sul loro futuro”.

Gli stati mediorientali tra consolidamento e crisi

Fu la fine della Seconda Guerra Mondiale ad aprire nuove prospettive per i paesi sotto il dominio europeo. Nonostante la vittoria riportata, infatti, Francia e Gran Bretagna uscirono fortemente prostrate dal conflitto e le sconfitte subite durante la guerra le resero incapaci di proseguire la precedente politica coloniale. Il vuoto lasciato dalle potenze uscenti fu ben presto colmato dalle due nuove forze emergenti, gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica, la cui rivalità sfociò nella nota Guerra Fredda. “Le conseguenze del nuovo bipolarismo furono di grande importanza anche per il Medio Oriente”, in quanto accelerarono il processo di decolonizzazione e influenzarono profondamente le evoluzioni politiche nella regione. Secondo Campanini “il fenomeno della decolonizzazione costituisce uno degli avvenimenti più importanti del XX secolo e, ovviamente, non ha riguardato solo il Medio Oriente, ma tutta l’Africa e l’Asia”. Un ruolo fondamentale, all’interno di questo processo, sarà ricoperto dalle forze armate e dalle élite militari, poiché contribuirono ad accelerare fortemente la transizione da stato coloniale a decolonizzato. Se fino agli anni Cinquanta l’intero Medio Oriente era stato pervaso da una diffusa ondata di liberalismo e di partecipazione politica, l’incapacità dei nuovi partiti di dar seguito a quanto auspicato e di scalzare le vecchie élite rese l’utilizzo della forza l’unico mezzo per ottenere cambiamenti più radicali. “Da Boumedienne a Nasser, da Gheddafi ad Hafiz al-Assad, i leader di una grande maggioranza dei paesi arabo-islamici che hanno gestito la costruzione e l’affermazione dello stato post-coloniale sono stati dei militari”. La ragione di questo fenomeno fu dovuta soprattutto alla mancanza di una classe media sufficientemente matura e di un sistema politico evoluto, unito ad una sostanziale arretratezza economica, tutti frutto del passato coloniale.
Con la fine dell’apertura democratica, le élite militari al potere iniziarono a governare in modo sempre più autoritario ed assoluto, spesso mediante l’uso della forza e dell’esercito. Queste si fecero promotrici di importanti accelerazioni riformiste e di modernizzazione, attuando riforme agricole, processi di industrializzazione e rivoluzioni in campo sociale, come garantire un certo livello di emancipazione femminile. Tali riforme, però, erano ben lungi da essere richieste dagli strati più bassi della popolazione. Al contrario, esse erano il frutto della volontà dei regimi di adeguarsi agli standard di modernità delle altre nazioni sviluppate e, come tali, imposte dall’alto. Mossi da una evidente vocazione laica, inoltre, questi cambiamenti furono compiuti all’insegna del secolarismo, entrando così spesso in contrasto con i maggiori sostenitori dell’Islam. Tale attrito sfociò presto in scontri e repressioni, che si acuirono ulteriormente quando le fortune di questi regimi iniziarono la loro curva discendente. Il fallimento degli ideali laicisti e di tutto il mondo arabo-islamico negli anni Cinquanta e Sessanta, insieme alla crisi economica degli anni Settanta, fiaccarono una popolazione sempre più numerosa ed alfabetizzata che, priva di una speranza lavorativa e dall’incerto futuro, iniziò a riporre le proprie speranza verso frange più estremiste. “Caduti i miti del liberalismo, del socialismo e del nazionalismo arabo, molti sentirono che l’autentica alternativa era l’Islam e alcuni decisero di vivere questa alternativa in modo radicale, addirittura violento”. Il risultato di una simile commistione di fattori può essere dimostrato da quanto avvenuto in Iran nel 1979, quando il regime dello Shāh Mohamed Reza Pahlavi fu rovesciato da una rivolta popolare che avrebbe elevato al potere la repubblica islamica dell’Ayatollah Khomeini. La presenza sovietica in Afghanistan, unita a quella statunitense nel Golfo, esacerbarono ulteriormente la situazione, ponendo le basi la per la formazione di milizie islamiche di stampo jihadista e per la nascita del terrorismo internazionale.

Prospettive dell’Islam nel XXI secolo

Oggi il Medio Oriente appare come forse l’unico scacchiere internazionale non ancora normalizzato, soprattutto a causa della sua mancata democratizzazione e della conseguente sfida islamica. È dunque in quest’ottica che emerge il quesito forse più rilevante per il futuro della regione, ossia se sia possibile stabilire una via islamica alla democrazia. Secondo Campanini “essa pare costituire uno dei temi politici più scottanti del presente e del prossimo futuro nel Medio Oriente, soprattutto alla luce degli avvenimenti che hanno scosso la regione negli ultimi anni”. Sulla base di questo concetto, l’elemento islamico nella coscienza popolare non può di sicuro essere sottovalutato. A parere dell’Autore, l’Islam infatti “costituisce e prevedibilmente continuerà a costituire il fondamento della cultura della maggioranza della popolazione araba, anche, se non soprattutto, con le sue ricadute politiche”. In una simile ottica, la rilettura della sharī’a sembra imporsi come inevitabile. “Si tratta di riformare tutto il sistema giuridico musulmano per renderlo capace di affrontare le sfide della modernità”. Fra tutti, il problema dei diritti e, soprattutto, della questione femminile, appare come il più delicato. “Eppure nel pensiero politico islamico contemporaneo si sono fatti tentativi di elaborazione dottrinale che potrebbero individuare un comune terreno con la democrazia”. Non deve quindi spaventare un ritorno in scena dell’Islam, ne’ si deve commettere l’errore di associare ad esso unicamente le sue varianti qaidiste e jihadiste più contemporanee o di incappare nell’islamofobia, in quanto così si rischierebbe di marginalizzare le diverse voci moderate e aperte al dialogo, rendendole così paradossalmente un terreno fertile per la radicalizzazione. In definitiva, “quale sarà il ruolo e il peso del Medio Oriente nella geopolitica mondiale e nelle relazioni internazionali? L’Islam avrà un ruolo da giocare a questo livello? Si tratta di quesiti aperti cui non è possibile dare una risposta (sarà infatti la storia a farlo)”.
Fonte: pandorarivista.it 

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