La crisi è quel momento in cui il vecchio muore e il nuovo stenta a nascere. Antonio Gramsci

mercoledì 14 giugno 2017

Il risveglio della coscienza femminile

di Lea Melandri
Si può essere d’accordo con Michela Fusaschi quando scrive – nel suo libro Quando il corpo è delle altre (Bollati Boringhieri 2011) – che la tutela delle “vittime” di culture arcaiche è stata spesso il pretesto per giustificare “missioni civilizzatrici” di governi europei, organismi internazionali e interventi legislativi riguardanti in realtà problemi di sicurezza interni: una “retorica della pietà” radicata nella storia di popoli che si sono considerati “superiori”, legittimati per questo a sottomettere e colonizzarne altri.

Considerate da sempre “risorse” – “naturali”, si potrebbe dire, quanto il petrolio -, nel momento in cui le donne danno segno di non volere più essere un corpo a disposizione di altri, è un intero sistema di sopravvivenza che traballa, un ordine fatto di privilegi materiali e di valori legati al dominio millenario di un sesso solo.
A ciò bisogna aggiungere che il peso di una mutata coscienza femminile è tanto più grande in quanto va al di là delle “culture”, dei confini nazionali, delle storie particolari di singoli popoli, siano essi tradizionali o industrialmente avanzati.
Il dominio maschile è il tratto distintivo più evidente e al medesimo tempo più invisibile della “famiglia umana”. Non c’è progresso, modernità, che siano stati finora capaci di liberarsene.
Il controllo sul corpo delle donne, da qualunque prospettiva lo si guardi – coperto per difenderlo da vogliosi sguardi maschili, circonciso o mutilato per preservarne la verginità e privarlo del piacere sessuale, oppure, al contrario, spinto a denudarsi come segno di liberazione dai repressivi divieti del passato -, è il denominatore comune di tutte le “culture” finora conosciute, il fondamento del patriarcato in tutte le sue molteplici manifestazioni.
Altrettanto universale è il “consenso” che le donne, costrette a far propria, per non dire “incorporare”, la visione maschile del mondo, hanno dato e continuano a dare alla legge dell’uomo. La domanda, da qualunque sponda venga, è la stessa:
“Il problema è chiaro allora che non è il velo delle donne islamiche – e non lo sono per certi aspetti neppure le “mutilazioni genitali”, che le nuove generazioni di migranti associano giustamente alla chirurgia estetica genitale delle donne europee -, ma sono gli adattamenti, le resistenze, le appropriazioni che nel corso dei secoli hanno visto il dominato parlare la lingua del dominatore. Si può passare la vita “senza percepire altro che questo tessuto di immagini ricevute, stratificate e intrecciate a percezioni dirette ma oscure di sé” (Rossana Rossanda).
“Per me – è la testimonianza di una giovane africana nel libro Il colore sulla pelle (a cura di Sonia Aimiuwu, L’Harmattan Italia 2002) a proposito della circoncisione – è normale, è la mia tradizione. È importante più che altro per proteggere la verginità della ragazza (…) mi ricordo che piangevo perché volevo farla, perché tutti i miei vicini di casa l’avevano fatta, perché si fa festa quando si fa, si avvisano tutti i vicini, arrivano tutti i bambini, si balla, si canta. È un momento in cui ‘sei regina’ ed io ho pianto tanto”.
Rivalsa, emancipazione perversa, si può considerare anche la ribellione che giovani donne africane fanno all’eurocentrismo culturale e a interventi legali che aggiungono violenze a violenze già subite, indossando gli abiti che le riportano dentro appartenenze, identità culturali, solo perché appaiono loro svilite, misconosciute.
Quali allora le vie d’uscita per una sottomissione che non viene solo da imposizioni e divieti esterni, che vive nelle istituzioni, nei saperi e linguaggi della vita pubblica, ma che ha radici ancora insondate nell’oscurità dei corpi? Di quanti svelamenti hanno ancora bisogno le donne di tutte le culture, perché si possa parlare di liberazione da tutte le “illibertà” sedimentate dentro di noi?
L’indicazione più saggia viene, non a caso, da quelle donne che con troppa facilità chiamiamo “vittime”, privandole ancora una volta del loro essere persone, della loro voce, delle loro capacità di fare scelte.
“Crediamo che sia importante uscire dalle situazioni non per costrizione o autocostrizione, quanto piuttosto elaborando ferite e cicatrici per sviluppare nuove parti di una identità sempre in movimento e sviluppo”.

Fonte: comune-info.net 

Nessun commento:

Posta un commento

Nota. Solo i membri di questo blog possono postare un commento.