La crisi è quel momento in cui il vecchio muore e il nuovo stenta a nascere. Antonio Gramsci

mercoledì 14 giugno 2017

Gli Stati Uniti oggi. Intervista a Mario Del Pero

Intervista a Mario Del Pero di Lorenzo Mesini e Alberto Prina Cerai
Abbiamo avuto il piacere di rivolgere alcune domande a Mario Del Pero, tra i principali americanisti italiani ed attualmente docente di Storia internazionale e Storia della politica estera degli Stati Uniti all’Institut d’études politiques/SciencesPo a Parigi. Del Pero ha inoltre insegnato per molti anni alla facoltà di Scienze Politiche “Roberto Ruffilli” dell’ateneo di Forlì. La sua riconosciuta competenza nell’ambito della politica statunitense è riscontrabile nelle sue pubblicazioni, tra cui il recentissimo volume Era Obama, edito da Feltrinelli ed uscito nel 2017. Proprio nel suo ultimo lavoro Del Pero cerca di offrire una ricostruzione delle peculiarità e del lascito dell’amministrazione di Barack Obama in questi otto anni di presidenza, tra speranze e disillusioni seguite alla sua elezione.
L’intervista che segue si concentra in particolare sull’esperienza e sui nuovi paradigmi che la presidenza Obama ha impresso nella politica estera statunitense, in un periodo di riposizionamento e di riconfigurazione dell’egemonia americana sulla scacchiera globale, e quale sia, se esiste, il filo conduttore in termini politico-economici, che ha portato all’elezione imprevista del repubblicano Donald Trump.
La discontinuità politica di Obama si è, come lei afferma nel suo libro, perfettamente collocata all’interno di un moto di polarizzazione partitica alla quale il presidente ha finito per contribuire. In questo senso si può affermare che il fenomeno, imprevisto, dell’ascesa di Donald Trump sia un epilogo coerente di questa fase storica iniziata nel 2008?
In una certa misura sì. Se guardiamo le due mappe elettorali, le dinamiche di voto e gli indicatori degli exit poll vediamo che vi sono molte somiglianze tra il ciclo elettorale del 2008 e quello del 2016, ovvero che nel secondo si acutizzano e rafforzano elementi già presenti nel primo. Dopodiché Trump è sì il portato di un processo di polarizzazione politica ed elettorale fattosi vieppiù intenso, ma anche di un partito repubblicano spostatosi su posizioni sempre più estreme e radicali.
Una delle peculiarità della presidenza Obama è rintracciabile nel suo discorso di politica estera. L’internazionalismo liberal di Obama – discostatosi tanto dal «manualetto di Washington» e dall’unilateralismo militare di George W. Bush, quanto dall’interventismo umanitario clintoniano – come si può inquadrare?
Assieme alla presidenza Carter (1977-1981) quella di Obama è forse la presidenza dal 1945 a oggi che più ha cercato di parlare un lessico “post-imperiale”, centrato sul riconoscimento sia dei limiti con i quali gli Usa, e la loro politica estera, sono chiamati a confrontarsi sia della limitata spendibilità di uno strumento, quello militare, del quale si è abusato e si è sopravvalutata l’efficacia. In parte si è trattato di una risposta obbligata, imposta dall’indisponibilità dell’opinione pubblica statunitense a sostenere nuove crociate globali e dall’indebolimento relativo della posizione degli Stati Uniti. Questo nuovo discorso dei limiti si è concretizzato attraverso la definizione di una rinnovata gerarchia geopolitica – centrata sul primato del teatro dell’Asia-Pacifico – ed è stata veicolato per il tramite di un lessico soffertamente realista, come abbiamo visto bene in alcuni discorsi che hanno segnato l’era obamiana, su tutti quello a Oslo in occasione del conferimento del Nobel per la pace.
Nell’elezione del 2016 si è insistito sull’impresentabilità dei due canditati alla presidenza. Questa convinzione è attribuibile solamente all’agency di Obama, nell’aver impresso nuova linfa e credibilità all’ufficio presidenziale? Quanto hanno pesato, invece, la deriva populista di Trump e l’incapacità della Clinton di attirare un elettorato forse orfano della figura di Obama?
Da un lato agiscono dinamiche di lungo periodo che concorrono a un processo di delegittimazione della politica e di chi la rappresenta. Dall’altro vi è un oggettivo imbarbarimento della discussione politica e pubblica, alimentato forse anche dalle nuove forme della comunicazione e che consegue alla polarizzazione politica, finendo a sua volta per esasperarla. In un contesto così diviso e con due elettorati (e partiti) costruiti attorno a identità politiche e culturali sempre più omogenee e antitetiche, il traino primario di mobilitazione diventa l’opposizione alla controparte. E questo contribuisce ad alimentare campagne negative e al degrado del confronto politico. Trump è espressione e prodotto di quel degrado, prima ancora che causa e matrice. Io credo che tra i grandi meriti di Obama vi sia stato quello di aver quasi sempre risposto a questo degrado alzando la barra: offrendo un discorso alto, sofisticato e mai banale, come tanti suoi interventi pubblici ben dimostrano. Dimostrando insomma che quella in atto non può né deve essere una corsa al ribasso: che volgarità, demagogia e violenza verbale non sono naturali o irreversibili nel ciclo politico corrente.
Nell’ultimo biennio abbiamo assistito ad un presidente più spregiudicato, soprattutto in politica estera, nell’utilizzo degli strumenti presidenziali e nel confrontarsi faccia a faccia con l’opposizione serrata del partito repubblicano. Un atteggiamento diverso rispetto al primo biennio, quando sforzi notevoli furono dispiegati nelle riforme interne. Quali sono stai i fattori più determinanti nell’imprimere questa svolta? I successi raccolti da Obama tra il 2014 e il 2016 sono frutto di una gerarchia di priorità o di un potenziale politico finalmente liberato?
Intanto va detto che sono successi fragili proprio in quanto ottenuti utilizzando la leva presidenziale, nella forma di accordi e ordini esecutivi o di azione promossa non tanto per via legislativa – stante la rigida opposizione democratica – ma attraverso strumenti amministrativi, su tutti le indicazioni date alle burocrazie federali responsabili per l’attuazione di determinati provvedimenti. Detto questo, credo che l’attivismo dell’ultimo biennio presidenziale sia stato dovuto a una pluralità di fattori: a) il venire a maturazione di processi attivati prima (penso all’apertura a Cuba o ai negoziati, e poi accordi, con la Cina in materia di cambiamento climatico che sono stati in una certa misura propedeutici all’accordo di Parigi del dicembre 2015); b) la piena consapevolezza che la via della collaborazione bipartisan a lungo cercata e invocata non era in ultimo praticabile; c) l’auspicio – non realizzato – che anche laddove questi provvedimenti fossero stati poi bloccati (è così è stato su immigrazione e parte delle politiche ambientali), essi avrebbero tracciato un primo solco sul quale si sarebbe poi dovuta inserire l’azione dell’amministrazione Clinton.
In uno dei suoi ultimi libri, Fine del secolo americano?, Joseph Nye ha allontanato lo spettro di un presunto declino e di una forzata abdicazione americana dalla leadership nel sistema internazionale, convinto che gli Stati Uniti possano godere ancora di un ampio vantaggio – in termini di hard e soft power – rispetto agli sfidanti. Secondo lei in quest’orizzonte, nel dibattito tra declinisti e trionfalisti, come si può collocare e valutare la presidenza Obama?
Io credo che la categoria di declino, soprattutto nell’accezione molto meccanica con la quale spesso la si usa, sia inutile se non addirittura fuorviante. Rimanda a un’idea ciclica della storia, dove le relazioni internazionali sono una sorta di “gioco a somma zero”, in virtù del quale la preservazione dell’equilibrio ultimo impone che l’ascesa di potenza di un soggetto si combini con la concomitante e speculare riduzione della potenza di un altro. In un mondo caratterizzato da processi d’integrazione globale e forme profonde, e spesso assai contraddittorie, d’interdipendenza, il paradigma declinista insomma non mi pare granché utile. Dopodiché, se applichiamo quei parametri oggettivi cui si affida chi, come Mann o Kennedy, prova a “misurare” la potenza, il quadro che ne esce risulta assai più sfaccettato e gli otto anni di Obama non sembrano affatto indicare un’accelerazione del declino statunitense: la crescita economica si è attestata attorno a un buon 2% anno (con una disoccupazione attorno al 4.5); il PIL statunitense come percentuale di quello globale è tornato a salire; il ruolo egemonico del dollaro non è stato scalfito e anzi si è consolidato (come mostra la percentuale di dollari nelle riserve globali). Poi, ripeto, come la crisi del 2007-8 ben ci ricorda, nessuno ha interesse a un crollo degli Usa, che rischia (e ha rischiato) di portare con sé quello del resto del mondo.
In seguito alla crisi dei mutui subprime del 2008 come si è declinata la risposta economica dell’amministrazione Obama da poco eletta? Su quali misure specifiche e su quali convinzioni si è basata la risposta di Obama alla crisi? Ha trovato ostacoli? Quali sono stati i suoi effetti? Vi è stata discontinuità tra le misure di politica economica e fiscale prese dalla prima amministrazione Obama e quelle due precedenti amministrazioni repubblicane a guida Bush?
La discontinuità con Bush è stata marcata sul piano delle politiche di sostegno alla domanda (con lo stimulus del 2009), molto meno per quanto riguarda la politica di messa in sicurezza del settore bancario e finanziario, rispetto alla quale le due amministrazioni hanno agito in piena continuità (anche se con Obama vi è stato poi uno sforzo di ri-regolamentare tale settore ben più incisivo di quello che, presumibilmente, vi sarebbe stato con Bush). Lo stimulus ha rappresentato il più ampio programma di sostegno alla domanda della storia statunitense (il totale stanziato alla fine è stato di quasi 900 miliardi di dollari), anche se da sinistra vi sono state critiche, ché si riteneva dovesse essere anche maggiore. In estrema sintesi esso ha offerto un mix di tagli alle tasse, trasferimenti a enti locali in grave sofferenza, offerta di beni pubblici e finanziamenti ad attività produttive, soprattutto in ambiti ad alto contenuto tecnologico (come le fonti energetiche rinnovabili). Sono state mosse varie critiche al piano, da destra (per l’impatto sui conti pubblici) e, come detto, da sinistra. La gran parte degli studiosi ritiene che abbia avuto un effetto importante sulla crescita, anche se vi è una forte diversità di valutazione nel definire la natura del moltiplicatore attivato (e alcuni ritengono che la decisione di usare lo stimulus anche come strumento di lotta alla povertà abbia in taluni casi inciso negativamente sul moltiplicatore, portando a sovrainvestire in aree a basso reddito piuttosto che a capacità produttiva sottoutilizzata). Poi, lo stimulus è stato il primo esempio del rigido dogmatismo repubblicano, con le allora minoranze di Camera e Senato indisponibili, salvo rare eccezioni (3 senatori/trici), a votare a favore nonostante le evidenti concessioni dell’amministrazione.
Tra i principali propositi del neo-eletto presidente Donald Trump vi è stato quello di smantellare le varie misure della riforma sanitaria varata da Obama, note sotto il nome di Obamacare. Potrebbe descrivere brevemente la natura dell’Obamacare? Quali ostacoli ha incontrato durante le fasi della sua approvazione e della sua implementazione poi? Quali sono i motivi che hanno suscitato l’accesa opposizione dei repubblicani e poi di Trump?
In poche righe è davvero difficile, poiché si tratta di una riforma complessa e articolata che s’innesta su di un corpo, quello del sistema sanitario americano, quasi grottesco nella sua complicatezza, nella sua farraginosità, nelle sue iniquità e, anche, nei suoi costi (tra il 15 e il 20% del PIL, ben al di là di quanto non costino i sistemi sanitari europei). In estrema sintesi, i pilastri della riforma sono stati: a) l’obbligo d’assicurazione individuale pena il pagamento di una sanzione pecuniaria; b) la proibizione della pratica, prima assai diffusa, di negare l’assicurazione sulla base delle “condizioni pregresse” di chi voleva assicurarsi (le assicurazioni, in altre parole, rifiutavano di coprire persone a rischio per i costi che ciò avrebbe comportato); c) Una serie di sussidi federali e, soprattutto, l’estensione della fascia della popolazione che può accedere alla copertura sanitaria pubblica di Medicaid (destinata alle fasce più povere della popolazione e amministrata a livello statale). Perché è stata così controversa e una parte della popolazione si è mobilitata così ferocemente contro di essa? L’obbligo di assicurazione è stato visto come una invasiva intrusione nella libertà individuale; molti americani erano soddisfatti del tipo di assicurazione di cui godevano (anche perché non vedevano la distribuzione dei costi ultimi e una spirale della spesa ormai fuori controllo); soprattutto ampliare il numero di assicurati, ovviando a un evidente elemento d’ingiustizia sociale, poteva comportare (e ha in taluni casi comportato) un aumento dei costi delle polizze per molti altri.

Fonte: pandorarivista.it 

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