La crisi è quel momento in cui il vecchio muore e il nuovo stenta a nascere. Antonio Gramsci

mercoledì 14 giugno 2017

Un esito imprevisto: Regno Unito ed Europa dopo le elezioni


di Andrea Pareschi
I conservatori sono il primo partito del Regno Unito, ma Theresa May non ha vinto. I laburisti sono minoranza nel Paese e in Parlamento, ma Jeremy Corbyn non ha perso. Basterebbero questi giudizi di massima a dare un’idea della molteplicità delle possibili interpretazioni della general election dell’8 giugno. A due anni di distanza da quella del maggio 2015, e ad un solo anno dal referendum che ha spinto il Regno Unito verso la separazione dall’UE, una tornata elettorale inattesa ha aggiunto un singolare tassello alla peculiare storia recente della politica britannica. Nel decennio in corso, le vicende politiche del Regno Unito sono state marcate da un grado di imprevedibilità superiore al passato: un fil rouge che si è espresso in forme di volta in volta differenti.

Anche in questo caso, le varie “storie nella storia” – gli spunti che si possono trarre dall’esito del voto – hanno implicazioni a più livelli, dalla salute dei partiti britannici al modo in cui il Paese si pone ora di fronte alla questione Brexit. In primo luogo, questo contributo riepiloga brevemente la traiettoria della politica britannica dopo il 2010 per una prospettiva d’insieme. In secondo luogo, traccia un quadro comprensivo dei risultati e si concentra sulle prospettive per il Partito Conservatore e per il Partito Laburista. E da ultimo – cercando di fornire una risposta almeno esplorativa alla “domanda da un milione di dollari” – si concentra su alcuni degli aspetti che hanno portato al risultato insperato e promettente del partito di Corbyn.
Per la seconda volta in pochi anni, le elezioni restituiscono al Paese un inusuale hung Parliament, in cui nessun partito raggiunge una maggioranza assoluta. Nel 2010, la risposta dei conservatori di Cameron – partito di maggioranza relativa – fu dare vita con i liberaldemocratici alla prima coalizione insediatasi a Westminster dopo il 1945. Il governo formato dai due partiti ha retto per cinque anni fino a scadenza naturale della legislatura, contraddistinguendosi per un comune approccio all’insegna dell’austerità fiscale, ma anche per un’incerta agenda di riforme costituzionali ed elettorali naufragate per contrasti intestini. I referendum si sono moltiplicati a tutti i livelli e, in particolare, quello del 2014 sull’indipendenza della Scozia – concesso da Cameron allo Scottish National Party dopo che questo aveva ottenuto una maggioranza assoluta nelle elezioni scozzesi – ha tenuto cittadini e osservatori con il fiato sospeso fino all’ultimo.
Le elezioni del 2015 hanno apportato da un lato novità e frammentazione: lo UKIP, già vincitore delle elezioni europee, ha ottenuto il 12,7% dei consensi, mentre lo SNP ha riportato una clamorosa affermazione conquistando 56 dei 59 seggi scozzesi. Dall’altro lato, però, hanno permesso il ritorno al business as usual, assegnando ai conservatori una pur risicata maggioranza assoluta. Tuttavia, potendo formare un governo monocolore, Cameron ha dovuto ottemperare alla precedente promessa di tenere un referendum sulla permanenza nell’UE. E nel giugno 2016, un variegato insieme di spinte identitarie, tendenze anti-immigrazione, ostilità all’establishment ma pure malcontento per le disuguaglianze economiche – rivendicazioni diverse che le elezioni avevano in un certo senso occultato – ha condotto alla destabilizzante vittoria del Leave, che ha posto fine alla carriera di Cameron e lasciato spazio a May. Dopo aver virato verso la prospettiva di una hard Brexit, il nuovo primo ministro ha cercato di ottenere attraverso nuove elezioni un forte mandato elettorale prima dell’inizio dei negoziati con l’UE.

Il Regno Unito e Theresa May

Lo scenario post-elettorale è illustrato almeno in parte dai dati. Per prima cosa, un notevole rinvigorimento dei consensi per entrambi i partiti maggiori inverte una precedente tendenza al rafforzamento di partiti autonomisti a base “regionale”. Conservatori (42%) e laburisti (40%) ottengono congiuntamente più dell’80% dei consensi per la prima volta dal 1979, migliorando di 5 e di 10 punti percentuali rispetto al 2015. A dispetto della loro campagna mirata ai sostenitori del Remain, i liberaldemocratici – mai riavutisi dalla débâcle del 2015 seguita alla fallimentare partecipazione al governo di coalizione – ottengono appena il 7% e una dozzina di seggi. Da tempo in difficoltà, lo UKIP – paradossalmente indebolito dall’aver già raggiunto il suo principale obiettivo con la vittoria del Leave, oltre che dal ritiro del suo controverso e carismatico ex-leader Farage – scivola nell’irrilevanza. Quanto allo SNP, resta sì il primo partito di Scozia, ma accusa un netto indietreggiamento in termini di voti (dal 50% al 37%) e di seggi (da 56 a 35).
Proprio in Scozia, per i laburisti – il partito più forte fino ad anni non lontani – l’esito (27%) non può essere soddisfacente, ma è un passo avanti rispetto alle deludenti elezioni scozzesi del 2016 e una fonte di sollievo rispetto al 13% che alcuni sondaggi accreditavano loro in aprile. I conservatori, dal canto loro, si aggiudicano il 29% e 13 seggi e confermano una “resurrezione” che ha avuto luogo interamente negli ultimi anni, mentre in precedenza il thatcherismo aveva screditato il partito a Nord del Vallo di Adriano. In Galles, anch’esso terra di storica prevalenza laburista ormai in erosione, i conservatori incrementano i consensi al 34%, ma è il Labour a vantare un exploit formidabile: il 49% del partito di Corbyn è paragonabile soltanto al risultato di Blair nel 2001. Da ultimo, in Irlanda del Nord ottengono 10 seggi gli unionisti radicali di destra del Democratic Unionist Party e 7 i repubblicani radicali di sinistra del Sinn Féin, lasciando a secco i partiti più centristi delle rispettive sponde.
Nonostante questi dati e il primato dei Tories, comunque, Theresa May ha ben poche ragioni di gioire. Il primo ministro uscente ha premuto per indire elezioni anticipate, venendo meno a sue precise e reiterate rassicurazioni in senso opposto, pur di sfruttare un vantaggio largamente accreditato ai conservatori su ogni fronte (in termini di intenzioni di voto, di gradimento di May rispetto a Corbyn, di percezioni di competenza dei partiti). L’obiettivo politico era chiaro: incrementare la limitata maggioranza parlamentare ereditata da Cameron, infliggendo un colpo durissimo al Labour Party, e ottenere un mandato politico per perseguire una hard Brexit. Dopo mesi in cui il mantra da parte del governo era stato il tautologico “Brexit means Brexit”, infatti, il programma elettorale dei conservatori ha chiarito quale fosse lo scenario di riferimento: all’intenzione di perseguire una nuova “profonda e speciale partnership con l’UE”, infatti, ha affiancato l’affermazione che “l’assenza di un accordo è migliore di un cattivo accordo” – ma senza fornire criteri di valutazione – e l’intenzione di limitare l’immigrazione comunitaria abbandonando unione doganale e mercato unico.
Persa la maggioranza assoluta, dilapidati vantaggio nei sondaggi e credito personale, a May non è rimasta altra strada se non cercare il sostegno dei 10 parlamentari del DUP: il cui prezzo pare essere la non-concessione all’Irlanda del Nord di uno “status speciale” che, dopo la Brexit, eviti l’allentamento dei suoi legami con la Repubblica d’Irlanda. Lo sforzo del primo ministro appare anche un tentativo di restare in sella, nella consapevolezza che, se i conservatori restano al potere, possono più difficilmente permettersi i costi (in termini di tempo e contrasti interni) legati all’elezione di un nuovo leader, nonostante l’impopolarità di quello in carica. May si avvia decisamente vacillante verso l’imminente inizio dei negoziati con l’UE, a maggior ragione dopo il crollo della sterlina, e priva di una maggioranza in un Parlamento che dopo il processo negoziale dovrà esprimere un voto per ratificare l’accordo finale. La “strong and stable leadership” promessa durante la campagna elettorale appare ora un ironico miraggio.

Il Regno Unito e Jeremy Corbyn

Dal canto suo, Corbyn non ha vinto, ma la sua proposta di cambiamento è viva e vegeta, molto più credibile ora che in passato. La performance estremamente convincente del partito è ancora più notevole se si considera che la sua traiettoria, sotto la guida di Corbyn, era stata preoccupante nonostante gli aumenti delle iscrizioni. Dopo la sua imprevista elezione, Corbyn aveva ricevuto critiche per l’impreparazione nella leadership e per il ruolo defilato nella campagna per il Remain: i contrasti duri e continuativi con la parte centrista del partito lo avevano costretto a subire una mozione di sfiducia interna, sottoscritta da oltre l’80% del gruppo parlamentare laburista, e a vincere una nuova elezione. Anche le elezioni locali tenutesi appena il mese scorso avevano comportato una dura sconfitta. Che l’uomo che era stato un “ribelle” dell’ala sinistra potesse ricompattare un partito reso diviso dalla sua stessa presenza, ristabilire il legame ormai incrinato con il tradizionale elettorato laburista di estrazione operaia e convincere un’opinione pubblica che in larga parte non sembrava condividerne le idee economiche e culturali, non appariva probabile.
La campagna elettorale ha fatto la differenza. È difficile valutare l’impatto personale dei leader, ma la freddezza e la vaghezza mostrate da May sono state contrapposte da diversi commentatori alla franchezza e alla coerenza di Corbyn: mentre il leader laburista ha figurato assai meglio nelle interviste che hanno punteggiato la campagna, il pregiudizio nei suoi confronti si è affievolito. Secondo dati YouGov, ad una domanda su chi reputassero il migliore primo ministro i britannici rispondevano in favore di May con scarti di 30 punti percentuali per tutto il 2016, e ancora a metà aprile il differenziale era addirittura di 39 punti (54% contro 15%): in un solo mese e mezzo, la differenza si è assottigliata fino a 13 punti. Similmente, ad un altro quesito sul fatto che May stesse facendo “bene” o “male”, un differenziale che fino ad aprile non era mai sceso sotto i 15 punti diventava di soli 9 a fine maggio e di -5 a inizio giugno; per Corbyn, il cui differenziale a fine maggio era ancora di -28 punti (30% contro 58%), a inizio giugno la valutazione negativa si riduceva a -2 punti (42% contro 44%).
Un’altra chiave di lettura è considerare le questioni ritenute più importanti dall’elettorato, perché una parte ormai sostanziale dei cittadini delle democrazie occidentali vota tenendo conto della competenza dei partiti oltre che delle loro posizioni. Secondo le rilevazioni Ipsos MORI di maggio 2017, il sistema sanitario (NHS) ha affiancato la questione europea come tematica più “sentita” dall’elettorato: l’immigrazione, centrale nelle elezioni del 2015 e nel referendum del 2016, ha avuto un ruolo secondario, al apri di economia e istruzione. Se l’elezione si fosse giocata solamente sulla Brexit, il vantaggio dei conservatori in termini di reputazione sarebbe stato difficile da compensare: nonostante siano state le divisioni interne ai conservatori a portare al referendum, ancora a maggio 2017 l’opinione pubblica riteneva molto più affidabili in materia i Tories (36%) dei laburisti (17%). In altri ambiti il Labour ha nettamente guadagnato terreno in campagna elettorale: nella gestione del sistema sanitario, che tradizionalmente li vede preferiti, il loro vantaggio è passato da soli 7 punti percentuali a fine aprile a ben 16 a fine maggio.
Da ultimo, il programma laburista è stato bene accolto. È vero, è rimasto vago sulla Brexit, pur impegnandosi a garantire i diritti dei cittadini comunitari nel Regno Unito e auspicando di mantenere la partecipazione al mercato comune. Ha rigettato “falsi obiettivi” sulla quantità di immigrati desiderati, anche se ipotizzando criteri di regolamentazione, e ha difeso l’accoglienza di rifugiati in accordo con il diritto internazionale: un’impostazione di principio in difesa dei diritti umani mantenuta in politica estera, dove peraltro Corbyn è saggiamente venuto a patti con il partito impegnandosi al rinnovo dei dispositivi di deterrenza nucleare. In termini economici, soprattutto, si è trattato di un programma solidamente socialdemocratico: una banca nazionale per investimenti di lungo termine, finanziamenti al sistema sanitario, abolizione delle tasse universitarie e ripristino di sussidi a studenti bisognosi, più la nazionalizzazione di ferrovie, poste e (nel lungo periodo) energia. Non solo: lo sforzo di prevedere in modo relativamente preciso coperture per le misure proposte – principalmente agendo attraverso la tassazione sui redditi alti e l’imposta sulle società – e l’impegno a raggiungere il pareggio nella spesa corrente hanno pagato, rispetto alla scarsa attenzione riservata alle coperture economiche dal programma dei conservatori, finito nel mirino pure per l’ormai famigerata dementia tax.
Occorrerà tempo per comprendere fra quali elettori il messaggi laburista ha fatto breccia: fino a che punto, ad esempio, l’impennata dei consensi del Labour si debba a ex-sostenitori nuovamente attratti dopo anni di distanza, oppure a una maggiore affluenza al voto tra i giovanissimi, che i primi dati sembrano peraltro confermare. Se così fosse, il vantaggio di rimanere all’opposizione senza dover affrontare i duri negoziati sulla Brexit, unitamente ad un neonato consenso presso un elettorato giovane che nel Regno Unito è generalmente distaccato dalla politica più che nel resto dell’Europa occidentale, offrirebbero ai laburisti una solida base di speranza impensabile fino a poche settimane fa.
Fonte: pandorarivista.it 

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