La crisi è quel momento in cui il vecchio muore e il nuovo stenta a nascere. Antonio Gramsci

martedì 13 giugno 2017

Nell’universo classista delle ripetizioni private

di Christian Raimo
“Ci sono dei professori che fanno ripetizioni a pagamento. Invece di rimuovere gli ostacoli, lavorano a aumentare le differenze. La mattina sono pagati da noi per fare scuola eguale a tutti. La sera prendono denaro dai più ricchi per fare scuola diversa ai signorini. A giugno, a spese nostre, siedono in tribunale e giudicano le differenze. Non è che il babbo di Gianni non sappia che esistono le ripetizioni. È che avete creato un’atmosfera per cui nessuno dice nulla. Sembrate galantuomini”.
Nel 1967 don Lorenzo Milani e i suoi ragazzi della scuola di Barbiana in Lettera a una professoressa raccontavano una scuola classista che discriminava i figli dei contadini (i Gianni) dai figli dei dottori (i Pierini); a distanza di cinquant’anni esatti l’accusa potrebbe essere identica e resterebbe ugualmente inascoltata.
Da insegnante di liceo mi capita spesso di partecipare ad assemblee sindacali e politiche, dibattiti e convegni, e ogni volta che pongo il problema delle ripetizioni è come se nominassi un tabù. La maggioranza dei colleghi che ho conosciuto dà ripetizioni; in alcuni casi si tratta di una sorta di doppio lavoro, in altri è diventato – in termini economici e di tempo – il lavoro principale. Eppure il tema delle ripetizioni private non ha interessato nessuna delle proteste che hanno accompagnato la legge Gelmini o quella sulla Buona scuola.
Di fronte a riforme che non hanno affrontato per nulla la questione della remunerazione dei docenti – il contratto nazionale è fermo da dieci anni – le ripetizioni sono per molti insegnanti, e per quelli precari ancora di più, una specie di salvagente economico e allo stesso tempo un limbo, una galassia gassosa. Metterle in discussione, ripensarle, sembra impossibile.
Cosa prevede la legge
Dal decreto legislativo numero 297 del 1994 all’interpello 40/2010 del ministero del lavoro, agli insegnanti viene chiesto di avvertire i dirigenti nel caso in cui decidano di dare ripetizioni (e quindi ottenere un salario aggiuntivo) e gli si chiede anche di non farle agli studenti del loro stesso istituto e di dichiarare al fisco le entrate. Ma tutto questo, ovviamente, non accade.
Anzi, l’idea condivisa è che le carenze del sistema scolastico non siano transitorie ma strutturali, e che le ripetizioni private non siano un’eccezione. Così, accanto agli istituti statali, è normale che esistano e si moltiplichino centri studi, insegnanti privati, siti dedicati.
Per chi vuole provare a fare l’insegnante dopo essersi laureato, tipo me quindici anni fa, è quasi obbligatorio passare da questa trafila, disseminare curriculum tra scuole paritarie e centri studi, attaccare foglietti davanti ai cancelli delle scuole pubbliche, chiedere agli amici di far partire un passaparola; e mentre ci si districa nel labirinto delle vie d’accesso a una cattedra nell’istruzione pubblica – scuole di specializzazione, tirocini formativi attivi, graduatorie a esaurimento, corsi regionali, chiamate dirette – si passano due, tre anni, se non cinque o dieci, a farsi le ossa dispensando corsi di recupero e ripetizioni.
I centri studi
L’alta richiesta di lezioni di recupero genera la crescita di un settore che si regge sul malfunzionamento del sistema scolastico. Ci sono centri studi che hanno finanziamenti dalle regioni per aiutare ragazze e ragazzi di scuole elementari, medie e superiori; ma ce ne sono altri che sono semplici “diplomifici” pronti a imbarcare tutti quelli che vogliono una promozione facile; e ci sono poi quelli dove si possono andare a prendere ripetizioni ogni tanto.
Studenti bocciati alle superiori possono frequentarne uno, facendo lezioni in minigruppi o seguendo corsi individuali, recuperare l’anno perso e tornare tra i banchi della scuola pubblica. Quanto può costare il recupero di un anno? Sui tre-quattromila euro; l’offerta di mercato è alta proprio dove il bene offerto dalla scuola pubblica è insufficiente. La nicchia non è così piccola, coordinatori e responsabili di molti centri studi sono consapevoli di questo vuoto e cercano di ricavarsi il loro spazio.
Ma quando gli chiedo di parlare del loro lavoro, non si vedono come persone che sfruttano economicamente un difetto del sistema; si considerano piuttosto una toppa che almeno in parte rimedia alle falle di una barca che altrimenti affonderebbe molto rapidamente.
“Abbiamo bisogno dei centri studi. I centri studi sono un sostegno alla scuola pubblica, usano un metodo anche migliore. Spesso anche gli insegnanti che arrivano dalla scuola pubblica e si propongono da noi non hanno le capacità che servono qui: quelle di lavorare in modo tempestivo sulle fragilità dei ragazzi”, mi dice Alfredo Giannini, insegnante e coordinatore del centro studi Minerva (circa cento iscritti all’anno a Roma). Giannini sostiene convinto che senza realtà come la sua molti studenti abbandonerebbero la scuola.
Il coordinatore di un altro centro studi del Lazio, che preferisce rimanere anonimo, è anche più netto: “Senza di noi la dispersione scolastica sarebbe alle stelle. I ragazzi che non riescono a integrarsi nella scuola pubblica, nel centro studi trovano un ambiente dove possono essere seguiti in maniera individuale”.
La segretaria e coordinatrice del centro studi Performance scuola di Napoli mi dice: “I ragazzi si lamentano perché le classi della scuola pubblica sono affollate, hanno troppi compiti da svolgere a casa. Gli studenti non riescono a tenere il passo con lo studio, gli insegnanti dedicano poco tempo all’aspetto umano. Chi resta indietro è spacciato, e le classi vengono decimate”.
Usano un tono autorevole, mi fanno discorsi ammantati di retorica pedagogica, sono consapevoli che c’è bisogno di loro. Ma i centri studi nella maggior parte dei casi non forniscono una preparazione di qualità, non richiedono un impegno costante ai ragazzi, sebbene assicurino quasi sempre la promozione. Riducono i programmi alle nozioni fondamentali o alla compilazione di una tesina per ottenere l’idoneità alla classe successiva, insomma assolvono solo a una parte della funzione educativa.
In un’intervista di qualche tempo fa, un insegnante di uno di questi centri analizzava diversi punti critici: “Gli studenti non sono realmente tenuti a studiare. Possono non presentarsi a lezione, non fare i compiti a casa, non studiare per le verifiche e non seguire la lezione. Non ci sarà nessuna conseguenza, nessuno li punirà. Hanno pagato per avere un servizio: non sono loro che devono rendere conto all’insegnante, è il contrario”.
Tutto questo è possibile perché questi centri sono ormai percepiti come una specie di ammortizzatore sociale – quasi l’unico, viste le poche alternative offerte dalla scuola pubblica – rispetto alla dispersione scolastica.
Una parentesi: la dispersione scolastica
Su quest’ultimo tema bisogna aprire una parentesi, perché aiuta a capire il terreno di coltura in cui affondano le radici i centri studi, le ripetizioni fatte da singoli insegnanti e i siti dedicati.
Non è mai al centro del dibattito pubblico, ma il più grande problema della scuola italiana è questo: nel 2016 la dispersione scolastica è ancora al 14,7 per cento, con picchi del 24 per cento in Sicilia o in Sardegna. La media europea è dell’11 per cento, l’obiettivo per il 2020 è del 10 per cento. Di fatto oggi in Europa stanno peggio dell’Italia solo la Spagna, il Portogallo, Malta e la Romania.

Fonte: Internazionale 

Nessun commento:

Posta un commento

Nota. Solo i membri di questo blog possono postare un commento.