La crisi è quel momento in cui il vecchio muore e il nuovo stenta a nascere. Antonio Gramsci

mercoledì 14 giugno 2017

Il cinema reazionario di Stato. Cuori puri, Fortunata e l’interesse culturale

di Giacomo Giubilini
1. Nel sacerdozio e golgota da espiazione necessario per fare un film e esordire nel cinema italiano attraverso la raccolta di prebende statali (Mibact e Rai Cinema) non manca mai il passaggio obbligato dal film pauperista come garanzia di attivazione di fondi. E’ il sigillo vittimario all’ideale cui tutti, non si sa bene perché, dovrebbero tendere con scolastico afflato: l’interesse culturale. Una sorta di iniziazione all’età del regista adulto, dell’autore a tutto tondo, dell’autore che risponde con un cinema di genere ai dettami del suo mondo ombelicale. Il safari rituale dei registi esordienti italiani, tipico crampo da entomologo voyeurista, e tipica retorica da penitente che ha deciso di darsi al cinema cercando conferme non in se stesso e in quello che conosce meglio e ha da dire, ma all’interno del suo mondo di padri nobili, che lo devono legittimare. Infatti questo cinema italiano “di qualità” e “necessario” è un cinema per amatori, paragonabili ai filatelici e ai numismatici. Il suo spazio privilegiato è un’area gioco, una riserva indiana igienizzata, museale e festivaliera; un luogo di reciproco riconoscimento riservato a minoranze che si pensano avvertite e non fuori dal mondo – in primo luogo il mondo cinematografico.
E’ un cinema cioè che si nutre delle proprie asfissie culturali e ambientali. Nato morto per eccesso di impegno, non ha bisogno del pubblico. Che infatti non lo segue. Ha bisogno invece di assecondare la propria prefabbricata idea di Cultura per attivare una serie di meccanismi economici e simbolici, sempre negati, che vivificano un capitale culturale. Il risultato è una censura inconscia o ricercata: senza alcun spiazzamento e senza conturbante, ne deriva un cinema fatto di falsi moralismi che mascherano veri risentimenti (fino a toccare il più profondo risentimento di ogni critico: non aver mai fatto cinema). Mai visti, ad esempio, film di registi esordienti italiani, ricchi per reddito personale, che parlino appunto di ricchi, se non in stucchevoli chiavi horror o di denuncia. Con l’eccezione forse del più bravo, il Muccino massacrato dalla critica, l’unico ad avere conseguito un solido successo commerciale e professionale.
E’ un cinema pensato per assecondare gendarmi di senso, ovvero il moralismo reazionario dei critici con le loro ortopedie minimaliste e anemiche, fabbricate a colpi di no estetici e emotivi (no al narcisismo dell’autore, no all’enfasi vitale, no alla passione crudele, no ai dialoghi ‘scritti’, no all’estetismo e quindi in sintesi no al cinema). Fermo restando che questo bisogno di consenso non produrrà registi migliori. ma ripetitori balbi di solfe e sbadigli. Un cinema che possiamo sintetizzare nel genere “nuchismo delle periferie”. Tra gli stilemi più ricorrenti, ecco infatti una ridda di personaggi afasici inseguiti riprendendone le nuche in scenari decisamente brutti ma tanto esotici e sinceri. Scenari fatti di graffiti, reti arrugginite, motorini senza casco, grugni scimmieschi e pietrificazione sociale, condita però di banalità e retropensieri borghesi. In sintesi: sei povero ma ti resta l’amore, la bellezza e la sincerità. Mai la rivolta. Dappertutto un pedinamento di derelitti, scrutati nei loro fremiti vitalistici da animaletti esagitati; un sentimentalismo stucchevole che ne riscatta l’emarginazione con l’amore che salva, e salva soprattutto se non è consumato. Tratto comune a queste macchiette reazionarie è l’infelicità e l’impossibilità del godimento. La donna, in particolare, è quasi sempre vittima: madre coraggio, madre messaggio, succube al dominio feudale del maschio.
2. Prendiamo due film appena usciti, Fortunata e Cuori puri, esempi paradigmatici di un cinema misogino. Nel primo, Fortunata (Interesse culturale Mibact 2016: 300 mila euro), una donna, madre abbandonata dal marito che però non disdegna di violentarla quando gli va, accudisce come un’infermiera e vestale un povero di spirito, bipolare ma sincero, rustico e bello. Si tratta di un cavernicolo eterno bambino, buon selvaggio pieno di cuore, che vive con una mamma rimbambita dall’arte; un’attrice colta (a differenza di lui), diciamo pure una grande attrice che sogna i tempi andati, accudita dal figlio-badante. Finché, giustamente, il suo spirito ferino non l’affoga per liberarsi di questo eccesso di scalogna. Mammina è morta stecchita. A perturbare questo micragnoso microcosmo di sfighe, anche lavorative, arriva un rapace principe azzurro borghese, psicologo e quindi esperto di anima e razionalità. Presto sedotto e destabilizzato dall’amore folle, dall’attrazione animalesca per la scimunita marginale di turno. In tutto questo la protagonista resta completamente passiva: stuprata, fregata, tartassata, privata della figlia e pure schiacciata da un background traumatico orchestrato dal padre primo e unico maschio amato sul serio, morto affogato davanti ai suoi occhi. Scongiuri e riti scaramantici dello spettatore si sciolgono in calde lacrime quando si capisce che l’unica cosa che davvero conta per lei è la figlia, amore della mamma. Tutto culturalmente interessantissimo.
Nel secondo film, Cuori puri (Interesse culturale 2016 e opera prima: 100 mila euro), una ragazzina vive nel carcere simbolico edificato da una madre nevrotica e castrante, strega sessuofoba che le nega il cellulare e ne controlla, occhiuta, la verginità. In periferia? A Roma? Pare di sì. La ragazzina del resto, non si sa bene perché, ci tiene ad assecondare questa matta, sottolineando che è pur sempre la sua mammina, e che comunque lei (sia detto per il visto censura) ha compiuto diciotto anni. Ma il suo visino santo da lolita rivela un mix micidiale di passività ed ebetismo oltre che un’oltraggiosa, almeno per il genere cui il regista l’ha relegata, bellezza da vivisezionare: ripresa depilata, ripresa mestruata, ripresa mentre fa pipì, sempre spiata. La sua colpa pare consista nell’avere un corpo, anche un corpo stupendo. E infatti quando lei decide finalmente di appropriarsi di un’erotica della leggerezza e scopare con un ragazzo, privarsi di tutti i rifiuti simbolici del suo mondo e soprattutto della verginità, invece di godersela fantastica di essere stata stuprata. e accusa il poveretto. Alla fine di questo golgota di nuche e ragazzine schiacciate dalla colpa che non usano i cellulari, non stanno su facebook e vivono in un film di fantascienza, lei, la santa, riabbraccia l’amato sotto un sole livido, tipicamente periferico: i due sono legati a un destino trascendente (Dio?) che li relega laggiù a non godere. Auguri e tanto interesse, meglio se culturale. Nel frattempo i critici, ormai stanchi, possono all’unisono trovarci un Robert Bresson e una via crucis per pochi intimi. Còlti.

Fonte: leparoleelecose.it

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