La crisi è quel momento in cui il vecchio muore e il nuovo stenta a nascere. Antonio Gramsci

mercoledì 14 giugno 2017

Diritto del lavoro e norma protettiva. Efficienza economica e possibili letture alternative

di Pietro Gatta
Il contributo si propone di mettere in evidenza come determinate correlazioni spingano sempre più alla ricerca di una tutela del lavoro – da considerare alla stregua di un “bene comune” – da garantire indipendentemente dalla relazione contrattuale. La strettissima congiunzione tra processi di trasformazione del sistema economico, impulsi comunitari volti a “dettare” precise e determinate misure e diritto del lavoro (intendendo lo stesso non solo quale risultato del dettato normativo ma anche come prodotto delle decisioni della giurisprudenza) costituisce un dato di fatto sempre più evidente. Dimostrazione di questa interdipendenza, per quanto riguarda il nostro Paese, è costituita dalle riforme dell’ultimo decennio, messe in atto con l’evidente scopo di fronteggiare il mutamento del capitalismo.
L’ampiezza e la profondità delle riforme strutturali del mercato del lavoro, attuate sotto la spinta di esigenze dell’Unione Europea, sono indubbiamente senza precedenti.
A parere di molti, il lavoro, in quanto oggetto di una relazione contrattuale che si immagina radicata in un contesto di mercato, rischia da qualche anno di essere dominato da teorie di tipo iperliberista ([1]). Tali ideologie – che si manifestano soprattutto nelle correnti di pensiero giuridico che si richiamano alla c.d. analisi economica del diritto –  spingono a valutare innanzitutto la congruenza della norma protettiva con l’obiettivo di maggiore efficienza economica.
Prova evidente di quanto detto è rappresentata dalla complessiva modifica della disciplina dei licenziamenti in Italia, ispirata dall’intento di dare flessibilità alle imprese, ma anche sicurezza ai lavoratori (c.d. flexicurity). Modifica avvenuta in due tappe: con la legge 92/12 e con il d.lgs. n.23/15. La prima, come si ricorderà, ha costituito l’esito di una accesa discussione parlamentare e del duro confronto con le parti sociali. Essa rappresenta il frutto del compromesso tra posizioni diametralmente opposte tra forze politiche e sindacali che non volevano modificare la disciplina pregressa e forze che intendevano eliminare la tutela reintegratoria per sostituirla con la sola tutela indennitaria. Un punto di incontro si è trovato nella soluzione che ha conservato la tutela reale solo per le ipotesi più gravi di licenziamento nullo, annullabile o inefficace per mancanza di forma scritta, mentre ha degradato la tutela per i casi di licenziamento non adeguatamente motivato sotto il profilo oggettivo o altrimenti viziato nella forma.
L’articolo 18 S.L. è stato quindi integralmente riscritto. Al posto dell’unica tutela reale, la disciplina successiva alla riforma del 2012, prevede una articolata gamma di soluzioni, dalla più incisiva alla più debole in relazione a una valutazione generale e astratta delle diverse fattispecie operata dal legislatore e al concreto apprezzamento operato dal giudice dei fatti posti a base del licenziamento. A distanza di due anni, in presenza di una crisi occupazionale profonda che ha fatto registrare tassi di disoccupazione molto elevati, si è realizzato un più radicale passo in direzione della piena liberalizzazione della disciplina dei licenziamenti. Ora, appare evidente che il licenziamento, per la sua particolare rilevanza sociale, rivesta un ruolo di particolare importanza: non a caso, del resto, attorno ad esso si è andata sviluppando, nel corso del tempo, una fitta trama normativa e giurisprudenziale che, come appena detto, ha portato il legislatore a intervenire a più riprese sulla materia ([2]).

La giurisprudenza sul licenziamento

Da questa premessa, che può apparire astratta, derivano alcune conseguenze pratiche. Corollario determinante e in egual modo incisivo (all’interno del sistema economico-sociale), infatti, sono le ultime pronunce di legittimità in tema di licenziamento per giustificato motivo oggettivo ([3]). L’orientamento (c.d. liberale) che sempre più prende corpo nella giurisprudenza di merito e di legittimità è un riflesso dell’alleggerimento delle tutele approntate dall’ultimo ciclo di riforme (2012-2015). Entrando nello specifico, si può dire che: attraverso il controllo sul giustificato motivo oggettivo di licenziamento – vale a dire: la presenza di ragioni riguardanti l’impresa che non permettono la prosecuzione del rapporto di lavoro, quale ad esempio un’operazione di riorganizzazione – la giurisprudenza è impegnata a contemperare i principi di cui agli articoli 4 e 41 Costituzione, ovvero quello del diritto al lavoro, della libertà di iniziativa economica e della necessaria utilità sociale della stessa.
A tal fine è indispensabile descrivere quanto ritenuto da due orientamenti (il primo ([4]) valorizza il principio della libertà di iniziativa economica espresso dall’art.41 Costituzione, mentre il secondo ([5]) è più incline alla tutela del principio del diritto al lavoro, espresso dall’art.4 Costituzione) volti a determinare quali siano i confini delle operazioni di riorganizzazione legittimanti il recesso. Punto di approdo del dibattito è la sentenza n.25201 del 7/12/2016 con la quale la sezione lavoro della Corte di Cassazione è intervenuta sul licenziamento per g.m.o. condividendo, tra i due orientamenti interpretativi, quello più incline a proteggere lo spazio della libera iniziativa economica privata. Vale a dire: è stata riconosciuta la rilevanza della ragione non solo economica ma anche organizzativa come requisito o estremo del giustificato motivo oggettivo.
La sentenza indicata dà atto dei due orientamenti: il primo esige che il licenziamento sia determinato dalla necessità di far fronte a situazioni sfavorevoli non contingenti che impongono scelte in termini di riassetto organizzativo dell’azienda e, tra queste, la necessità di sopprimere determinati posti di lavoro. Lo snodo argomentativo rilevante di questo orientamento è quello per cui, vigendo nell’ordinamento il principio di stabilità del posto di lavoro a tempo indeterminato, il datore di lavoro non può procedere come e quando vuole ai riassetti organizzativi dell’azienda, valorizzando i valori della dignità del lavoratore e della tutela del lavoro al cospetto di concetti quali produttività e competitività. Il secondo degli orientamenti presenti (“orientamento liberale”) afferma la legittimità della risoluzione del rapporto di lavoro decisa dall’imprenditore a seguito di riorganizzazioni e ristrutturazioni aziendali dal medesimo addotte nell’esercizio della libera iniziativa economica, quali ne siano le singole finalità e quindi anche quelle volte al risparmio di costi o all’incremento di profitti.
La recente giurisprudenza di legittimità, collocandosi sul versante “liberale” del dibattito, fissa gli obiettivi del profitto, della competitività e produttività in una posizione di preminenza rispetto a valori costituzionali quali la tutela del lavoro e la stessa dignità del lavoratore, reputando i primi come essi stessi un bene per l’intera collettività. Questo approccio rende il contratto uno strumento più funzionale al mercato che alla garanzia di determinati diritti, persino fondamentali, in capo al lavoratore. Considerata la delicatezza della faccenda, dal punto di vista strettamente giuridico, sarebbe opportuno un rinvio della problematica questione alle Sezioni Unite, mentre, visti i dati sull’occupazione non certamente incoraggianti, dal punto di vista di sistema, muoversi in altre direzioni.

La tutela del lavoro nel caso tedesco

Strada intrapresa, a quanto pare, dalla SPD in Germania in vista delle elezioni politiche previste per settembre di quest’anno e dal governo di Antònio Costa in Portogallo ([6]). Martin Schulz vuole smontare il più grande totem della sinistra tedesca: l’Agenda 2010. Il candidato della SPD vuole rivedere l’ambizioso pacchetto di riforme del lavoro e della protezione sociale voluta da Gerhard Schroeder che dodici anni fa costò alla SPD lo zoccolo duro del suo elettorato – e al cancelliere socialdemocratico la rielezione – ma che diede all’economia e al mercato del lavoro tedeschi una spinta gigantesca. È il segnale più evidente che il candidato socialdemocratico vuole spostare il suo partito a sinistra.
Anzitutto, Schulz vuole allungare di nuovo i tempi dell’assegno di disoccupazione, che Schroeder aveva accorciato per incoraggiare un impegno più attivo nella ricerca di un nuovo impiego – e perché garantiva anche un risparmio sulla spesa pubblica.
Altro tema caldo è il precariato. Il candidato dei socialdemocratici vuole rendere più stringenti le regole per il ricorso ai contratti a tempo, ad esempio reintroducendo il regime della causalità quale imprescindibile presupposto per la stipulazione dei contratti destinati a concludersi in un breve termine. Nella proposta di Schulz anche l’idea di estendere la cogestione – dunque la presenza dei sindacati ai vertici delle aziende – alle imprese che sono in Germania ma sottostanno a regimi giuridici di altri paesi. E chi organizza le elezioni dei consigli di fabbrica dovrà essere più protetto dai licenziamenti. Progetto e propositi sicuramente da valutare nel futuro ma che hanno il pregio di lasciare intravedere la possibilità di politiche che non vadano necessariamente nell’unica direzione indicata fino ad oggi.
Appare sempre più impellente, e, i casi di Germania e Portogallo lo dimostrano ([7]), la necessità di tutelare il lavoro prima e oltre il contratto, quale fulcro attorno al quale gravita la stessa essenza di essere persona e cittadino, e non solo nel momento della qualità di contraente. Percorso che deve partire necessariamente dal tentativo di mettere in discussione – attraverso letture alternative del sistema – quella concatenazione (crisi economica-modifica in senso liberale degli apparati normativi-crisi sociale-rottura coesione sociale) che si adagia sulla visione della norma protettiva quale strumento per raggiungere la mera efficienza economica (non strutturale).

[1] M. Esposito, L. Gaeta, R. Santucci, A. Viscomi, A. Zoppoli, L. Zoppoli, Istituzioni di diritto del lavoro e sindacale, V. III, Giappichelli, Torino, 2015.
[2] M. Roccella, Manuale di diritto del lavoro, Giappichelli, Torino, 2015.
[3] Per i non addetti ai lavori, la nozione di giustificato motivo oggettivo è richiamata al cospetto del licenziamento per ragioni che attengono alla sfera dell’impresa (“inerenti all’attività produttiva, all’organizzazione del lavoro e al regolare funzionamento di essa”).
[4] Corte di Cassazione, sezione Lavoro, 7 dicembre 2016 n. 25201.
[5] Corte di Cassazione, sezione Lavoro, 21 dicembre 2011, n.16144.
[6] Per ragioni di spazio dedicherò qualche cenno solo alle proposte della SPD.
[7] Sul versante opposto potrebbe citarsi l’esempio francese e la riforma del diritto del lavoro (Loi Travail) attuate lo scorso anno. Recenti sono le vicende sulla sorte del Parti Socialiste alle ultime elezioni in Francia.
Fonte: pandorarivista.it 

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