La crisi è quel momento in cui il vecchio muore e il nuovo stenta a nascere. Antonio Gramsci

mercoledì 14 giugno 2017

Da Pomigliano ai voucher: riempiamo le piazze di Roma il 17 giugno

di Umberto Romagnoli
Non è stato finora osservato che la lesione subita dalla Cgil coi suoi milioni di rappresentati (oltreché dalla democrazia tout court) è qualitativamente identica a quella subita nel 2010, a Pomigliano D’Arco, dalla Fiom con le sue migliaia di iscritti (oltreché dalla garanzia costituzionale della libertà sindacale). La differenza è solo di quantità: riguarda l’entità della sbrego che è stato prodotto. Allora, la Fiom venne estromessa dalla Fiat per non aver sottoscritto un contratto sostanzialmente imposto e l’espulsione era apparentemente legittimata dalla formulazione letterale dell’art. 19 st. lav. nella versione modificata dall’esito di un (improvvido) referendum del 1995.
Nella riformulazione uscita dalla urne, infatti, la norma-pivot della nostra legislazione di sostegno sindacale subordinava la titolarità dei diritti di attività sindacale nei luoghi di lavoro alla sottoscrizione del contratto collettivo applicato nell’unità produttiva. Per ristabilire la legalità la Fiom ha dovuto rivolgersi alla Corte costituzionale, la quale ne ha ordinato la riammissione nei luoghi di lavoro emanando una sentenza appartenente alla tipologia delle sentenze c.d. additive, che sono assai infrequenti nella sua giurisprudenza. Nel 2013, ha riscritto la norma; e ciò per evitare che il dissenso di un sindacato sia punito sacrificando la libertà dei lavoratori di scegliersi la rappresentanza sindacale che vogliono.
Orbene, quel che accade oggi ripropone in misura esponenziale, fino ad ingigantirlo, il problema di come si possa reagire all’alterazione delle regole del gioco democratico quando la slealtà dell’interprete lo spinge a sfruttarne cinicamente veri o presunti difetti.
Frode costituzionale. Schiaffo alla democrazia. Scippo di referendum. Strategia dell’inganno.
I commenti non potevano essere meno indignati. Però, è da poco meno di 50 anni che in Italia si fanno referendum – quello istituzionale del 1946 è un altro film – e non era mai successo che il vascello allestito dai referendari naufragasse proprio quando aveva raggiunto il porto. Anzi, paradossalmente sembrava che il governo non aspettasse altro che la spinta referendaria per abrogare le disposizioni di legge relative al voucher. Infatti, era già cominciato il conto alla rovescia in attesa del giorno fissato per il responso popolare e il governo lo ha bruscamente interrotto nel modo più frettoloso possibile: ha abrogato l’intera normativa e con l’abrogazione ha reso superflua la celebrazione del referendum; lo ha fatto addirittura ricorrendo alla decretazione d’urgenza, poi regolarmente approvata dal Parlamento.
Questo è accaduto la scorsa primavera. E’ alle soglie dell’estate che si è registrato il dietro-front governativo. L’istituto del voucher è stato reintrodotto. Con alcune modifiche. Che ci vuol poco per capire come non vadano nella direzione voluta dai referendari: basta confrontare la nuova disciplina con la normativa del lavoro occasionale contenuta nella “Carta dei diritti universali del lavoro” elaborata un anno fa dalla Cgil.
Questo modo di procedere – in due tempi e con propositi nettamente contrastanti (anzi, platealmente opposti) – non si era mai visto. E nemmeno ipotizzato. Per questo, non è vietato né dalla costituzione né dalla legge del 1970 che regola l’istituto del referendum. Essa prevede che il governo possa evitarne lo svolgimento modificando la norma contestata dai referendari in modo da andare incontro alle loro istanze, ma stabilisce che spetta alla Corte di Cassazione valutare, sulla base di un giudizio che è più di natura tecnica che di merito, se le modifiche sono incisive nella misura sufficiente a soddisfare la richiesta dei referendari. Pertanto, se la Cgil adirà (come è stato anticipato) la Corte costituzionale, non è da escludere che quest’ultima finisca per censurare l’incostituzionalità dell’assetto regolativo dell’istituto referendario, pronunciando una sentenza additiva. Anche stavolta. Dovrebbe cioè aggiustare la legge vigente che ha il torto di non vietare esplicitamente (o, il che è lo stesso, consentire) manovre come quelle praticate dal governo in occasione della vicenda di cui si sono occupate le cronache di questi giorni, sanzionando in maniera appropriata il comportamento fraudolento. In ogni caso, però, a prescindere dai tempi lunghi per arrivare ad un esito del genere, è pacifico che nemmeno l’eventuale sentenza dell’Alta Corte potrà cancellare il voucher che, intanto, è tornato nell’ordinamento.
Per questo, non resta che riempire le piazze di Roma il 17 giugno; e contarsi per poter contare.

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