La crisi è quel momento in cui il vecchio muore e il nuovo stenta a nascere. Antonio Gramsci

mercoledì 11 novembre 2015

Contro la repressione. Per una lotta creativa

di Andrea Baldazzini
Nel suo ultimo articolo dal titolo “La forza come sintomo di debolezza” Paolo Missiroli pone l’attenzione su alcuni temi che sono di cruciale importanza per tutti coloro che quotidianamente fanno politica e per chi è da tempo impegnato nel tentativo di riagganciare il momento della pratica a quello dell’elaborazione teorica. Tra tutti centrale è la questione riguardante l’utilizzo da parte del sistema (anche a me si scusi l’uso di un termine così generico ma l’intento qui non è una trattazione specialistica) della forza come strumento di mera repressione, il che fa del potere una relazione dal carattere semplicemente negativo, cioè repressivo e in alcun modo produttivo. Questo è certamente un sintomo dell’incapacità di gestire il momento dello scontro, momento che non va soppresso ma incanalato attraverso gli appositi strumenti in quelle forme di confronto sociale che una volta prendevano il nome di contrattazione sindacale o di rappresentanza partitica o di tavoli di negoziato, oggi scomparse o ridotte a pura formalità.
Quando un sistema come quello neoliberale si chiude in se stesso e alle contestazioni, che di per sé sono un elemento fisiologico e necessario ad ogni organismo politico, risponde solo con manganelli, arresti e denunce, allora diventa palese il momento di debolezza che esso sta attraversando.
Qui di seguito vorrei però approfondire un altro aspetto della questione affrontando l’idea, suggerita ancora da Paolo, di concepire il potere come una relazione, cioè come un qualcosa di intrinsecamente processuale che è sempre presente fra tutti i soggetti sociali, e che in certe condizioni può dimostrare un carattere persino produttivo e costruttivo. Vorrei poi adottare uno sguardo critico e considerare i modi attraverso cui oggi vengono proposte quelle che Foucault avrebbe definito come ‘controcondotte’, cioè quelle pratiche di lotta che nell’intenzione di chi le conduce dovrebbero rappresentare una risposta, o per lo meno una forma di contestazione, tanto dell’azione repressiva messa in atto dal sistema quanto, e più in generale, delle politiche da esso portate avanti, ma che in realtà finiscono per scadere in manifestazioni di violenza fine a se stessa. Il quadro che a mio avviso emerge guardando agli scenari in cui si manifestano i vari fenomeni di repressione violenta mostrano una debolezza tanto del sistema quanto di quei corpi ‘antagonisti’ che si presentano assolutamente inadeguati nell’affrontare un nemico così complesso e strutturato come è l’ordinamento neoliberale.
Prima di continuare ritengo sia comunque importante compiere una precisazione con l’intento anche di provare a rompere alcuni pregiudizi oggi molto diffusi che inquinano la realtà politica a tutti i suoi livelli. Per farlo vorrei partire da queste parole di Hannah Arendt «I pregiudizi, che nella crisi odierna ostacolano la comprensione teorica della vera natura della politica, riguardano praticamente tutte le categorie politiche in cui siamo abituati a pensare, ma soprattutto la categoria del fine e del mezzo, che considera il politico nell’ottica di un fine supremo ad esso estraneo, poi l’idea che la sostanza del politica sia la violenza, e infine la convinzione che il dominio sia il concetto centrale della teoria politica. […] Dato che le nostre esperienze con la politica sono fatte essenzialmente nel campo della violenza, ci risulta naturale concepire l’agire politico nelle categorie del costringere e dell’essere costretti, del dominare e dell’essere dominati».
Per poter costruire delle risposte, in termini di azione e discorso, capaci di mettere realmente in difficoltà l’ordinamento neoliberale oggi egemone, bisogna prima di tutto riabilitare le categorie di potere, di forza e di rivolta, svuotandole dalle immagini a cui siamo da anni abituati e che rappresentano unicamente la reiterazione di vecchie pratiche di lotta oggi semplicemente inutili. Il potere in quanto tale non è qualcosa di malvagio, come già detto, esso è una relazione che va riempita di senso, e lo stesso vale anche per la forza e per la rivolta. Le relazioni sociali possono essere certamente suddivise in varie tipologie, possono inoltre essere gerarchiche, orizzontali o persino circolari, ma mai neutre. Ogni relazione implica un confronto e ogni confronto solleva un rapporto di forza che è un rapporto di potere. Come scrive Deleuze a riguardo dell’idea foucaultiana di potere: «il potere è un rapporto di forze, o piuttosto ogni rapporto di forza è un rapporto di potere». Ora, il punto è riuscire a connotare questo perenne confronto-scontro tra le parti in lotta in modo da renderlo finalmente produttivo.
Nel momento in cui si intuisce che il sistema è in difficoltà e l’unica arma di cui dispone è la repressione violenta vanno tentate nuove forme di agire, le quali devono necessariamente andare di pari passo a nuove elaborazioni teoriche. Nel momento in cui il connubio lotta-teoria viene spezzato si generano quei confronti che si riducono a semplici scontri tra: da una parte un ordinamento egemone in difficoltà che si comporta come un animale impaurito messo all’angolo, e dall’altro un insieme eterogeneo di gruppi più o meno organizzati i cui unici strumenti di lotta sono striscioni, bastoni e qualche fumogeno. So molto bene che questi sono discorsi delicati e il rischio di fraintendimento è molto alto, il punto su cui voglio però fissare l’attenzione è uno: a un uso repressivo della forza, del potere, da parte del sistema non bisogna rispondere con le solite sfilate e tafferugli ma con pratiche di lotta intelligenti e soprattutto creative, il che non significa ‘ammorbidirsi’o diventare moderati, quanto piuttosto riuscire a istituire (cioè a istituzionalizzare) attraverso nuove forme di agire, idee e concetti frutto di un lungo lavoro di analisi.
Volendo essere concreti e per chiare meglio la questione dando anche un esempio reale di cosa possa significare unire la prassi con la fantasia, si pensi a Podemos e più precisamente alla figura di Pablo Iglesias; personaggio interessante del quale è stato recentemente pubblicato in Italia un libro dal titolo “Disobbedienti. Dal Chiapas a Madrid” dove l’autore analizza precisamente le forme di ‘disobbedienza’ che hanno saputo reinventarsi e ottenere risultati concreti trasformando proprio la relazione di potere-repressione in relazione di potere-produzione. Iglesias prende poi in esame molti casi, ma non vi è modo di dare conto di ciascuno, basti dunque fare solo alcuni esempi: il movimento Zapatista, le manifestazioni di Seattle, il movimento delle Tute Bianche, L@s Invisibles, le manifestazioni del 2000 a Praga fino ad arrivare all’occupazione nel 2013 in Turchia del Gezi Park, al Movimento 15M, alla Puerta del Sol e a tutti gli indigandos che dalla piazza hanno saputo creare una rappresentanza e fare breccia nel ‘sistema’. Al di là delle considerazioni di merito o demerito che ognuno può formulare sull’insieme di questi movimenti e fenomeni, quello che qui interessa sottolineare è il loro essere stati creativi, innovativi, l’aver saputo spiazzare il nemico aggiungendo una caratteristica di originalità alla propria lotta. Importante è infatti sottolineare che le novità apportate sono diretta espressione di un lavoro teorico che sta alle spalle: il tema della mondializzazione delle contestazioni per le manifestazioni di Seattle, il principio politico del Comune per Gezi Park, il desiderio di una nuova forma di politica più partecipativa e decentrata per il Movimento 15M. Ogni tipologia di disobbedienza ha saputo conficcarsi come un cuneo in una piccola crepa venutasi a creare nel sistema egemone e a partire da essa ha saputo portare avanti relazioni di potere di carattere produttivo, cioè trasformativo.
Purtroppo non vi è modo di andare molto oltre, prima di concludere però mi sia concesso un’ultima considerazione di carattere più teorico-ricostruttivo. Quanto detto può magari sembrare astratto o troppo generico, così vorrei segnalare alcune indicazioni che potrebbero invece tracciare linee di discussione più concrete e precise. Rispetto a queste tematiche andrebbe per esempio fatto conoscere in Italia un pensatore come Cornelius Castoriadis che a lungo ha lavorato sul concetto di rivoluzione e più precisamente sulla categoria di prassi istituente, cioè di una forma di agire capace di istituzionalizzarsi ottenendo riconoscimento e legittimità, andrebbe poi riscoperto il lavoro di Hannah Arendt le cui riflessioni offrono molti spunti per una politica poco istituzionale, ma certamente molto viva; per non parlare della necessità di un approfondimento su tutte quelle forme di disobbedienza molto più recenti portate avanti per esempio dai gruppi Hacker o delle varie pratiche di autogestione che prendono piede sempre di più. Insomma, le parole chiavi attorno a cui vanno costruite le nuove forme di lotta, di resistenza, di risposta alle repressioni operate dal sistema neoliberale, nonché alle soggettività standardizzate prodotte dal medesimo, devono essere creatività e sperimentazione, parole che possono suonare alquanto strane se messe in relazione con le dimensioni pratiche e teoriche della politica ma che in realtà formano connubi altamente innovativi. Sempre a questo proposito, anche se in rapporto a un contesto diverso che non riguarda le forme di contestazione e disobbedienza, basti pensare agli studi sui nuovi modelli di politiche sociali portati avanti da autori come Charles Sabel o Niels Åkerstrøm Andersen che partendo da un approccio post-strutturalista propongono una politica seriamente sperimentale e creativa.
Comunque sia, al di là dei singoli casi, il punto su cui vorrei ci si concentrasse è il legame che deve intercorrere tra il potere (nella sua accezione relazionale), la lotta (bisogna togliere anche il tabù che oggi vige su questa parola) e quella che Hegel con una bellissima espressione chiamava ‘la fatica del concetto’, il momento cioè dell’analisi e del pensiero. Una politica per dirsi completa deve possedere tutti questi tre elementi altrimenti rimarrà per forza un entità parziale e condannata alla subordinazione.

Fonte: Pandora Rivista di teoria e politica 

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