La crisi è quel momento in cui il vecchio muore e il nuovo stenta a nascere. Antonio Gramsci

lunedì 9 novembre 2015

Elezioni in Turchia e Azerbaigian, un'analisi dal punto di vista energetico

di Elena Gerebizza
Lo scorso fine settimana si è votato in due paesi chiave per la politica estera e per la “sicurezza energetica” europea: la Turchia e l’Azerbaigian. Da un lato è comprensibile che gli occhi del mondo fossero rivolti alla Turchia, dall’altro è imbarazzante che le elezioni in Azerbaigian siano passate così in sordina. Soprattutto vista l’importanza delle relazioni economiche in essere e in divenire tra l’Europa (e l’Italia) e questa ex provincia sovietica sulle sponde del Mar Caspio, con cui il nostro paese vuole legarsi fisicamente attraverso un gasdotto di 3500 chilometri e dal costo esorbitante di oltre 45 miliardi di dollari: il “corridoio sud del gas”, e la sua ultima sezione, il gasdotto Trans Adriatico (TAP).
L’ondata di repressione messa in atto dal presidente Ilham Aliyev dopo la sua riconferma nel 2013 – prima delle elezioni aveva provveduto a cambiare la stessa costituzione che imponeva un limite di due mandati – ha spazzato via le voci libere del paese, con un susseguirsi di arresti di esponenti della società civile, giornalisti e avvocati per i diritti umani.
Era banalmente evidente che le elezioni parlamentari del 1 novembre non sarebbero state né libere né imparziali. Per sfatare ogni dubbio, già ad agosto l’OSCE (Organizzazione Per la sicurezza e la cooperazione in Europa) aveva pubblicato un rapporto in cui prevedeva la necessità di una delegazione di almeno 30 osservatori di lungo termine e 350 di breve termine per monitorare l’integrità nello svolgimento delle elezioni in un paese in cui secondo la stessa OSCE “non si sarebbero mai svolte elezioni libere e imparziali”. Da qui il testa a testa a inizio settembre con il governo azero, che intendeva concedere non più di 6 osservatori di lungo termine e 125 di breve termine, conclusosi con il rifiuto da parte dell’OSCE – per la prima volta in vent’anni – di inviare una delegazione condannando “la repressione delle voci critiche e indipendenti” attuata dal governo azero e inaspritasi dal 2014. (link:http://www.osce.org/odihr/elections/azerbaijan/181611)
Negli stessi giorni, il Parlamento europeo ha passato una mozione (LINK) in cui chiedeva all’Unione europea di sospendere i finanziamenti destinati all’Azerbaigian attraverso le politiche di vicinato, “vista la repressione messa in atto contro gli attivisti che documentano le violazioni dei diritti umani nel paese”.
Nessuna sorpresa quindi che anche la stampa internazionale si sia vista negare il permesso di entrare a Baku per seguire la tornata elettorale (come accaduto ai giornalisti della Reuters), se i partiti di opposizione abbiano boicottato le elezioni e denunciato l’assenza di imparzialità, e se le stesse votazioni si siano poi concluse con la vittoria del partito del presidente Ilham Aliyev, Yeni (“Nuovo”) Azerbaijan, cheha ottenuto il 91% dei voti.
Una vittoria “schiacciante” che dovrebbe allarmare non poco chi crede che davvero la strada per l’emancipazione europea dalla dipendenza energetica dalla Russia debba passare attraverso l’alleanza con un paese con una democrazia solo di facciata, dove gli interessi personalistici della famiglia al potere e dei pochi nella sua orbita definiscono l’inizio e la fine delle alleanze internazionali. A distanza di una settimana non ci sono state dichiarazioni pubbliche di condanna di quanto avvenuto in Azerbaigian né da parte della Commissione Europea, né del Consiglio d’Europa, né di alcun governo – tantomeno quello italiano. C’è però stato uno scambio di telefonate tra i due presidenti vincitori: Recep Tayyip Erdogan e Ilham Aliyev. A sottolineare lo stretto legame, personale e politico, tra i due capi di stato (LINK).
Un silenzio assordante che sta sullo sfondo delle implicazioni economiche, finanziarie e politiche del sostegno a un progetto ad alto rischio che potrebbe non completarsi mai, ma costare un patrimonio alle casse pubbliche europee. E’ paradossale che la Banca europea degli investimenti stia davvero considerando di concedere alla società TAP il prestito più grande mai concesso nella sua storia: 2 miliardi di euro. Un segnale importante dal lato europeo, per dare fiducia agli investitori, ma forse anche per dire un “noi ci siamo” che ha il suo peso specifico. Perché nonostante le rassicurazioni politiche, 3500 chilometri sono una distanza considerevole, quando si tratta di costruirci un progetto unico. Già l’arbitrato internazionale tra la Turchia e la Russia per il non realizzato South Stream (mentre sul tavolo c’è già un nuovo accordo per un gasdotto alternativo, il Turkish Stream ndr) e le dinamiche tra i due paesi in relazione alla guerra in Siria, dovrebbero dare bene il senso della complessità degli interessi e degli equilibri di un progetto di questo tipo. Un progetto che necessita di garanzia pubbliche enormi per poter andare avanti.

Fonte: Re.common

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