
di Alain Goussot
In questo momento di tensione, di rumore di guerra, di linguaggio aggressivo e di azioni violenti occorre rimettere al centro il discorso sull’educazione, interrogarsi seriamente sull’effetto del bombardamento mediatico, creatore di un clima di paura, sui nostri figli, occorre interrogarsi seriamente sulle categorie di Noi e Loro, rivederle radicalmente sia sul piano culturale che pedagogico.
Bisogna pensare al Noi come comunità inclusiva e non esclusiva. Come Maria Montessori scrisse molto bene nel suo libro “Educazione per un mondo nuovo” bisogna partire dall’educazione del “padre dell’adulto”, cioè il bambino, ascoltarlo e imparare da lui. Gli adulti oggi non riescono più a guardare il mondo con gli occhi puliti dei bambini e delle bambine che, per natura, sono spinti alla scoperta e allacuriosità, gli adulti non riescono ad osservare le bellezze della natura così variegata e ricca di forme insolite e bizzarre.
Il bambino incontra l’altro nella sua voglia naturale di conoscere e nel gioco scopre i sentimenti, è nell’esperienza relazionale che impara a conoscere se stesso, che impara ad accedere, come diceva Heinrich Pestalozzi, ad accedere alla propria umanità per capire l’umanità altrui e comprendere che prima di essere diversi siamo anche simili nella misura in cui proviamo tutti le medesime emozioni.
Il bambino incontra l’altro nella sua voglia naturale di conoscere e nel gioco scopre i sentimenti, è nell’esperienza relazionale che impara a conoscere se stesso, che impara ad accedere, come diceva Heinrich Pestalozzi, ad accedere alla propria umanità per capire l’umanità altrui e comprendere che prima di essere diversi siamo anche simili nella misura in cui proviamo tutti le medesime emozioni.
Era l’educatore polacco Janusz Korczak – morto nel campo di concentramento di Treblinka con i bambini dell’orfanotrofio del ghetto di Varsavia nel 1942 – che evidenziava la saggia intelligenza del bambino che osserva l’adulto agitarsi:
«Forse è la compassione l’unico sentimento benevolo che il bambino prova costantemente nei nostri confronti. “Ci deve essere qualcosa che non va, se sono sempre così infelici”…».
Il bambino c’insegna quanto sia importante l’affettività, il sentirsi bene quando si sta insieme, il condividere momenti emotivi importanti e poterli raccontare, il potere fare volare la propria fantasia, il vivere la bellezza della cooperazione e dello sforzo comune in cui tutti si sentono accolti e valorizzati, a prescindere dalle loro origini culturali, sociali o dalla presenza o meno di una “anomalia” dello sviluppo. Solo una pedagogia del dialogo, dell’accoglienza, del riconoscimento effettivo delle differenze come valore positivo, della relazione che crea l’incontro, una pedagogia della gioia e della speranza è in grado di curare le ferite, di prevenire le chiusure e l’accumulo della rabbia e della violenza che cresce. Come diceva Célestin Freinet, la cattiva erba come frutto di un sentimento di esclusione e di umiliazione di un campo umano maltrattato diventa rapidamente disumanità e incapacità di sentire se stesso e quindi di sentire l’altro diverso da sè.
L’esperienza educativa come processo di umanizzazione che accoglie l’essere umano con le sue qualità e i suoi difetti, i suoi modi di essere diversificati, le sue contraddizioni ma anche con le sue enorme energie positive, con il suo slancio vitale, con le sue potenzialità cognitive, con la vibrazione poetica della sua anima, è in grado di costruire le basi solide di una personalità e di una comunità solidale, accogliente, inclusiva e pacifica. Educare all’alterità e all’incontro vuol dire combattere quello che Freud chiamava l’istinto di morte, quella pulsione distruttrice che abita ogni essere umano, per favorire il crescere dell’istinto di vita e quindi della speranza.
Fonte: comune-info.net
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