La crisi è quel momento in cui il vecchio muore e il nuovo stenta a nascere. Antonio Gramsci

sabato 28 novembre 2015

Uberizzazione o libertà: le ambiguità del ministro Poletti sul lavoro

di Roberto Ciccarelli 
Dopo avere esposto la sua visione sulla necessità di laurearsi a 21 anni con 97, e non con 110 a 28, perché «i nostri ragazzi si trovano a competere con ragazzi di altre nazioni che hanno sei anni meno», ieri in un convegno alla Luiss a Roma il ministro del lavoro Giuliano Poletti ha esposto una teoria sull’innovazione. «Dovremo immaginare un contratto di lavoro che non abbia come unico riferimento l’ora di lavoro ma la misura dell’apporto dell’opera. L’ora/lavoro è un attrezzo vecchio che non permette l’innovazione — ha detto — Il lavoro oggi è un po’ meno cessione di energia meccanica ad ore ma sempre risultato. Con la tecnologia possiamo guadagnare qualche metro di libertà». Poletti ha anche sottolineato la necessità di inserire nei contratti altri criteri per la definizione della retribuzione che non siano solo riferimento all’ora-lavoro. «Bisogna misurare anche l’apporto dell’opera» ha spiegato. Il ministro ha sottolineato la necessità di lavorare all’introduzione di forme di partecipazione dei lavoratori all’impresa.
Dopo le polemiche furibonde provocate dalle tesi sulla competizione tra i laureati, la nuova tesi esprime un inedito livello di complessità. Sembra essere ispirata al celebre libro di Hannah Arendt «Vita Activa» o al più recente «Insieme» del sociologo Richard Sennet. Poletti cita la distinzione tra lavoro e opera, tra attività subordinata meccanica e attività autonoma economicamente dipendente dal datore di lavoro, la «summa divisio» già presente nel diritto romano tra «locatio operis» e «locatio operarum». L’attività lavorativa subordinata obbedisce a un contratto, quella autonoma a un rapporto di mercato e alla negoziazione personale (ma anche di categoria). Questa distinzione è stata trasfigurata dalle trasformazioni tecnologiche, come sostiene il ministro, ma anche da una legislazione che ha moltiplicato il precariato, l’offensiva fiscale e previdenziale contro il lavoro autonomo, la corsa al ribasso di salari, redditi e tutele. Questo Poletti non lo dice, anche perché il «Jobs Act» si muove in direzione della personalizzazione del rapporto di lavoro, la regressione del rapporto salariato al cottimo, al lavoro a chiamata.
Verso la «uberizzazione» del lavoro, un neologismo che sintetizza l’apporto all’innovazione — teoria evocata da Poletti — da Uber. Nella multinazionale Usa gli autisti freelance mettono a disposizione la macchina e rispondono alle chiamate dei clienti via app. Un modello diffuso anche in altri settori. Se così fosse intesa, la teoria del ministro-filosofo sarebbe l’ultimo fendente ai contratti nazionali e il passo successivo all’abolizione dell’articolo 18. I parametri con cui sarà valutato il lavoro cambieranno di persona in persona, eliminando la possibilità di creare rivendicazioni e difese collettive nell’economia «on demand» basata sulle forme più estreme di «work on call». In Italia ci sono i «voucher», buoni orari ma senza una precisa definizione che leghi la prestazione richiesta con la retribuzione. Il lavoro puntiforme, discontinuo, a singhiozzo dei lavoratori «a scontrino» è solo l’ultima forma di un lavoro senza diritti né tutele in cui il parametro «ora/lavoro» è superato nei fatti, e non da oggi. Non siamo più allo sfruttamento del capitale, bensì all’autosfruttamento. È la logica di facebook nel mondo reale. Nei fatti Poletti la sta già applicando con il Jobs Act.
La tesi, già nota per le sue conseguenze, potrebbe essere interpretata all’opposto. Se il valore va determinato nell’opera (la prestazione) e non basta il parametro orario per misurarlo, si possono istituire tutele universali come il reddito (minimo o di cittadinanza). Le alternative sono presenti nel dibattito sull’innovazione. È il caso di applicare la seconda.

Fonte: il manifesto 

Nessun commento:

Posta un commento

Nota. Solo i membri di questo blog possono postare un commento.