La crisi è quel momento in cui il vecchio muore e il nuovo stenta a nascere. Antonio Gramsci

lunedì 9 novembre 2015

Via il prefetto!

di Luigi Einaudi
Isti­tu­zione vene­randa, venuta a noi dalla notte dei tempi, il pre­fetto è quasi sino­nimo di governo e, lui scom­parso, sem­bra non esi­stere più nulla. Chi comanda e chi ese­gue fuor dalla capi­tale? Come opera l’amministrazione pub­blica? In verità, il pre­fetto è una lue che fu ino­cu­lata nel corpo poli­tico ita­liano da Napo­leone. (…) Si cre­dette di instau­rare libertà e demo­cra­zia e si fog­giò lo stru­mento della dit­ta­tura. Demo­cra­zia e pre­fetto repu­gnano pro­fon­da­mente l’una all’altro. Né in Ita­lia, né in Fran­cia, né in Spa­gna, né in Prus­sia si ebbe mai e non si avrà mai demo­cra­zia, fin­ché esi­sterà il tipo di governo accen­trato, del quale è sim­bolo il pre­fetto.
Coloro i quali par­lano di demo­cra­zia e di costi­tuente e di volontà popo­lare e di auto­de­ci­sione e non si accor­gono del pre­fetto, non sanno quel che si dicono. Ele­zioni, libertà di scelta dei rap­pre­sen­tanti, camere, par­la­menti, costi­tuenti, mini­stri respon­sa­bili sono una lugu­bre farsa nei paesi a governo accen­trato del tipo napoleonico.
La classe poli­tica non si forma tut­ta­via se l’eletto ad ammi­ni­strare le cose muni­ci­pali o pro­vin­ciali o regio­nali non è pie­na­mente respon­sa­bile per l’opera pro­pria. Se qual­cuno ha il potere di dare a lui ordini o di annul­lare il suo ope­rato, l’eletto non è respon­sa­bile e non impara ad ammi­ni­strare. Impara ad ubbi­dire, ad intri­gare, a rac­co­man­dare, a cer­care appog­gio. Dove non esi­ste il governo di se stessi e delle cose pro­prie, in che con­si­ste la demo­cra­zia?
Fin­che esi­sterà in Ita­lia il pre­fetto, la deli­be­ra­zione e l’attuazione non spet­te­ranno al con­si­glio muni­ci­pale ed al sin­daco, al con­si­glio pro­vin­ciale ed al pre­si­dente; ma sem­pre e sol­tanto al governo cen­trale, a Roma; o, per par­lar più con­cre­ta­mente, al mini­stro dell’interno. Costui è il vero padrone della vita ammi­ni­stra­tiva e poli­tica dell’intero stato. Attra­verso i suoi organi distac­cati, le pre­fet­ture, il governo cen­trale approva o non approva i bilanci comu­nali e pro­vin­ciali, ordina l’iscrizione di spese di cui i cit­ta­dini fareb­bero a meno, can­cella altre spese, ritarda l’approvazione ed intral­cia il fun­zio­na­mento dei corpi locali. Chi governa local­mente di fatto non è né il sin­daco né il con­si­glio comu­nale o pro­vin­ciale; ma il segre­ta­rio muni­ci­pale o pro­vin­ciale. Non a caso egli è stato ora­mai attrup­pato tra i fun­zio­nari statali.
Parve un sopruso della dit­ta­tura ed era la logica neces­sa­ria dedu­zione del sistema cen­tra­li­stico. Chi, se non un fun­zio­na­rio sta­tale, può inter­pre­tare ed ese­guire le leggi, i rego­la­menti, le cir­co­lari, i moduli i quali quo­ti­dia­na­mente, attra­verso le pre­fet­ture, arri­vano a fasci da Roma per ordi­nare il modo di gover­nare ogni più pic­cola fac­cenda locale? Se talun cit­ta­dino si informa del modo di sbri­gare una pra­tica dipen­dente da una legge nuova, la rispo­sta è: non sono ancora arri­vate le istru­zioni, non è ancora com­pi­lato il rego­la­mento; lo si aspetta di giorno in giorno. A nes­suno viene in mente del mini­stero, l’idea sem­plice che l’eletto locale ha il diritto e il dovere di inter­pre­tare lui la legge, salvo a rispon­dere din­nanzi agli elet­tori della inter­pre­ta­zione data? Che cosa fu e che cosa tor­nerà ad essere l’eletto del popolo in uno stato buro­cra­tico accen­trato? Non un legi­sla­tore, non un ammi­ni­stra­tore; ma un tale, il cui merito prin­ci­pale e di essere bene intro­dotto nei capo­luo­ghi di pro­vin­cia presso pre­fetti, con­si­glieri e segre­tari di pre­fet­tura, prov­ve­di­tori agli studi, inten­denti di finanza, ed a Roma, presso i mini­stri, sotto-segretari di stato e, meglio e più, per­ché di fatto più potenti, presso diret­tori gene­rali, capi-divisione, segre­tari, vice-segretari ed uscieri dei ministeri.
(…) La tiran­nia del cen­tro, la onni­po­tenza del mini­stero, attra­verso ai pre­fetti, si con­verte nella tiran­nia degli eletti al par­la­mento. Essi sanno di essere i mini­stri del domani, sanno che chi di loro diven­terà mini­stro dell’interno, disporrà della leva di comando del paese; sanno che nes­sun pre­si­dente del con­si­glio può rinun­ciare ad essere mini­stro dell’interno se non vuol cor­rere il peri­colo di vedere “farsi” le ele­zioni con­tro di lui dal col­lega al quale egli abbia avuto la dab­be­nag­gine di abban­do­nare quel mini­stero, il quale dispone delle pre­fet­ture, delle que­sture e dei cara­bi­nieri; il quale comanda a cen­ti­naia di migliaia di fun­zio­nari pic­coli e grossi, ed attra­verso con­ces­sioni di sus­sidi, auto­riz­za­zioni di spese, favori di ogni spe­cie ade­sca e minac­cia sin­daci, con­si­glieri, pre­si­denti di opere pie e di enti morali. A volta a volta servo e tiranno dei fun­zio­nari che egli ha con­tri­buito a far nomi­nare con le sue rac­co­man­da­zioni e dalla cui con­di­scen­denza dipende l’esito delle pra­ti­che dei suoi elet­tori, il depu­tato diventa un galop­pino, il cui tempo più che dai lavori par­la­men­tari è assor­bito dalle corse per i mini­steri e dallo scri­vere let­tere di rac­co­man­da­zione per il sol­le­cito disbrigo delle pra­ti­che dei suoi elet­tori.
Per­ciò il delenda Car­thago della demo­cra­zia libe­rale è: Via il pre­fetto! Via con tutti i suoi uffici e le sue dipen­denze e le sue rami­fi­ca­zioni! Nulla deve più essere lasciato in piedi di que­sta mac­china cen­tra­liz­zata; nem­meno lo stam­bu­gio del por­tiere. Se lasciamo soprav­vi­vere il por­tiere, pre­sto accanto a lui sor­gerà una fun­gaia di barac­che e di capanne che si tra­sfor­me­ranno nel vec­chio adug­giante palazzo del governo. Il pre­fetto napo­leo­nico se ne deve andare, con le radici, il tronco, i rami e le fronde.
(…) L’unità del paese non è data dai pre­fetti e dai prov­ve­di­tori agli studi e dagli inten­denti di finanza e dai segre­tari comu­nali e dalle cir­co­lari ed istru­zioni ed auto­riz­za­zioni romane. L’unità del paese è fatta dagli ita­liani. Dagli ita­liani, i quali impa­rino, a pro­prie spese, com­met­tendo spro­po­siti, a gover­narsi da sé. La vera costi­tuente non si ha in una ele­zione ple­bi­sci­ta­ria, a fin di guerra. Così si creano o si rico­sti­tui­scono le tiran­nie, siano esse di dit­ta­tori o di comi­tati di par­titi. Chi vuole affi­dare il paese a qual­che altro sal­tim­banco, lasci soprav­vi­vere la mac­china accen­trata e fac­cia da que­sta e dai comi­tati eleg­gere a costi­tuente. Chi vuole che gli ita­liani gover­nino se stessi, fac­cia invece subito eleg­gere i con­si­gli muni­ci­pali, unico corpo rima­sto in vita, almeno come aspi­ra­zione pro­fon­da­mente sen­tita da tutti i cit­ta­dini; e dia agli eletti il potere di ammi­ni­strare libe­ra­mente; di far bene e farsi rin­no­vare il man­dato, di far male e farsi lapi­dare. Non si tema che i mal­ver­sa­tori del denaro pub­blico non paghino il fio, quando non pos­sano sca­ri­care su altri, sulla auto­rità tuto­ria, sul governo la colpa delle pro­prie male­fatte. La classe poli­tica si forma così: col pro­vare e ripro­vare, attra­verso a fal­li­menti ed a successi.

Pub­bli­cato con lo stesso titolo in L’Italia e il secondo Risor­gi­mento, sup­ple­mento alla Gaz­zetta tici­nese di Lugano, il 17 luglio 1944 (fir­mato Junius).

Fonte: il manifesto 

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