La crisi è quel momento in cui il vecchio muore e il nuovo stenta a nascere. Antonio Gramsci

sabato 30 settembre 2017

CETA, TTIP e altri fratelli: il contratto sociale della post-democrazia

di Giuseppe Micciarelli
Il lessico della crisi si presenta ciclicamente sulla scena della democrazia, ma una simile ricorsività diacronica non deve trarre in inganno: non si tratta solo di un concetto retorico. La sua rappresentazione è spinta da dati concreti, segnala un meccanismo che si inceppa; il problema è semmai capire dove situare il cortocircuito. Potremmo partire dalla constatazione che oggi il perseguimento dell’obiettivo di una crescita economica socialmente condivisa in un quadro di controllo popolare sulle scelte politiche sembra una prospettiva di altri tempi; o forse, posta in questi termini, la retorica è nella rappresentazione idealizzata di quello che riusciva a «funzionare» prima. Anche questo contribuisce a divaricare tanto le interpretazioni sulle origini scaturenti, quanto le ipotesi di fuoriuscita. Seppur da diverse angolazioni e interpretazioni l’imputato principale della perdurante crisi odierna, che è insieme politica ed economica, sembra riconducibile all’incapacità regolativa delle istituzioni di questi due settori, seppur in prospettive che possono essere declinate in modo opposto. Non intendo approfondire questo terreno, quanto piuttosto sfruttarlo come punto di partenza, cogliendo l’intima fecondità della crisi che non segna mai una fine, ma un movimento verso un altro evento1. Ragionerò allora su alcuni cambiamenti che si stanno producendo nella sfera istituzionale, per provare a cogliere cosa si stia determinando oltre il bordo di una faglia che, come insegna l’etimologia greca del verbo greco κρίνω, «separa» un prima e, evidentemente, un dopo.


Fonte: Italia.attac.org

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