La crisi è quel momento in cui il vecchio muore e il nuovo stenta a nascere. Antonio Gramsci

sabato 30 settembre 2017

Il trauma storico e l’uso pubblico della memoria. Intervista a Sabina Loriga

Intervista a Sabina Loriga di Andrea Inglese
Sabina Loriga, dal 1997 direttrice di ricerca all’Ecole des Hautes Etudes en Sciences Sociales di Parigi, è una storica e insegna una disciplina dal titolo suggestivo: Tempo e storia: norme, concetti ed esperienza. Oggi dirige Passés Futurs, una rivista in rete, di cui è apparso a giugno il primo numero dedicato alla nozione di “trauma storico”. Il tema ispiratore di questa iniziativa editoriale e scientifica è l’uso pubblico, e quindi politico, della memoria storica. Un uso che, come viene sottolineato nell’editoriale, è divenuto sempre più frequente, generando dibattitti e controversie che riguardano sia l’opinione pubblica che l’universo più ristretto degli addetti ai lavori.
Parliamo della genesi di questo progetto. Come è nato, e quali sono le circostanze legate all’attualità politica, che ti hanno motivato a lavorare in modo specifico sull’uso pubblico degli eventi storici? Pensi che un tale uso sia più esasperato in alcuni paesi come la Francia, in relazione allo loro storia politica più recente, o è un fenomeno generale, che tocca in modo altrettanto evidente paesi molto diversi tra loro?
La questione non è nuova. Già agli inizi degli anni Settanta, Moses Finley incoraggiava gli storici e i “socio-psicologi” a occuparsi degli usi politici del passato. Ma il tema si è imposto negli anni Ottanta, durante la “querelle” degli storici tedeschi, che ha messo in luce delle concezioni profondamente diverse dell’identità nazionale (in particolare per quanto riguarda il confronto con la memoria dello Sterminio). In quest’occasione Jürgen Habermas aveva pubblicato un articolo intitolato “Sull’uso pubblico della storia”, in cui metteva in luce l’importanza di valutare attentamente gli interlocutori e i “luoghi” della discussione: in questa prospettiva distingueva tra lo spazio scientifico e quello pubblico e mediatico. Da allora il senso dell’espressione “usi pubblici del passato” si è trasformato e ha perduto la connotazione negativa implicita nel testo di Habermas. Infatti, la nozione di uso non comporta necessariamente quella di abuso o di strumentalizzazione. Che piaccia o no, gli storici non detengono il controllo del passato. Per questo, invece di struggersi nella nostalgia di un’epoca d’oro (e del tutto mitica) in cui la parola degli storici era indiscutibile, mi sembra più interessante analizzare i modi in cui i diversi attori sociali rappresentano il passato. Da questo punto di vista, negli ultimi decenni abbiamo assistito a un duplice processo, in apparenza contraddittorio. Da un lato, il passato è diventato un “oggetto del desiderio”: ci sono sempre più commemorazioni e sempre più iniziative per la trasmissione della memoria e per la protezione del patrimonio (dalle associazioni locali all’Unesco). D’altro lato, si è sviluppato uno spiccato sospetto nei confronti della storia, come disciplina, e delle testimonianze storiche. C’è uno scetticismo diffuso, quasi automatico, basato sull’idea – o piuttosto sullo stereotipo – secondo cui la storia è sempre stata e sarà sempre scritta dai vincitori. Probabilmente, questo desiderio di passato e questo sospetto verso la storia sono connessi a quattro fenomeni sociali fondamentali: la democratizzazione dell’istruzione, con l’aumento impressionante di studenti universitari; l’invecchiamento della popolazione, con una “terza” e “quarta” età sempre più interessate al passato; lo sviluppo del turismo, con la valorizzazione (anche economica) dei siti storici; e, ovviamente, internet che ha cambiato le frontiere delle competenze e che permette, a ognuno di noi, di organizzarsi la “propria” versione del passato.
Per tornare alla situazione francese, il nostro progetto nasce dalla lettura e discussione dell’ultimo libro importante di Paul Ricoeur, Memoria, storia, oblio. Al momento della pubblicazione – era l’autunno del 2000 – con Olivier Abel, Maurizio Gribaudi e Giovanni Levi avevamo organizzato una settimana di lavoro sul libro, terminata con un confronto con Ricoeur, il quale, all’età di 87 anni, aveva trascorso un’intera giornata a discutere con noi. Per una quindicina d’anni, Olivier e io abbiamo continuato ad animare all’EHESS un seminario su questi temi. Da quest’esperienza è scaturito un libro, intitolato La juste mémoire. Lectures autour de Paul Ricœur (Genève, Labor et Fides, 2006, co-dir. avec Olivier Abel, Enrico Castelli Gattinara e Isabelle Ullern). Nel 2011 ho costituito l’Atelier international sur les usages publics du passé, che ha organizzato una serie di incontri tematici e ha aperto un sito web. E poco a poco, grazie anche alla collaborazione di David Schreiber e al sostegno del Laboratoire d’excellence Tepsis (Transformation de l’Etat, politisation des sociétés et institution du social), è emerso il progetto di fondare questa nuova rivista.
Tu dici: “gli storici non detengono il controllo del passato”, ma in che modo valuti la pretesa dello Stato di “controllare il passato” come accade in Francia, ad esempio, con le cosiddette lois mémoriales (leggi sulla memoria)? Penso alla legge del 21 maggio 2001 (legge Taubira) che definisce la tratta degli schiavi come crimine contro l’umanità, ma anche alla legge del 23 febbraio 2005 che riguarda il riconoscimento della Nazione nei confronti dei francesi rimpatriati dalle ex colonie. In quest’ultima legge era persino scivolato un articolo che sosteneva il ruolo positivo della presenza francese in Nord Africa, abrogato in seguito alla violenta polemica che aveva suscitato. Più in generale, credi che sia opportuno punire chi nega pubblicamente l’esistenza di verità storiche dalle conseguenze traumatiche come quelle relative ai genocidi o ai crimini della colonizzazione?
Le verità storiche presentano un paradosso. Sono complesse, sensibili e fragili, perché sono spesso oggetto di falsificazioni. Nello stesso tempo sono necessarie. Senza di loro finiamo in quella che Hannah Arendt ha chiamato “orribile arbitrarietà” (the frightening arbitrariness). Questo vuol dire che, in certe circostanze precise, può esserci bisogno anche di ricorrere al diritto. Non penso che si debba scrivere la storia a colpi di legge. Voglio solo dire che le leggi e le loro motivazioni non sono tutte uguali e che non credo che il problema del rapporto tra storia, diritto e politica possa essere affrontato con posizioni generali e “universali”, fondate su un’idea molto semplificata della libertà di parola. Penso che vada contestualizzato e storicizzato. Nel caso francese, le “lois mémorielles” sono il frutto di una storia complessa, iniziata con il diffondersi del negazionismo “accademico” (basti pensare a Robert Faurisson e David Irving) e il successo del Front national di Jean-Marie Le Pen (che, da più di vent’anni, martella che le camere a gas sono state un dettaglio della storia della Seconda guerra mondiale). Il tutto seguito da un crescendo straordinario di eventi: tre processi – contro Barbie (1987), contro Touvier (1994) e contro Papon (1997-1998) –, il rifiuto di François Mitterrand di riconoscere le responsabilità del regime di Vichy (e quindi dell’apparato statale francese) nelle persecuzioni anti-semite, il cambiamento di atteggiamento di Jacques Chirac nel discorso del 16 luglio 1995 sulla retata del Vél’ d’Hiv’. Penso che, durante tutta quella fase, sia stato importante affermare che la verità storica non è un “gioco” e che nessuno – neanche lo storico – ha diritto a un regime particolare di impunità. Da questo punto di vista, il circolo tra storia, diritto e politica non è stato vizioso, anzi. Anche la legge Taubira non mi scandalizza: sicuramente c’è qualcosa di anacronistico, dato che la nozione di crimine contro l’umanità è emersa solo nel corso del XX secolo, ma rappresenta una reazione comprensibile a una vulgata storica che ha fatto della Gran Bretagna e della Francia soprattutto due campioni dell’abolizione dello schiavismo…. La legge Mekachera, del 2005, con l’articolo 4 che prevedeva che i programmi scolastici riconoscessero il ruolo positivo della presenza francese oltremare, è tutta un’altra storia: rappresenta una falsificazione storica, come indica il solo fatto di usare il termine ipocrita di “presenza” per parlare delle colonie.
Fin da questo primo numero dedicato al “trauma storico” appare chiaro che vi muovete in un orizzonte risolutamente interdisciplinare. Sono raccolti interventi di psicologi, psicanalisti, filosofi, oltre che di storici. Ma l’orizzonte è aperto anche in termini geografici: si spazia dall’Italia (il dibattito sul progetto di un museo del Fascismo a Predappio) all’Argentina (come le istituzioni e le organizzazioni della società civile integrano e definiscono la nozione di trauma storico in relazione alla passata dittatura.) Da dove nasce questa esigenza di approcci diversi intorno a uno stesso oggetto? È l’oggetto stesso, ossia il “trauma storico”, che necessita di essere fin dall’origine costruito in questo modo o è piuttosto l’esigenza di decostruirlo, e di sottrarlo al monopolio di una sola disciplina, o di un solo tipo di discorso, che rende indispensabile questo incrocio di prospettive?
Dall’inizio ci è sembrato importante muoverci in due direzioni: interdisciplinare, proprio per riflettere su diversi tipi di rappresentazione del passato. Per questo il comitato di redazione è composto, oltre che da storici, da antropologi, sociologi, filosofi, psicologi. Siamo anche molto interessati al rapporto con le “arti”. Proprio in questo momento stiamo valutando la possibilità di dedicare uno dei prossimi dossier alle rappresentazioni artistiche: negli ultimi anni la letteratura ha ricominciato a raccontare il passato (basta pensare alla forza di Hammerstein o Dell’ostinazione di Hans Magnus Enzensberger e di Scomparsi di Daniel Mendelsohn). La “vocazione” storica ha coinvolto anche le arti, soprattutto l’ambito della performance e delle new media art (video, fotografia, opera digitale). In particolare, il re-enactement, che indica la rappresentazione reiterata di eventi storici, ha avuto un grande successo sulla scena artistica odierna. Inoltre abbiamo scelto di uscire dall’ambito nazionale, per due motivi principali. Da un lato, alcune controversie coinvolgono più paesi (per esempio, la Corea, la Cina e il Giappone, oppure Israele e la Palestina, l’Ucraina e la Russia, etc.). Dall’altro, perché alcuni fenomeni storici non sono comprensibili su scala nazionale: è il caso della tratta degli africani, della memoria della colonizzazione, ma anche dello Stermino degli ebrei. Il dossier sul trauma corrisponde pienamente a questa prospettiva interdisciplinare e internazionale. Negli ultimi decenni - anche grazie alla pressione esercitata dai veterani della guerra del Vietnam e dai gruppi femministi americani - c’è stato un allargamento iperbolico della nozione. Non posso dimenticare quando il senatore forzista Renato Schifani disse che la caduta del governo Berlusconi avrebbe rappresentato un trauma per la nazione…. Di fronte a questa banalizzazione o a questi abusi, ci è sembrato importante tornare alla riflessione psicanalitica e domandarci: come possiamo “salvare” la nozione di trauma storico dal suo successo?
Come definiresti, attualmente, il tuo ambito di ricerca? E quali nessi esistono tra Passés Futurs e il tuo lavoro di insegnamento e ricerca?
Da un punto di vista tematico, sono stata e continuo a essere una storica abbastanza incoerente: la mia prima ricerca riguardava la stregoneria, poi sono passata all’istituzione militare, poi alla biografia, poi agli usi pubblici del passato e al tempo… Tuttavia, sento una forte continuità per quanto riguarda gli interrogativi che stanno dietro a queste ricerche. Se dovessi riassumerli in un’unica domanda, direi: qual è il rapporto tra il singolo caso individuale e il movimento generale della storia? Da un lato m’interessa la pluralità del passato: sono attratta dalla vitalità periferica della storia e, più che unificare i fenomeni, cerco di vedere le variazioni e le dissonanze dell’esperienza storica. Dall’altro, sono sensibile alla sua dimensione etica. Non voglio dire che la storia debba essere morale, o che possa offrire degli esempi da seguire o da aborrire (anzi, sono convinta che servano a ben poco e che rischino addirittura di avere un effetto fuorviante). Però penso che sia etica, perché svela il dramma della libertà. Per questo ho intitolato il mio libro sul rapporto tra la biografia e la storia Le Petit x. De la biographie à l'histoire (Seuil, 2010 e, nella versione italiana, La piccola x. Dalla biografia alla storia, Sellerio, 2012): l’espressione è di Johann Gustav Droysen, che, nel 1863, scrive che, se si chiama A il genio individuale, cioè tutto ciò che un singolo uomo è, possiede e fa, allora questa A consta di a + x, dove a comprende tutto ciò che gli viene da circostanze esterne, dal suo paese, dal suo popolo, dalla sua epoca, etc. e x il suo contributo personale. Nel lavoro, e forse nella vita, tengo molto a questa piccola, o piccolissima, x. Comunque, per quanto riguarda l’oggi, sto scrivendo un libro sulla storiografia postmoderna, con Jacques Revel. E, ovviamente, sono molto presa dal progetto della rivista sugli usi pubblici del passato. I seminari di quest’anno sono dedicati a questi due temi.
Già nel tuo saggio La piccola x, oltre a convocare storici come Thomas Carlyle, Wilhelm von Humboldt, Friedrich Meinecke o filosofi come Wilhelm Dilthey, dedicavi uno spazio specifico a Tolstoj, uno dei massimi romanzieri dell’Ottocento. Mi riaggancio qui a quanto dicevi sul ruolo che l’invenzione artistica può avere nell’esplorazione e nella restituzione dell’esperienza storica. Nel caso specifico del confronto tra scrittura storica e scrittura di finzione, che cosa rende insostituibile l’apporto del romanziere? Perché, insomma, un romanzo ci permette spesso di penetrare la “piccola x” meglio o in modo più persuasivo rispetto a una biografia tradizionale?
Nella “fiction” il narratore ha un atout evidente: è onnisciente, sa quello che i personaggi pensano, sa che cosa sentono, conosce il loro vissuto. Basta pensare all’Austerlitz di Sebald. Non è il caso degli storici, che sono costretti a lavorare per indizi e a cui è tendenzialmente precluso l’accesso alla coscienza intima degli individui di cui parlano. Dico tendenzialmente, perché le testimonianze possono aprire qualche spiraglio. Ma si tratta sempre solo di spiragli. È anche per questo che Paul Ricoeur parla di “malessere” della storia. Tuttavia in questo malessere, potremmo dire in questa coscienza infelice, c’è un valore importante: la consapevolezza che la distanza tra passato e presente non può essere cancellata, che il passato non può diventare contemporaneo attraverso un’intuizione, un gesto visionario e/o profetico, che il passato ha un fondo di alterità che resiste. Nonostante questa differenza fondamentale, penso che per gli storici sia estremamente utile coltivare una politica di scambi con la letteratura. Non propongo di riportare la storia nell’alveo della letteratura, tanto più che, come ha notato Virginia Woolf, i tentativi di cancellare le differenze che esistono tra la narrazione storica e quella della finzione hanno quasi sempre dato risultati abbastanza tristi anche sul piano estetico. Ma, come ho cercato di dire nel capitolo su Guerra e pace, la letteratura può aiutare a rompere l'eccesso di coerenza del discorso storico, a sperimentare delle strategie narrative per rendere visibili le incertezze del passato, per meditare non solo su quello che è stato, su quello che è avvenuto, ma anche su quello che sarebbe potuto capitare.
Cosa ne pensi del successo che sembrano avere le biografie dei grandi personaggi storici e che popolano gli scaffali delle librerie? Qui siamo confrontati forse a uno paradosso: il genere che meglio si presta a cogliere l’apporto individuale nel corso degli eventi collettivi è in gran parte confinato a personaggi che hanno avuto un peso straordinario su quegli stessi eventi. Insomma, i lettori sarebbero interessati alla “piccola x”, a patto che appartenga a uomini (nella maggioranza dei casi) che hanno “fatto la storia”.
Non sono una grande lettrice di biografie. Forse il motivo è proprio quello hai appena detto tu. Molte biografie storiche riguardano i grandi uomini politici, in grado di plasmare gli eventi, o, comunque, descrivono individui improbabili, del tutto intenzionali e liberi. In ogni caso, la mia riflessione riguarda la storia. A partire dagli ultimi decenni del secolo XIX, alcuni sociologi e storici hanno condiviso l’idea di fare dell’impersonalità un criterio fondamentale di scientificità. In Francia, Emile Durkheim scrive che le scienze sociali devono studiare i modi di pensare, di sentire e di agire indipendenti dagli individui. Quest’idea viene ripresa, pochi anni più tardi, da François Simiand, il quale sostiene che lo storico deve studiare quel che è oggettivo, indipendente dalla spontaneità individuale. Secondo lui, il politico, l’individuale e il cronologico (definiti i tre idoli della tribù degli storici) sono senza realtà e devono essere sostituiti da altri oggetti, come il ripetitivo, il regolare, il tipico. Questo desiderio di impersonale è durato almeno fino agli anni 1960 e 1970, quando Emmanuel le Roy Ladurie auspica una storia senza uomini e Jacques Le Goff (in seguito, autore di due importanti biografie storiche) scrive che la storia delle mentalità studia “il contenuto impersonale del pensiero”. Nella Piccola x ho reagito a questo modo di concepire la storia, tornando su quella minoranza di autori che, nel corso del secolo XIX, hanno cercato di salvare la dimensione individuale della storia. Degli storici (oltre a Carlyle, soprattutto alcuni tedeschi, come Wilhelm von Humboldt e Friedrich Meinecke), uno storico dell’arte (Jakob Burckhardt), un filosofo (Wilhelm Dilthey) e uno scrittore (Leon Tolstoj). Tra di loro non c’è una continuità o una coerenza stretta, però condividono l’idea che il mondo storico sia creativo, e che questa qualità non abbia il suo fondamento in un principio assoluto, trascendente o immanente all’azione umana, ma nell’azione reciproca dei singoli individui. Quindi non presentano la società come una totalità sociale indipendente (un “sistema” o una “struttura” impersonale superiore agli individui), ma come un’opera comune.
Tocchiamo un ultimo punto: i progetti editoriali che in Germania, e poi in Francia, hanno riguardato la ripubblicazione di Mein Kampf, attraverso edizioni critiche curate da équipes di storici. In Francia, ad esempio, dove il lavoro è ancora in corso per l’editore Fayard, l’iniziativa ha suscitato in modo particolare la condanna di Jean-Luc Mélenchon, e la risposta su “Libération” dello storico del nazismo Christian Ingrao. Mai come in questo caso, almeno in Europa, un libro è connesso con il trauma cruciale della storia novecentesca.
Come sai, quando i diritti d’autore sono scaduti in Germania, l'Istituto di storia contemporanea di Monaco ha preparato un'edizione critica con una tiratura di 4.000 copie, curata e corredata da 3.500 note che servono a contestualizzare le dichiarazioni di Hitler. Dopo il lavoro estremamente preciso dell’équipe tedesca (Christian Hartmann, Thomas Vordermayer, Othmar Plöckinger, Roman Töppel), un gruppo di storici francesi, coordinati da Florent Brayard, sta preparando la versione francese. Almeno in questo caso, non ho dubbi, sono favorevole a quest’iniziativa. Il libro circola già, su carta e sul web. Qualche anno fa Antoine Vitkine (“Mein Kampf”: Histoire d’un livre, Flammarion), ha raccontato il suo successo nel mondo (in particolare in Turchia o in India!). Inoltre, può essere un’occasione importante per capire meglio come si è sviluppata e stratificata la decisione della soluzione finale degli ebrei. Oggi il pericolo non viene dalle edizioni critiche, ma dalla banalizzazione del nazismo (e anche del fascismo). L’abbiamo visto tre anni fa in Francia, quando è scoppiato l’affaire Dieudonné, che si diletta in dichiarazioni infami in nome dell’umorismo. L’abbiamo rivisto quest’estate in Italia, quando La Repubblica ha scoperto che il gestore della spiaggia di Punta Canna, vicino a Chioggia, inneggia a Mussolini e “scherza” sulle camere a gas, e che i clienti e le autorità locali considerano tutto ciò come “una questione folkloristica”.

Fonte: alfabeta2.it 

Nessun commento:

Posta un commento

Nota. Solo i membri di questo blog possono postare un commento.