La crisi è quel momento in cui il vecchio muore e il nuovo stenta a nascere. Antonio Gramsci

lunedì 25 settembre 2017

Resistenza: quella testarda volontà di stare “fuori dalla storia”

di Tomaso Montanari 
Il più efficace degli antifascismi: la coltivazione del senso critico. Che si alimenta di cultura, e di ricerca. Per questo, dopo la Liberazione, i Costituenti vollero scrivere (nel primo comma dell’articolo 9) che la Repubblica “promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica”. L’idea che attraverso la cultura ci si potesse opporre alla concretezza ferrea di un presente dominato da un pensiero unico è, d’altra parte, un tratto fondamentale del nostro antifascismo. Già nel 1925, per esempio, Carlo Rosselli scrive che “di fronte al progressivo consolidarsi del fascismo, la nostra sistematica opposizione corrisponde ad un regolamento di conti fuori dalla storia: forse non avrà apparentemente nessuna positiva efficacia; ma io sento che abbiamo da assolvere una grande funzione, dando esempi di carattere e di forza morale alla generazione che viene dopo di noi, e sulla quale e per la quale dobbiamo lavorare”. Questa testarda volontà di stare “fuori dalla storia”, cioè di non pensare che -usiamo parole di Gramsci- tutto ciò che esiste è naturale che esista, prende forza attraverso un’accanita conoscenza della storia stessa.
La cultura come resistenza. La cultura come mezzo per comprendere: in quel caso per provare a comprendere perché la maggioranza degli italiani non reagisse contro la minoranza fascista. La conoscenza del passato, della storia: è questo il senso profondo della radice fiorentina dell’esperienza dei Rosselli. “Prima di agire -ha scritto Calamandrei- bisognava capire. Per questo, come primo atto di serietà e responsabilità, essi promossero quelle riunioni di amici tormentati dalle stesse domande e assetati anch’essi di capire, che dettero origine al Circolo di Cultura… ci riunivamo in quella sala a leggere e a discutere: temi di politica, di economia, di letteratura, di morale”. Finché, il 31 dicembre del 1924, “una squadra di fascisti invase le sale e le devastò: dalle finestre che davano in piazza santa Trinità furono gettati di sotto tutti i mobili, i libri e le riviste, e ai piedi della Colonna che porta in cima la statua della Giustizia fu fatto d’essi un gran rogo”.
Oggi i nemici della cultura non ricorrono a roghi e a bastoni. Ma è innegabile il fatto che esista un nesso tra il fascismo storico e l’attuale totalitarismo del mercato. Un nesso colto, come è noto, da Pier Paolo Pasolini fin dall’inizio degli anni Settanta: “Io credo, lo credo profondamente, che il vero fascismo sia quello che i sociologhi hanno troppo bonariamente chiamato la ‘società dei consumi’. Se uno osserva bene la realtà, e soprattutto se uno sa leggere intorno negli oggetti, nel paesaggio, nell’urbanistica e, soprattutto, negli uomini, vede che i risultati di questa spensierata società dei consumi sono i risultati di una dittatura, di un vero e proprio fascismo. Questo nuovo fascismo, questa società dei consumi, invece, ha profondamente trasformato i giovani, li ha toccati nell’intimo, ha dato loro altri sentimenti, altri modi di pensare, di vivere, altri modelli culturali”. A quasi cinquant’anni di distanza da questa pagina, l’analisi di Pasolini sembra drammaticamente attuale. E se l’opposizione alla deificazione del presente può sembrare, per usare le parole scritte da Rosselli nel 1925, “un regolamento di conti fuori dalla storia” non è per questo meno necessaria, carica di futuro e moralmente ineludibile. Se c’è una speranza di dimostrare che non tutto ciò che esiste è naturale che esista così, quella speranza passa attraverso un rinnovato incontro tra conoscenza del passato e critica del presente.

Fonte: Altreconomia.it 

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