La crisi è quel momento in cui il vecchio muore e il nuovo stenta a nascere. Antonio Gramsci

martedì 26 settembre 2017

Logistica, potere, sciopero: elementi per un’infrastruttura politica

di Transnational Social Strike Platform
Questo reader raccoglie testi scritti da attiviste e attivisti, lavoratori e sindacalisti provenienti da diversi paesi europei, che hanno preso parte alle discussioni sulla logistica promosse dalla Transnational Social Strike Platform. Sin dal principio, come TSS Platform, abbiamo riconosciuto che la logistica presenta una sfida inevitabile per qualsiasi movimento che aspiri a rovesciare le condizioni presenti dello sfruttamento. Lungi dal fare riferimento solo alle infrastrutture, ai trasporti e alla distribuzione, la logistica può essere descritta come la logica di fondo del capitalismo odierno e come una delle forze trainanti dell’attuale ristrutturazione della produzione, degli spazi politici e delle relazioni sociali. La sua specifica rilevanza risiede nel suo costante lavoro di frammentazione dei diversi nodi delle catene della produzione e della riproduzione, al fine di disporli secondo i bisogni esclusivi della valorizzazione transnazionale e di produrre le condizioni di una completa disponibilità del tempo e della vita di lavoratori e lavoratrici. La logistica, perciò, include un insieme complesso e differenziato di strumenti tecnici, standard, protocolli, principi organizzativi, strutture istituzionali e condizioni legali che influenzano materialmente e politicamente il modo in cui il capitale cerca di comandare la cooperazione sociale e di governare il lavoro vivo. Gli articoli raccolti in questo reader e la sua introduzione sottolineano differenti aspetti della logistica i quali, presi insieme, mostrano la sua dimensione politica specifica e nondimeno generale.

La logistica costruisce costantemente un immaginario di efficienza e uniformità occultando la realtà del lavoro precario

Gli ultimi anni sono stati caratterizzati da un’ondata di lotte contro la logistica. Dai porti ai magazzini, dalle fabbriche che formano le filiere globali alle imprese della cosiddetta «gig economy», dalle questioni ambientali ai movimenti contro progetti infrastrutturali, in tutto il mondo si osserva la crescita di lotte che hanno una relazione diretta con l’impatto della logistica. Queste lotte e le diverse forme di sciopero che sono state in grado di scatenare gettano luce su un mondo del lavoro che per un certo periodo è stato considerato come obsoleto e politicamente residuale dai movimenti. Esse dimostrano, inoltre, che la pervasività della logistica oltrepassa di gran lunga uno specifico settore e la sfera della circolazione. Ciò che è chiaro per noi è il bisogno di rendere più complessa la nostra comprensione della logistica per mettere in discussione alcuni assunti semplicistici e alcune distinzioni nette, quali quella tra circolazione e produzione, lavoratori precari e regolari, produzione materiale e immateriale, dimensione economica e politica, locale e globale, lotte sociali e sul lavoro. Queste distinzioni, utilizzate dalla logistica e dai suoi promotori per nascondere la realtà dello sfruttamento, sono troppo spesso accettate ciecamente anche da coloro che mirano a organizzarsi contro di essa.
L’immaginario di efficienza, uniformità e necessità tecnologica connesso alla cosiddetta «rivoluzione logistica» è solo una parte della storia: lottare dentro e contro questo mondo implica svelare le condizioni che stanno dietro questa trasformazione logistica che si presume solo tecnica, portando alla luce ciò che essa sistematicamente nasconde. In quanto trasformazione complessiva del comando sul lavoro e sulla vita, la logistica è l’altra faccia della precarietà: una condizione diventata generale, ma che la logistica contribuisce a nascondere. Essa si fonda, infatti, su una visibilità selettiva: mentre le tecnologie digitali sono utilizzate per tracciare, controllare e comandare le performance lavorative, una caratteristica tipica delle filiere globali è la capacità di sfruttare il lavoro informale, che non compare nei registri delle aziende, e occultare la responsabilità dei padroni attraverso il subappalto e l’esternalizzazione. Ciò che si mostra nella logistica è solo la superficie di un fenomeno sociale e politico più profondo che è la forzata e violenta dipendenza dal salario e dal reddito: zone economiche speciali e magazzini, software e algoritmi non segnano una presunta «fine del lavoro» – curiosamente abbracciata tanto dai padroni quanto da alcuni critici del capitalismo –, ma sono piuttosto un modo per intensificare lo sfruttamento e riprodurre costantemente la piena disponibilità al lavoro.
È qui che possiamo osservare quanto le differenti dimensioni del lavoro si sovrappongano e collidano. Il senso di una implacabile digitalizzazione della vita è l’altro lato dell’immagine di uniformità e ubiquità delle consegne. Mentre l’interoperabilità e la multimodalità sono state usate per vendere la fantasia logistica di un mondo liscio e iperconnesso di produzione snella, la celebrazione della produzione smart o 4.0 è la frusta agitata contro tutti i lavoratori e le lavoratrici per forzarli ad accettare il peggioramento delle loro condizioni di lavoro. Ciò che abbiamo di fronte è quindi una complessa differenziazione di condizioni in cui la digitalizzazione e le tecnologie concorrono a esercitare più pressioni sui lavoratori e le lavoratrici in ambiti tanto diversi quanto le fabbrica, i magazzini, i servizi pubblici, i campi, le università o la distribuzione. Per tutti digitalizzazione significa un sempre più netto spostamento di potere verso la logica competitiva del capitale globale e la generalizzazione della precarietà. Di conseguenza, la frammentazione e l’estensione indefinita della giornata lavorativa, la decisa intensificazione del tempo di lavoro attraverso l’imposizione di indicatori di performance e altre tecniche di misurazione mascherano sempre di più il comando e colpiscono tutti i lavori e le posizioni, anche quelle un tempo considerate «sicure».
Come mostrano le lotte nella logisitica, tuttavia, la durezza di questo comando può essere concretamente indebolita trasformando la frammentazione in connessione, rendendo la lotta stessa la condizione di una comunicazione politica basata su un’urgenza condivisa di riprendersi il controllo sul tempo, rifiutando la disponibilità completa che la razionalità logistica pretende e cerca costantemente di imporre. Alla luce di questo non possiamo pensare che la nostra capacità di rovesciare la logistica contro se stessa sia solo una questione tecnica. Se la logistica non è un settore, se non è semplicemente una questione tecnologica, se è piuttosto uno dei pilastri della riorganizzazione globale del neoliberalismo, allora la nostra infrastruttura politica dovrebbe essere capace di affrontare e attaccare l’insieme delle condizioni di questa riorganizzazione.

Ogni lotta dentro e contro la logistica deve essere concepita e realizzata a livello transnazionale

Le lotte contro la logistica dimostrano che la sola cosa che è stata realmente condivisa globalmente è l’inserimento di ogni condizione locale e nazionale dentro una rete di infrastrutture, vie di comunicazione, catene produttive, algoritmi, scambi finanziari e mobilità di lavoro e capitale. Affermando il bisogno di impostare la nostra iniziativa politica sulla scala transnazionale, non stiamo celebrando il globale in quanto tale. Stiamo piuttosto registrando l’inadeguatezza di scale chiuse di analisi e organizzazione per combattere contro il dispiegamento globale del capitale. Per questa ragione, vediamo nella dimensione transnazionale una sfida e un’opportunità ineludibili.
Se una vittoria locale può trasformarsi in una perdita per altri, in altri nodi della stessa catena produttiva, il compito di tracciare l’intera filiera diventa un passaggio necessario. Oltre a questo è però necessario riconoscere che, mentre connette, la logistica frammenta e crea divisioni grazie alla cooperazione di un insieme di attori, incluse istituzioni locali, nazionali e sovranazionali, al fine di migliorare il suo controllo sul lavoro vivo. La sfida dunque è quella di comprendere non semplicemente come la produzione e la circolazione sono organizzate su scala transnazionale, ma anche come la logica della logistica struttura l’intera gestione e il comando del lavoro vivo, dentro e fuori i luoghi di lavoro. Questo richiede sicuramente di organizzarsi attraverso i confini, ma richiede anche qualcosa in più: cioè la costruzione di connessioni politiche che siano capaci di affrontare e rovesciare le condizioni politiche attraverso cui questa frammentazione è prodotta e riprodotta.
Da questa prospettiva, prendere le mosse dalla condizione migrante consente di sottolineare la pervasività della logica della logistica. I migranti non sono solo impiegati massicciamente nei magazzini come lavoro precario e informale: sono anche coloro la cui mobilità è gestita attraverso una «razionalità logistica» che mira a regolare, selezionare, organizzare i loro movimenti verso e attraverso l’Europa. Vista dal punto di vista dei migranti, la logistica è un insieme di relazioni di potere esercitate da aziende, imprese, Stati e agenzie pubbliche e private. Per essere affermato, il comando logistico ha bisogno di mezzi quali gli Stati nazionali e il loro controllo sui movimenti del lavoro vivo attraverso il ricatto di permessi di soggiorno precari e di un accesso ristretto a servizi di welfare. La violenza del sistema dei confini è un’altra dimensione della frammentazione che serve per produrre la disponibilità ai bisogni del capitale e indebolire il potenziale di insubordinazione. Se i migranti consentono di mostrare la dimensione politica della logistica, essi sono anche i protagonisti di un potente movimento che sfida ogni giorno la razionalità logistica investendo i confini. I migranti mostrano che il progetto di lottare contro la logistica e il bisogno di organizzarsi a livello transnazionale sono una cosa sola.
Molti testi di questo reader suggeriscono che una cooperazione e coordinazione migliore tra le vertenze sul lavoro e un supporto da altre componenti della società possono non solo incrementare il potere di negoziazione in campo, ma anche creare le condizioni di una più ampia politicizzazione della lotta. Ciò che noi affermiamo è il bisogno di attaccare i punti deboli e le faglie dell’organizzazione logistica per creare ed espandere le anomalie nel sistema, colpendo allo stesso tempo le condizioni politiche, sociali e istituzionali che lo rendono possibile e che esso costituisce. È a questo livello che diventa chiaro in che misura l’estensione transnazionale delle filiere, delle infrastrutture e delle piattaforme digitali non è solo un aggiustamento operativo alla ricerca di condizioni migliori, ma una forza che scuote e trasforma gli spazi politici dove agiamo, riconfigurando gli Stati, le città e gli spazi metropolitani.

L’obiettivo è combinare la capacità di colpire materialmente in punti specifici e di attaccare le condizioni politiche e sociali della riproduzione del capitale

L’obiettivo non è, quindi, semplicemente quello di realizzare una contro-logistica come un rovescio tecnico della logistica del capitale. Si tratta piuttosto di collocare la nostra opposizione all’interno dell’insieme complessivo di condizioni sociali che sono costantemente messe in movimento da lotte sociali e scioperi. Dobbiamo sviluppare un sapere pratico derivato tanto dall’analisi del funzionamento delle infrastrutture logistiche, quanto dalle molteplici esperienze di insubordinazione, spingendole con ciò oltre i loro limiti. Il nostro obiettivo è quello di creare le condizioni per una comunicazione politica che sia capace di contrastare la logistica come frammentazione e come dominio. Mentre la logistica si presenta con il volto di nodi concentrati come porti, interporti e data centers, la sua realtà è una forma di potere diffuso e resiliente che valorizza e riproduce squilibri e specifiche condizioni di sfruttamento. Mentre la logistica celebra un mondo-azienda con confini selettivi, ciò di cui abbiamo bisogno è produrre una comunicazione politica transnazionale avanzando rivendicazioni che risuonino con la mobilità continua dei migranti attraverso l’Europa.
I blocchi e le altre tattiche che mirano a interrompere i flussi e la circolazione costituiscono sicuramente uno strumento di vertenzialità aggiornato alla dispersione territoriale della produzione contemporanea. Eppure, essi rimangono politicamente impotenti se non sono parte di una strategia più ampia. Invece di riprodurre in maniera speculare il discorso della logistica, il suo armamentario tecnico e la sua facciata splendente, una politica che miri a contrastare la frammentazione pervasiva prodotta dalla logistica deve combinare la capacità di colpire materialmente in punti specifici e di attaccare politicamente le condizioni sociali e politiche della riproduzione del capitale.
Che sia chiaro: i blocchi possono portare vantaggi significativi. Aumenti salariali, uno spostamento nell’equilibrio delle relazioni industriali, mansioni meno pesanti, costruzione di rapporti di solidarietà, dimostrazione di forza e senso di potere sono tutti risultati positivi di questa tattica. Ma i blocchi non hanno un potere provvidenziale: non possono sostituire l’organizzazione, la strategia e il discorso. La semplice intensificazione dei blocchi non è da sola capace di promuovere connessioni politiche sulla stessa scala dell’attacco che subiamo e lascia intatta la coazione al lavoro. Se la logistica è la logica che regola non solo la produzione, ma interviene anche nella riproduzione del capitale come relazione sociale, qualsiasi tipo di contro-logistica dovrebbe allo stesso tempo colpire la produzione nei suoi punti più sensibili e porsi il problema di bloccare l’organizzazione metropolitana che la logistica contribuisce ad affermare. Su questo sfondo, lo sciopero logistico deve connettere l’attacco nella sfera della circolazione e della produzione con la capacità di inceppare la dimensione politica delle società neoliberali. Questo obiettivo include il bisogno di costruire connessioni politiche tra la forza lavoro precaria frammentata. Queste connessioni non dovrebbero semplicemente replicare i nessi oggettivi che esistono tra i nodi dello stesso processo produttivo o della stessa filiera. Dovrebbero piuttosto mirare a superare l’isolamento indicando punti comuni di impatto e terreni di lotta in cui riversare nel tempo il nostro potere collettivo di insubordinazione. Queste connessioni politiche sono la nostra leva reale.
Nel contesto delle mobilitazioni contro il G-20, il blocco del porto di Amburgo ha prodotto qualcosa di più di un temporaneo danno economico: in quanto parte del progetto di #Hamburgcitystrike, ha indicato produttivamente il bisogno di superare la mera azione reattiva contro le agende governative. Seguendo la nostra comprensione della logistica, la chiamata a bloccare la logistica del capitale suggerisce che non possiamo affrontare in maniera separata il campo economico e quello politico. Contro il sogno che ci possa essere un potere politico capace di governare dall’alto le trasformazioni logistiche, e la fantasia di un potere logistico autosufficiente, è chiaro che la logistica produce tensioni politiche ed è costantemente messa in questione da resistenze e insubordinazioni. Come il movimento senza posa e indisciplinato dei migranti mostra, la pretesa della logistica di comandare qualsiasi cosa e persona è fallimentare. Mentre la logistica può governare processi, ha bisogno del potere degli Stati per imporre i suoi piani e limitare l’insubordinazione: l’ascesa del nazionalismo e del razzismo e il disomogeneo ma diffuso ritorno dello Stato sono due facce della stessa medaglia.
In tempi di tecnologie e innovazioni dirompenti – il nuovo mantra dei circoli globali del business – utilizzate per attaccare l’organizzazione dei lavoratori e per modellare le relazioni sociali, abbiamo bisogno di spezzare la filiera politica che riproduce l’«incubo sistemico» in cui viviamo. L’obiettivo è duplice: da un lato, dobbiamo di condividere una visione complessiva del processo produttivo. Dall’altro, dobbiamo sviluppare un discorso comune e rivendicazioni comuni che siano capaci di connettere diverse figure soggettive dentro e fuori i luoghi di lavoro. Questo significa che una politica contro-logistica dovrebbe nello stesso tempo attingere dalle lotte nei luoghi di lavoro, dallo sciopero delle donne e dei migranti contro il patriarcato e il razzismo istituzionale, e dalle varie forme di opposizione metropolitana. Per essere efficace, la contro-logistica ha bisogno di un’infrastruttura politica che punti a superare la distinzione improduttiva tra il momento pratico dell’organizzazione e quello della produzione di discorso politico. Emergendo da dentro il movimento dello sciopero, l’infrastruttura politica a cui intendiamo contribuire è il luogo in cui sviluppare una visione strategica condivisa per spingere le lotte verso obiettivi comuni e liberare tutto il loro potenziale. Un’infrastruttura politica che è capace di sostenere e allargare il processo dello sciopero sociale transnazionale come strumento di comunicazione politica, come ambito di organizzazione, come possibilità di insubordinazione di massa. Per rendere possibile l’imprevedibile.


Fonte: connessioni precarie 

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