La crisi è quel momento in cui il vecchio muore e il nuovo stenta a nascere. Antonio Gramsci

venerdì 30 ottobre 2015

Berlinguer proponeva un’idea nuova della politica

Intervista a Aldo Tortorella di Maria Zegarelli
Trovo Aldo Tortorella, coordinatore dell’ultima segreteria di Berlinguer, vivace e combattivo come sempre: «La prima cosa che vorrei far notare a De Giovanni è che non sono mancati saggi e libri interi, anche di rispettabili autori o autrici, tutti impegnati a mostrare un Berlinguer arretrato, da dimenticare. Ma se, a 31 anni dalla morte e dopo tante confutazioni, si ritiene di dover riproporre una discussione su di lui, già questo è il segno della solida permanenza di molte delle parole e delle idee che Berlinguer mise in campo». Questa è la sua premessa, durante questo lungo colloquio nel corso del quale emerge con forza la profonda conoscenza dell’uomo e del politico che segnò la storia del Pci. «Non accadrebbe – continua – se molte delle sue intuizioni non fossero state confermate dalla realtà. Bisognerebbe partire di qui, non dal contrario. Poi, a parte Livia Turco e Achille Occhetto, i più sembrano discutere di Berlinguer come se la sua vita fosse terminata nel 1979 quando egli stesso pone fine al governo detto di unità nazionale (ma divenuto di parte). La sua azione politica, però, è durata per più di altri quattro anni, fervidi di correzioni della sua politica, di iniziative e di idee che hanno lasciato il segno».
Un anno fa, ricordando Berlinguer, lei ha detto che quel mondo non esiste più. Eppure ancora oggi – come lei stesso – c’è chi coglie l’attualità dei “pensieri lunghi” del segretario Pci. De Giovanni sostiene che la lettura del capitalismo che Berlinguer fece, un capitalismo giunto ai suoi confini quando invece si era alla vigilia della più grande rivoluzione capitalistica, ne condizionò il suo intero tragitto. 
«Non mi pare esatto. Proprio durante gli ultimi anni la sua valutazione dello sviluppo capitalistico divenne più precisa. Berlinguer giudica, e dice, che il modello capitalistico ha vinto senza dubbio sul terreno quantitativo, mentre sul terreno qualitativo ha generato problemi in parte nuovi e drammatici. Vede che avanzano contraddizioni nominate allora da pochi, come la questione ecologica. Constata che il rapporto tra il nord e il sud del mondo crea situazioni inaccettabili e potenzialmente esplosive, tema che aveva condiviso negli anni precedenti con i socialdemocratici Brandt e Palme, esautorato il primo, assassinato il secondo. Il capitalismo non era giunto ai suoi confini, ma c’era molto da discutere sugli esiti della sua vittoria : questo constatava Berlinguer – e constatiamo drammaticamente anche oggi. Egli parlava di introdurre elementi di socialismo in una società capitalistica. Sembrava un assurdo. Oggi molti lo dicono con altre parole. Non è poi esatto far intendere che Berlinguer fosse rimasto all’epoca del fordismo: una delle sue ultime interviste è interamente dedicata alla rivoluzione che le nuove tecnologie stavano determinando nel mondo della comunicazione, della produzione e dei rapporti umani. E alle contraddizioni nuove che avrebbero generato».
Quanto forte era la convinzione, dell’ultima fase della sua segreteria, che fosse finito “un tempo politico” e dunque fosse necessario aprire una nuova prospettiva, immaginare un nuovo tempo politico anche e soprattutto per la sinistra?
«Era una convinzione che dettò un’azione. Berlinguer propose l’idea di un’alternativa democratica, dapprima come “governo degli onesti”, poi, nel congresso del 1983, dedicando ampia attenzione al rapporto con il Psi, invitato a riaprire un rapporto a sinistra anche senza abbandonare il rinato governo con la Dc. Ci fu poco dopo l’incontro e il documento comune delle Frattocchie. Sembrava che qualcosa si muovesse, ma, passato qualche mese, nacque il governo Craxi, ma ancora sulla base del cosiddetto “preambolo” di Forlani, che stabiliva di nuovo una pregiudiziale anticomunista, come se il Pci fosse rimasto quello degli anni Cinquanta. E poi vennero i fischi al congresso del Psi nel 1984, pochi mesi prima della morte di Berlinguer».
Proviamo a fare un bilancio delle parole chiave che ispirarono il pensiero di Berlinguer. Sono rimaste nel nostro lessico, ma cosa ne è stato di quello che volevano diventare tradotte in azione politica?
«Parliamo dell’austerità e della questione morale. Il primo termine fu usato da me nella relazione al convegno degli intellettuali all’Eliseo, nel 1977, in cui parlavo prevalentemente di una politica che rendesse protagonista l’intellettualità diffusa, sempre più determinante nella nuova società ( oggi si parla della preminenza del lavoro cognitivo). Al momento della preparazione delle conclusioni, nella stanza fumosa in cui lavorava, Berlinguer mi chiese se avevo obiezioni al fatto che il suo intervento si concentrasse sull’austerità. Acconsentendo, lo pregai di non dimenticare il tema di una nuova politica per l’intellettualità diffusa, cosa che fece. Sono comunque testimone che fin dalla discussione di quella notte l’idea di austerità nasceva come opposta alla politica della lesina punitiva verso i meno abbienti e indirizzata invece a un riequilibrio dei pesi tra le classi sociali e all’avvio di un diverso modello di sviluppo. D’altronde, il testo di quelle conclusioni, e quelli successivi sulla materia, come è stato ricordato, parlano da soli».
E la questione morale?
«Si trattava certo di un tema politicamente scottante, ma non solo. Senza risanarsi i partiti – diceva Berlinguer – sarebbero finiti. E infatti senza risanamento finirono. Ma insieme e soprattutto l’espressione “questione morale” alludeva alla fondazione stessa della politica. Nella separazione, che segna la modernità, tra politica e morale ci può essere un equivoco. La doppia etica weberiana, quella dei principi (che non badano ai risultati delle azioni) e quella della responsabilità, nella pratica era diventata etica privata delle intenzioni e etica pubblica dei risultati. Con effetti disastrosi: se il risultato da raggiungere viene considerato buono possono essere giustificati le peggiori malefatte, come vediamo, o persino i più terribili delitti, come accadde. Quella espressione voleva indicare un tema anche teorico: la necessità di un radicamento della politica su istanze etiche sinceramente vissute. Lo stato deve essere laico. Ma un partito laico deve avere un proprio punto di vista sul mondo, pena la nullità».
A chi parlava? Possiamo dire che si rivolgeva anche al suo partito?
«Berlinguer non parlava solo agli altri ma si rivolgeva anche al suo partito, come provano anche i documenti di tante riunioni interne pubblicate in questi anni. E abbiamo visto, poi, cosa ha significato non ascoltare quel monito: la corruzione è dilagata, è spuntato un partito anticasta, che ha raccolto il 25% dei voti».
Nella discussione aperta in queste pagine è stato anche detto: Berlinguer più comunista di Togliatti. Era rimasto ancorato al 1917. Condivide?
«Ricordo che nel 1973, anno in cui scampò per puro caso al terribile “incidente” automobilistico in Bulgaria, come ha rivelato Macaluso e hanno confermato i familiari, Berlinguer era convinto di aver subito un attentato per eliminarlo. Dire, come De Giovanni e altri, che si sentisse sino alla fine parte di quel mondo che giudicava propenso al suo assassinio è un assurdo. Altra cosa è dire che egli, come altri di noi, pensasse a una possibile riforma democratica del mondo sovietico. Era un’idea che la storia ha smentito pienamente, ma non era campata per aria. Esisteva una tendenza riformatrice detta “italiana” nel partito sovietico, di cui fu poi espressione Michail Gorbaciov: vinse per breve tempo, poi fu sconfitta. Ma bisogna anche vedere che cosa si intende per comunista e per comunista italiano. Togliatti aveva vissuto due guerre mondiali e lo stalinismo, durante il quale aveva dovuto faticare per salvare la sua vita e quella della maggior parte dei suoi compagni. Anche per questa terribile esperienza Togliatti porterà il suo partito all’assoluta fedeltà alla democrazia. Berlinguer era della generazione successiva, radicata nella Resistenza, da giovane aveva nutrito simpatie anarchiche e libertarie. Come comunista italiano è sempre stato uno strenuo difensore della democrazia costituzionale e, assai a lungo, della linea togliattiana dell’unità delle grandi forze popolari. Ma rispetto a Togliatti ha poi operato correzioni decisive. La“via italiana al socialismo” poteva essere equivocata come una variante nazionale di una linea generale tracciata da Mosca. Con Berlinguer l’equivoco è tolto di mezzo. Con lui si afferma che il socialismo non può vivere senza pluralismo politico, senza democrazia, senza libertà. Si trattava di una rottura teorica oltre che politica».
Si può obiettare però che a questa rottura non seguirono tutte le conseguenze politiche necessarie.
«È un’obiezione fondata solo se si pensa che le conseguenze avrebbero dovuto essere la rinuncia ad ogni idea di trasformazione della società. Berlinguer vede che un’esperienza storica si è conclusa e si rende conto che la via e le finalità dovevano essere cambiate e ridefinite. L’idea di un nuovo programma fondativo per il Pci si alimentò certo, in quegli ultimi anni, del recupero dei temi della giustizia sociale, ma anche e soprattutto di una straordinaria attenzione alle idee nuove: l’ecologismo, il femminismo della differenza, un più netto europeismo unito a quella di un nuovo ruolo dell’Europa verso il mondo del sottosviluppo. E, soprattutto, veniva proponendo una idea nuova della politica. Con me, che gli fui particolarmente vicino e solidale in quegli ultimi anni, non parlò mai di mutamento del nome del partito. Il problema che poneva era quello del mutamento del contenuto. La questione del nome e il modo in cui è stata posta ha soffocato il resto. L’oblio è il miglior modo di dimenticare gli errori e di correggerli».
Lei nega allora l’immagine del fallimento di Berlinguer?
«Bisogna intendersi sulle parole. Se la politica è solo lotta per il potere, allora la risposta è ovvia. Ma coloro che hanno ragionato così e hanno rovesciato la politica di Berlinguer hanno certo ottenuto potere, ma hanno portato la sinistra e l’Italia dove sono adesso. Questi vincitori sono i veri sconfitti».

Fonte: L’Unità
Pubblicato da rifondazione.it 

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