La crisi è quel momento in cui il vecchio muore e il nuovo stenta a nascere. Antonio Gramsci

venerdì 30 ottobre 2015

Diseguaglianze e guerre civili. Recensione a “Inequality, grievances and civil war”

di Matteo Rossi
Che rapporto esiste tra diversità etniche e guerre civili?
La diseguale distribuzione delle risorse tra i gruppi etnici è una causa della guerra civile?
Quale relazione lega struttura socio-economica e violenza politica?
A queste domande prova a rispondere il lavoro di tre politologi scandinavi, Lars-Erik Cederman1, Kristian Skrede Gleditsch2 e Halvard Buhaug3, pubblicato dalla Cambridge University Press nel 2013. Inequality, Grievances and Civil War rappresenta probabilmente il contributo più rilevante degli ultimi anni alla sterminata letteratura sulla guerra civile e le divisioni etniche.
L’obiettivo fondamentale degli autori è indagare le cause delle guerre civili e spiegare quale rapporto intercorra tra divisioni etniche interne a un paese e rischio di guerra civile. In entrambi i casi Cederman, Gleditsch e Buhaug presentano tesi in forte contrasto con la letteratura sulla guerra civile prevalente negli ultimi vent’anni4, in quanto pongono al centro della loro spiegazione il ruolo delle diseguaglianze tra gruppi etnici, in particolare quelle politiche, come causa della violenza.
Il libro è strutturato in tre parti: la prima contiene una revisione critica della letteratura precedente sul tema e l’esposizione generale della teoria; la seconda passa in rassegna i diversi tipi di diseguaglianze (politiche ed economiche, orizzontali e verticali, a livello di gruppo e a livello di paese) mettendo alla prova empiricamente la teoria; la terza parte prende in considerazione fattori come la durata e l’esito dei conflitti, prima di concludere con alcuni consigli riguardo alle politiche necessarie a contenere le guerre civili.
Mentre per la guerra civile gli autori assumono una definizione in linea con la letteratura precedente (conflitto violento che mette in contrapposizione un attore non statale contro uno stato5), è sul concetto di etnia che compiono uno scarto significativo e denso di conseguenze teoriche. La loro idea è che, considerando le differenze etniche come un dato meramente demografico, non sarà mai possibile capire se e come abbiano impatto sulla probabilità di guerra civile. Essendo la guerra civile un fenomeno politico, sarà allora necessario indagare gli aspetti specificamente politici delle appartenenze etniche, ovvero ilnazionalismo etnico, la rivendicazione da parte del gruppo etnico del diritto ad autodeterminarsi come nazione. Solo compiendo questo spostamento concettuale si possono comprendere, secondo gli autori, le origini delle guerre civili.
Nell’indagarle, il punto di partenza è il concetto di diseguaglianza orizzontale, teorizzato da Charles Tilly6, secondo il quale le diseguaglianze più resistenti e durature sono quelle che emergono lungo divisioni tra categorie sociali (di genere, etniche, di cittadinanza, etc.). In questo senso è necessario distinguere tra diseguaglianze verticali, che comparano le condizioni dei singoli individui, aggregandole a livello dell’intera società, e diseguaglianze orizzontali, che mettono a paragone interi gruppi, senza considerare le differenze interne ad ognuno7. Cederman, Gleditsch e Buhaug partono da questo secondo tipo di diseguaglianze tra gruppi etnici, ritenendo che siano le più utili a spiegare le radici delle guerre civili. Si può quindi chiamare diseguaglianza orizzontale politica la differenza tra i gruppi etnici nell’accesso al potere statale, ovvero l’inclusione di alcuni e l’esclusione di altri. Sarà diseguaglianza orizzontale economica la differente distribuzione del reddito tra i diversi gruppi etnici. La diseguaglianza orizzontale sociale misura infine l’accesso dei gruppi alle risorse sociali8.
In che modo queste diseguaglianze tra gruppi possono arrivare a causare una guerra civile?
Il percorso causale presentato dagli autori è diviso in due momenti. In primo luogo le diseguaglianze causano rivendicazioni9, e per farlo devono essere “politicizzate”. Il percorso che può portare alla politicizzazione delle diseguaglianze si compone a sua volta di varie fasi. Per prima cosa è necessaria da parte del gruppo una auto-identificazione, il gruppo etnico deve avere coscienza di sé in quanto gruppo. In secondo luogo il gruppo deve aver comparato la propria condizione (politica, economica e sociale) con quella degli altri gruppi. Se da questa comparazione il gruppo percepisce un’ingiustizia nella distribuzione delle risorse, la fase conclusiva per arrivare alla rivendicazione di gruppo è l’individuazione di coloro che ne sono responsabili10. La seconda metà del percorso causale (che gli autori specificano essere soltanto probabilistico e non meccanicistico) spiega in che modo dalla rivendicazione collettiva si possa arrivare allo scoppio della violenza e alla guerra civile. In questo caso la risposta sta nell’interazione tra il tipo di mobilitazione del gruppo sfidante, che può prendere strade diverse nel sostenere le proprie posizioni (con un ruolo rilevante delle emozioni collettive), e la risposta del governo in carica, che può essere di pura repressione ma anche di accoglimento parziale delle istanze.
Si tratta ora di capire quali siano le diseguaglianze orizzontali maggiormente suscettibili di dare inizio al percorso causale che abbiamo descritto. Secondo Cederman, Gleditsch e Buhaug il ruolo più rilevante lo gioca la diseguaglianza politica, ovvero l’esclusione dal potere. Partendo ancora una volta da Tilly, gli autori delineano un modello di sistema politico che distingue tra gruppi etnici interni al regime, che hanno accesso al potere politico e gruppi etnici esclusi dal regime e dall’accesso al potere. I gruppi sistematicamente esclusi dall’accesso al potere risultano sottoposti a un governo “straniero”, e questa è la più grande violazione possibile dei principi del nazionalismo etnico11. I gruppi che soffrono di una limitazione nell’accesso al potere politico saranno quindi più inclini a mettere in campo un conflitto violento rispetto ai gruppi pienamente inclusi nel regime politico12.
Questa affermazione viene confermata empiricamente dagli autori attraverso una complessa analisi dei dati statistici, che mette in relazione l’esclusione politica dei gruppi con l’occorrenza di guerre civili. Meritano di essere richiamati alcuni casi rilevanti, evidenziati in questa analisi. Per quanto riguarda in generale l’esclusione dal potere possiamo prendere a esempio i Kurdi in Turchia e i Palestinesi in Israele. Si tratta di gruppi sistematicamente esclusi dal potere fin dalla fondazione dei rispettivi stati: sono gruppi che non hanno vie legali per accedere ai veri centri decisionali del potere. Inoltre, a questa esclusione permanente, si è spesso affiancata una aperta discriminazione. Sono casi che rientrano perfettamente nel quadro teorico descritto. Analogamente, gli autori affermano che le rivendicazioni aumentano di intensità con l’aumentare della numerosità relativa dei gruppi esclusi rispetto a quelli inclusi13: risulta emblematico il caso della Siria in cui una minoranza etnica sciita governa una maggioranza sunnita esclusa dal potere. E’ una condizione che, in base alla teoria in analisi, facilmente porta allo scoppio di una guerra civile. Gli eventi di questi anni lo hanno confermato. Una terza affermazione è che i gruppi recentemente esclusi dal potere sono più facilmente disposti a iniziare un conflitto violento14. A questo riguardo due esempi che gli autori non hanno potuto prendere in considerazione, in quanto parzialmente successivi alla pubblicazione del libro, possono essere da un lato la violenza sunnita in Iraq a partire dalla caduta di Saddam Hussein (fino alla nascita dello Stato Islamico), e dall’altro la reazione immediata e violenta dei gruppi filo-russi in Ucraina dopo il crollo del regime di Yanukovich.
In base a questo ragionamento, l’unico tipo di prevenzione possibile sarebbero politiche di condivisione del potere (power-sharing), per includere nei processi decisionali anche i gruppi attualmente esclusi e anticipare la degenerazione dei conflitti in guerre civili.
Per quanto gli autori attribuiscano una priorità causale alle diseguaglianze orizzontali nell’accesso al potere politico, anche le diseguaglianze orizzontali nell’accesso alle risorse economiche hanno un ruolo rilevante. I gruppi con reddito pro capite sensibilmente inferiore a quello del resto della popolazione saranno quindi più inclini a intraprendere la strada che, attraverso le rivendicazioni, porta allo scoppio della violenza civile15.
Non vengono invece trovate significative correlazioni tra diseguaglianze economiche verticali e propensione al conflitto. In questo senso viene confermata la tesi degli autori secondo cui la guerra civile sarebbe un fenomeno in cui gli individui vengono mobilitati primariamente lungo linee di appartenenza etnica (o comunque di gruppo) piuttosto che lungo altre linee di divisione, come quella economica di classe.
Si potrebbe obiettare a questa teoria di essere troppo sbilanciata sul lato della violenza ribelle contro lo stato, non considerandolo a sufficienza come potenziale agente di violenza. Sarebbe una critica infondata, per due motivi. In primo luogo perché l’oggetto di questo testo è nello specifico la guerra civile e non la violenza politica in generale, e trattando di guerra civile, inevitabilmente, ad avere l’onere della prima mossa è chi contesta il potere in carica. Non è quasi mai il potere politico a iniziare le guerre civili, al limite può usare la violenza per impedirle. Inoltre questa teoria tiene in considerazione le responsabilità dello stato nel portare verso un conflitto sempre più acuto, attraverso i canali dell’esclusione politica e della discriminazione, che sono decise dai gruppi che hanno il controllo del potere politico.
La rilevanza teorica di questo lavoro può essere riassunta in quattro elementi.
In primo luogo è in grado di dare centralità esplicativa al rapporto circolare tra diseguaglianze e violenza.16 Le diseguaglianze contano in quanto sono il risultato della distribuzione strutturale delle risorse tra gruppi: l’idea è che in certe condizioni gli individui tenderanno a reagire all’ingiustizia strutturale che fonda la società. Le diseguaglianze non sono però un dato necessario e immutabile, ma sono storicamente determinate: secondo gli autori le diseguaglianze orizzontali tra gruppi derivano a loro volta da processi di lungo periodo di dominazione, sottomissione e violenza17. La violenza genera diseguaglianze tra gruppi, che a loro volta generano violenza: è la violenza che genera violenza.
Il secondo elemento di rilevanza è il ruolo che anche le emozioni collettive trovano in questa teoria, con conseguente rifiuto delle spiegazioni aridamente razionaliste che riconducono lo scoppio della violenza ad individuali analisi costi-benefici. Nella decisione di contestare con la violenza contano anche i sentimenti collettivi e conta l’appartenenza al gruppo.
Terzo elemento è la concettualizzazione che si fa dell’appartenenza etnica. La maggior parte della letteratura tratta le etnie come meri attributi demografici, misura la grandezza numerica di ogni gruppo presente in un paese, ne calcola una qualche misura di frazionalizzazione e si limita a correlarla con il numero di conflitti occorsi in quel paese, dando risposte diverse sulla correlazione positiva o negativa a seconda delle metodologie usate. Cederman, Gleditsch e Buhaug suggeriscono invece che la questione è più complessa: per capire un fenomeno politico come la guerra civile è necessario considerarepoliticamente le differenze etniche, valutando la distribuzione del potere tra i diversi gruppi. Questo permette loro di spiegare che il rapporto tra differenze etniche e guerra civile è rilevante, ma solo a patto di porre le appartenenze etniche nel loro contesto propriamente politico.
In ultimo luogo questa teoria risulta importante perché complessa e articolata, capace di spiegare la relazione causale tra diseguaglianze etniche e guerra civile tenendo insieme aspetti diversi ma tutti rilevanti: le cause politiche e le cause economiche, le cause strutturali e le motivazioni di gruppo, il ruolo dei ribelli e il ruolo dello stato, le cause immediate e le loro radici profonde.
Per questi motivi la teoria di Cederman, Gleditsch e Buhaug rappresenta un contributo rilevante per la letteratura futura, ma anche e soprattutto per la comprensione del tempo presente, in cui diseguaglianze e guerre civili continuano a proliferare in tutto il mondo.

1# Swiss Federal Technology Institute, Zurigo.

2# University of Essex.

3# Peace Research Institute, Oslo.

4# Per un’idea generale, cfr. In particolare gli scritti di James Fearon e David Laitin che sono rappresentativi delle tendenze generali della letteratura contrmporanea, specialmente: Fearon, J. D., Laitin, D. D. (2003). Ethnicity, insurgency, and civil war in American political science review, 97(01), pp. 75-90.

5# Cederman, L. E., Gleditsch, K. S., & Buhaug, H. (2013). Inequality, grievances, and civil war. Cambridge University Press, pp. 59-60.

6# Tilly, C. (1999). Durable inequality. University of California Press.

7# Cederman, L. E., Gleditsch, K. S., Buhaug, H. (2013). Inequality, grievances, and civil war.Cambridge University Press, p. 31.

8# Ivi, pp. 31-32.

9# Traduco con questo termine l’originale grievances, contenuto anche nel titolo, che non ha un preciso corrispettivo italiano ed è associato all’idea di insoddisfazioni e frustrazioni che si trasformano in attive recriminazioni.

10# Ivi, pp. 37-44.

11# Ivi, pp. 58-59.

12# Ivi, p. 61.

13# Ivi, p. 63.

14# Ivi, p. 62.

15# Ivi, p. 98.

16# In opposizione alla maggioranza della letteratura contemporanea che le ritiene irrilevanti nel motivare le azioni degli individui. Vedi Fearon e Laitin, cit.

17# Ivi, pp. 33-35.

Fonte: Pandora Rivista di teoria e politica 

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