La crisi è quel momento in cui il vecchio muore e il nuovo stenta a nascere. Antonio Gramsci

venerdì 30 ottobre 2015

Strategie per conquistare il lascito del presente

di Micaela Latini
«Nes­suno — diceva Blaise Pascal – muore così povero da non lasciare nulla in ere­dità». In tempi di crisi e di povertà il tema dell’eredità è tor­nato ad essere di grande attua­lità. Lo dimo­stra il suc­cesso di una nota tra­smis­sione a quiz tele­vi­siva, ma anche la scelta di que­sto motivo come parola chiave per il Festi­val di filo­so­fia di Modena del 2015. Che nell’eredità ci fosse un bot­tino teo­re­tico ricco di pie­tre pre­ziose lo aveva ben capito il filo­sofo tede­sco Ernst Bloch (1885–1977) negli anni Trenta, quando decise di inti­to­lare uno dei suoi studi più impor­tanti: Erb­schaft die­ser Zeit. L’imponente opera — pub­bli­cata a Zurigo durate il gri­gio periodo dell’esilio, e uscita in ita­liano nel 1992 per i tipi del Sag­gia­tore, con il titolo Ere­dità del nostro tempo e a cura di Laura Boella — è stata rie­dita dalla casa edi­trice Mime­sis, in una tra­du­zione rivi­si­tata sem­pre a cura della filo­sofa mila­nese. La novità sta già nella scelta di un nuovo titolo, Ere­dità di que­sto tempo (pp. 480, euro 36): una for­mula più fedele all’originale tede­sco e forse anche più effi­cace, nel sol­le­ci­tare il corto cir­cuito tra tempo e spazio.
La fami­lia­rità estranea
Il titolo scelto da Bloch rac­co­glie una rosa di inte­res­santi pro­vo­ca­zioni: per­ché c’è biso­gno di ere­di­tare que­sto tempo? Come è pos­si­bile ere­di­tare qual­cosa che è per defi­ni­zione già nostro, è qui, a por­tata di mano? E allora: que­sto tempo è vera­mente pre­sente? Per com­pren­dere la pre­gnanza teo­rica di que­sto motivo biso­gna inqua­drare l’opera blo­chiana nella cor­nice storico-politica dell’«Altra Ger­ma­nia». Il tema dell’eredità del pro­prio tempo rap­pre­senta infatti una que­stione cen­trale per una gene­ra­zione di intel­let­tuali ebraico-tedeschi, costretti, per soprav­vi­vere alla bar­ba­rie nazi­sta, ad emi­grare, a lasciare le pro­prie terre (e i pro­pri beni). Da qui si ricava il mes­sag­gio del titolo blo­chiano: esso con­si­ste nell’invito a ere­di­tare dal pre­sente, non dal pas­sato. Non è un caso se l’eredità di cui ci parla Bloch non riguarda l’estraneo, o meglio l’altro in quanto tale, ma l’estraneità del pro­prio, la «fami­lia­rità estra­nea», e l’«estraneità familiare».
Le pagine di Ere­dità di que­sto tempo intro­du­cono una con­no­ta­zione par­ti­co­lare dell’eredità; si tratta di ere­di­tare quell’aspetto del fami­liare che nel pro­teg­gerci ci espone. Il monito di Bloch è allora netto: il vero erede è colui che cerca di ere­di­tare il pro­prio tempo, di «appren­derlo con il pen­siero», in un’operazione né paci­fica né indo­lore. Non è un caso se Laura Boella, nella sua den­sis­sima intro­du­zione, sot­to­li­nea come il con­cetto di «ere­dità» di Bloch sia assi­mi­la­bile a un tesoro da con­qui­stare in un com­bat­ti­mento. Siamo ben lon­tani dalla con­ce­zione dell’amico György Lukács, che inten­deva l’eredità come una tra­smis­sione ele­gante, bor­ghese. Niente di tutto que­sto in Bloch, per il quale l’Erbschaft assume i tratti di una rapina che avviene non a spese di un estra­neo, ma di uno di fami­glia, di cui volenti o nolenti si è eredi legit­timi, insomma a spese di quell’estraneo che si annida pro­prio nel familiare.
Il dis­si­dio con Lukács
Sulla dia­let­tica di fami­liare ed estra­neo si arti­co­lano le pagine di Ere­dità di que­sto tempo, dedi­cate all’eredità di Nie­tzsche, ma anche quei passi sof­ferti dove Bloch misura le diver­genze tra le sue posi­zioni e quelle dei suoi (fino ad allora) più stretti inter­lo­cu­tori: Theo­dor W. Adorno, Wal­ter Ben­ja­min, Sieg­fried Kra­cauer. Il dia­logo più acceso è con l’ex «com­pa­gno di strada» György Lukács, dal quale Bloch prende le distanze fino alla totale con­trap­po­si­zione dovuta a una diversa valu­ta­zione del «socia­li­smo rea­liz­zato» nella Rdt (tracce di que­sto dis­si­dio si ritro­vano nella Pre­fa­zione del 1962 a Ere­dità di que­sto tempo). L’introduzione di Boella rico­strui­sce magi­stral­mente gli snodi più recon­diti del dibat­tito, resti­tuendo la com­ples­sità (e l’asperità) dei loro per­corsi intel­let­tuali.
Certo, con quest’opera Bloch ha voluto resti­tuire (come ere­dità) alla comu­nità scien­ti­fica un testo sco­modo, che «non rende le cose facili», nel senso che non cerca rapide solu­zioni, non paci­fica, ma sem­mai ina­spri­sce, esa­spera le con­trad­di­zioni. Le rifles­sioni blo­chiane si anni­dano nelle fes­sure del pre­sente, s’incuneano negli inter­stizi, nei luo­ghi dove il ter­reno ha fra­nato e, dopo lo smot­ta­mento, si sono aperte delle falle invo­lon­ta­rie. Que­sto scar­di­na­mento, que­sta ver­ti­gine destrut­tu­rante, coin­volge per Bloch anche la dimen­sione tem­po­rale, che non segue più un anda­mento uni­voco, ma si coa­gula in una stra­ti­fi­ca­zione di tempi sto­rici non congruenti.
Non è un caso se Bloch com­pone Ere­dità di que­sto tempo con la tec­nica del mon­tag­gio, tra­spor­tando le rovine in un altro spa­zio che si oppone al con­te­sto abi­tuale. Si ritro­vano assem­blati passi di Spi­rito dell’utopia (1918) e di Attra­verso il deserto (1923), ma anche di altri scritti minori; il tutto viene com­bi­nato uti­liz­zando il col­lante par­ti­co­lare offerto dallo stile affa­bu­la­to­rio di Tracce (1930). Come in un ine­dito col­lage (o meglio: frot­tage) si con­fi­gu­rano nuove costel­la­zioni, si sta­bi­li­scono inso­spet­tati equi­li­bri, si ten­tano impre­vi­ste asso­cia­zioni: si assal­gono cioè i limiti del noto. In linea con que­sto gesto audace, Bloch rinun­cia a un lavoro siste­ma­tico, imper­niato su un cen­tro sta­bile e defi­nito. Impiega piut­to­sto – come Laura Boella chia­ri­sce nell’introduzione – lo sguardo inquieto (e tal­volta stra­bico) di una nar­ra­zione che non spiega ma com­bina, accu­mula, rac­conta, descrive, pro­cede a salti, s’interrompe, torna indie­tro, rico­min­cia daccapo.
Una stra­ti­fi­ca­zione plurale
In que­sto qua­dro della Ger­ma­nia dai con­torni insta­bili e incerti Bloch tenta il suo passo più ardito, lo sforzo di com­pren­sione più dolo­roso: quello di «guar­dare in fac­cia la forza di attra­zione e la capa­cità della poli­tica nazi­sta di sod­di­sfare esi­genze fru­strate e represse di lar­ghe masse, non­ché di intel­let­tuali snob e di rispet­ta­bili acca­de­mici». Di con­tro al mito nazi­sta e iden­ti­ta­rio della purezza del san­gue, Bloch con­ti­nua a ricor­dare negli anni Trenta che la Ger­ma­nia è una terra mul­tiet­nica, una plu­ri­stra­ti­fi­ca­zione di tempi e di cul­ture. Al con­tempo l’analisi blo­chiana denun­cia in modo lucido la cor­re­spon­sa­bi­lità e l’inettitudine del par­tito comu­ni­sta tede­sco di fronte all’avanzata della destra. L’errore è stato pro­prio nel non aver com­preso le stra­ti­fi­ca­zioni pre­senti nell’eredità del pro­prio tempo e della pro­pria cul­tura, nel non aver con­si­de­rato, ad esem­pio, quella dia­let­tica di fami­liare ed estra­neo che è pro­pria della dimen­sione mitologica.
Per que­sto e per tante altre ragioni Ere­dità di que­sto tempo di Ernst Bloch – che nella nuova veste con­tiene anche un pre­zioso appa­rato di note – si rivela un testo asso­lu­ta­mente impor­tante, tanto imper­do­na­bile («Gli imper­do­na­bili» è il titolo della col­lana che lo ospita) quanto imper­di­bile: un’opera che mostra e dimo­stra la sua per­si­stente attua­lità in tempi infau­sti segnati da tra­gi­che migra­zioni, ma anche da nefa­ste riven­di­ca­zioni iden­ti­ta­rie, da chiu­sure nel mede­simo e da sospetto per l’altro.

Fonte: il manifesto 

Nessun commento:

Posta un commento

Nota. Solo i membri di questo blog possono postare un commento.