La crisi è quel momento in cui il vecchio muore e il nuovo stenta a nascere. Antonio Gramsci

venerdì 30 ottobre 2015

L’invenzione della star politica

di Francesco Marchianò
Molti miti, si sa, sono duri a morire, spe­cial­mente in poli­tica dove il mito spesso supera la realtà e si impone come visione delle cose. Uno dei miti pre­va­lenti, che si è affer­mato negli ultimi tempi, spe­cial­mente nel nostro Paese, è quello che attri­bui­sce al lea­der poli­tico un ruolo essen­ziale per vin­cere le ele­zioni. Un vero lea­der, però, non è tale solo per la capa­cità di rac­colta del con­senso. Il suo valore si misura soprat­tutto nell’incontro con il potere e nelle moda­lità con le quali lo gesti­sce. E’ qui che si può trac­ciare una linea tra i vari lea­der e vedere quanti siano riu­sciti a impri­mere una trac­cia impor­tante nel loro ruolo e quanti no. Per com­piere que­sta ope­ra­zione, occorre però porsi alcune domande: coloro che sono pas­sati alla sto­ria come lea­der forti, sono stati dav­vero tali? Hanno inter­pre­tato sem­pre in maniera per­so­nale il pro­prio ruolo, o devono in realtà gran parte del pro­prio suc­cesso a un’abile azione col­le­giale, sapien­te­mente masche­rata da potere per­so­nale? E, soprat­tutto, la demo­cra­zia ha biso­gno del lea­der forte o que­sto è un ruolo più adatto ad altri regimi?
Un volume apparso nel Regno Unito (The myth of strong lea­der. Poli­ti­cal lea­der­ship in modern age, Vin­tage Books, Lon­don, pp. 466, £. 11.99), e pur­troppo ancora non tra­dotto nel nostro Paese, pene­tra con effi­ca­cia in que­sti inter­ro­ga­tivi e prova ad annul­lare tanta falsa coscienza che si è impo­sta troppo fret­to­lo­sa­mente nel nostro dibat­tito. L’autore, Archie Brown, pro­fes­sore eme­rito all’università di Oxford, parte spie­gando che per com­pren­dere la lea­der­ship è fon­da­men­tale l’analisi del con­te­sto sociale, eco­no­mico e cul­tu­rale. Ciò per­mette di distin­guere diversi ambiti nei quali la lea­der­ship assume signi­fi­cati e valori diversi e aiuta a capire che sono spesso i grandi muta­menti, come le crisi, la povertà o le guerre, a far emer­gere un lea­der e non le sue pre­sunte virtù innate.
Lo stu­dioso si inca­rica di sfa­tare molti miti legati al ruolo del lea­der o, quanto meno, a evi­den­ziare la scarsa scien­ti­fi­cità di alcune tesi a par­tire da quella che ritiene il fat­tore lea­der deci­sivo nell’esito elet­to­rale. Citando molte ricer­che com­pa­rate su diversi paesi, Brown giunge alla con­clu­sione che que­sto assunto «è sem­pli­ce­mente sba­gliato». I dati, infatti, dimo­strano che ben altri fat­tori inter­ven­gono nella scelta degli elet­tori, orien­tan­dola in maniera deter­mi­nante. Certo, per­mane un’influenza del lea­der, ma quel che più conta resta il con­te­sto. Per­sino nei sistemi pre­si­den­ziali, dove per natura il voto è con­cen­trato sulla per­sona, l’enfasi sul lea­der andrebbe con­te­nuta come dimo­stre­reb­bero i casi di Ken­nedy e Obama, rite­nuti vin­ci­tori soprat­tutto per la loro per­so­na­lità. Per l’autore, infatti, il con­te­sto delle ele­zioni del 1960, quando Ken­nedy scon­fisse Nixon, e quello del 2008 nel quale Barack Obama pre­valse su McCain, era for­te­mente sbi­lan­ciato a favore dei Demo­cra­tici che, con ogni pro­ba­bi­lità, avreb­bero vinto anche con un altro candidato.
La parte più cor­posa del volume è dedi­cata alla clas­si­fi­ca­zione dei modelli secondo i quali è pos­si­bile cata­lo­gare la lea­der­ship poli­tica nell’età moderna. Una prima cate­go­ria pre­sen­tata è quella del rede­fi­ning lea­der, cioè di un lea­der in grado di porre in essere cam­bia­menti radi­cali senza però mutare il sistema poli­tico. Si tratta di casi nei quali il lea­der, dispo­nendo di mag­giori risorse poli­ti­che, può essere il motore di que­sto cam­bia­mento; tut­ta­via, spiega Brown, molto spesso il suc­cesso di que­sto tipo di lea­der è il pro­dotto di un’azione col­let­tiva. Rien­trano in que­sta cate­go­ria i casi di Frank­lin D. Roo­sel­vet, Lyn­don B. John­son e Mar­ga­ret Thatcher.
Un modello che spicca nelle pro­po­ste di Brown è quello della «lea­der­ship tra­sfor­ma­zio­nale». Con ciò egli si rife­ri­sce a quel tipo di lea­der­ship in grado di ope­rare un vero e pro­prio cam­bia­mento di sistema, poli­tico o eco­no­mico, sia per il pro­prio paese che, in casi più rari, per il con­te­sto inter­na­zio­nale. L’importante è che que­sto cam­bia­mento non sia vio­lento, come nel caso della lea­der­ship rivo­lu­zio­na­ria, sulla quale l’autore è più scet­tico. I casi pre­sen­tati come para­dig­ma­tici della lea­der­ship tra­sfor­ma­zio­nale sono quello di de Gaulle in Fran­cia, quello di Suá­rez nella Spa­gna post­fran­chi­sta, quello di Gor­ba­chev in Urss, quello di Deng Xiao­ping in Cina e quello di Nel­son Man­dela in Suda­frica. Pur con le varie dif­fe­renze, anche nei casi di lea­der tra­sfor­ma­zio­nali non bastano le qua­lità per­so­nali a spie­gare tutto. Cia­scuno di que­sti lea­der presi in esami si distin­gue, ovvia­mente, per aver messo in rilievo nei pro­cessi di muta­mento alcune carat­te­ri­sti­che per­so­nali più di altre, ma molto è dipeso dalle deter­mi­nate cir­co­stanze che hanno influito sugli esiti della loro azione.
Il modello di lea­der­ship di mag­gior suc­cesso, sostiene Brown, è quello del lea­der «debole» cioè colui il quale media con i suoi col­le­ghi, si con­sulta, ha un atteg­gia­mento aperto e valo­rizza il più pos­si­bile il plu­ra­li­smo. Un modello per­fet­ta­mente demo­cra­tico visto che la lea­der­ship forte è tipica dei regimi auto­ri­tari i cui casi citati, cioè Mus­so­lini, Hitler e Sta­lin, «sono l’apoteosi dell’illusione che ciò di cui l’umanità ha biso­gno sia un lea­der forte».
Il recu­pero di una dimen­sione col­le­giale è auspi­ca­bile, per Brown, non solo nelle sedi isti­tu­zio­nali ma anche nei par­titi che, più che pun­tare sui lea­der, dovreb­bero costruire con­senso su idee, valori e pro­grammi. Al con­tra­rio «i lea­der che cre­dono di avere un diritto per­so­nale a domi­nare il pro­cesso deci­sio­nale in diversi set­tori della poli­tica e che cer­cano di eser­ci­tare tale pre­ro­ga­tiva fanno un cat­tivo ser­vi­zio sia al buon governo che alla demo­cra­zia. Essi non meri­tano seguaci, ma critici».
Una lezione che qui in Ita­lia fati­chiamo a fare nostra.

Fonte: il manifesto 

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