La crisi è quel momento in cui il vecchio muore e il nuovo stenta a nascere. Antonio Gramsci

venerdì 30 ottobre 2015

Un imperativo Stato di necessità

di Massimiliano Guareschi
La guerra non è mai stata al cen­tro degli inte­ressi scien­ti­fici di Max Weber ed Émile Dur­kheim, i due foun­ding fathers della socio­lo­gia, nono­stante abbia impattato pro­fon­da­mente le loro bio­gra­fie. Durante la Prima guerra mon­diale, Weber pre­stò ser­vi­zio come diret­tore ammi­ni­stra­tivo di un ospe­dale mili­tare e par­te­cipò atti­va­mente al dibat­tito sulla con­du­zione del con­flitto, in par­ti­co­lare in rela­zione alla scelta di sca­te­nare la guerra sot­to­ma­rina «raf­for­zata». Sull’altro fronte, Dur­kheim pagò un pedag­gio pesante al con­flitto. Sui campi di bat­ta­glia della Grande guerra perse non solo il figlio André ma anche molti dei migliori allievi e col­la­bo­ra­tori, fra cui Robert Hertz. Una volta ini­ziate le osti­lità, di cui non avrebbe visto la fine, Dur­kheim si era impe­gnato in prima per­sona nel soste­gno allo sforzo bel­lico del pro­prio paese per ragioni legate alla sua pro­fonda ade­sione ai valori ter­zo­re­pub­bli­cani e non solo all’esigenza di dis­si­pare le accuse di scarso patriot­ti­smo che ine­vi­ta­bil­mente, nell’atmosfera di quei tempi, gra­va­vano su un ebreo di ori­gini alsa­ziane dal cognome ine­qui­vo­ca­bil­mente germanofono.
Tale impe­gno si con­cre­tizzò in Qui a voulu la guerre?, una ricerca di sto­ria diplo­ma­tica in tempo reale, con­dotta in col­la­bo­ra­zione con lo sto­rico Ernest Lavisse, sugli eventi che ave­vano con­dotto alla guerra e nella par­te­ci­pa­zione alle Let­tres à tous les fran­cais, una serie di mis­sive scritte da vari autori allo scopo di con­so­li­dare il fronte interno e la fidu­cia in una vit­to­ria sicura anche se non immi­nente, rac­colte in volume nel 1916. Fra que­ste due pub­bli­ca­zioni ne uscì una terza, La Ger­ma­nia al di sopra di tutto, scritta dal solo Dur­kheim, che imme­dia­ta­mente tra­dotta in ita­liano dall’editore Armand Colin viene oggi ripro­po­sta da Ara­gno (pp. 102, euro 12) con la pre­fa­zione di un auto­re­vole stu­dioso del socio­logi fran­cese, Mario Toscano.
Respon­sa­bi­lità imperiali
Se il fine di Qui a voulu la guerre? era dimo­strare, docu­menti alla mano, la respon­sa­bi­lità esclu­siva degli imperi cen­trali nello sca­te­na­mento delle osti­lità, La Ger­ma­nia al di sopra di tutto si pro­pone di sca­vare più a fondo, oltre la con­tin­genze degli eventi, per cogliere il motore che ha reso neces­sa­rio quanto era solo pos­si­bile. A parere di Dur­kheim, tale fat­tore è una par­ti­co­lare forma di coscienza col­let­tiva, a suo parere pato­lo­gica, ossia la men­ta­lità tede­sca. Per coglierne i tratti Dur­kheim non si affida a inda­gini ad ampio rag­gio ma si con­cen­tra sull’opera o, meglio, su un’opera (Poli­tik) di Hein­rich Trei­tschke, figura che, met­tendo il pro­prio potente impeto reto­rico al ser­vi­zio di una pro­spet­tiva che coniu­gava spi­rito rea­zio­na­rio e volontà impe­ria­li­stica, aveva gua­da­gnato un ampio seguito presso l’opinione pub­blica e le élite poli­ti­che tede­sche negli ultimi decenni dell’Ottocento.
A orien­tare Dur­kheim verso tale opzione non è una par­ti­co­lare stima per l’autore quanto l’idea che la sua opera si pre­senti come un distil­lato puro di quella men­ta­lità tede­sca di cui intende cogliere il segreto. In tal senso, Trei­tschke viene colto come una sorta di dispo­si­tivo col­let­tivo di enun­cia­zione, di ipo­stasi della coscienza col­let­tiva. Del suo pen­siero, infatti, viene detto che «è meno quello di un uomo che di una collettività».
Al cen­tro della men­ta­lità tede­sca, a parere di Dur­kheim, si col­loca l’idea della sepa­ra­zione dello stato dalla società. Si tratta di uno schema tipi­ca­mente hege­liano sem­pli­fi­cato e irri­gi­dito da Trei­tschke, in cui la società civile (o, meglio, la «società bor­ghese») si pre­senta come il luogo di inte­ressi par­ti­co­lari e di una con­flit­tua­lità che solo la tra­scen­denza dell’unità sta­tale può por­tare a sin­tesi. Tale posi­zione non poteva che incon­trare il rigetto da parte dell’organicismo dur­khei­miano, incline a fare dello stato una fun­zione della società. Ma la que­stione non è solo teorica.
L’attenzione di Dur­kheim, infatti, si indi­rizza nei con­fronti di quelle che ai suoi occhi appa­iono le con­se­guenze nefa­ste della scis­sione stato-società. Per Trei­tschke lo stato, per le fun­zioni che svolge e l’ambito in cui opera, si carat­te­riz­ze­rebbe per una morale com­ple­ta­mente diversa da quella asse­gna­bile agli indi­vi­dui. Poi­ché l’esistenza del popolo e della società dipende dallo stato, l’imperativo inde­ro­ga­bile che grava su quest’ultimo è quello dell’autoconservazione. Ma, nell’ambiente com­pe­ti­tivo dell’arena inter­na­zio­nale, l’unico modo che esso ha per con­se­guire tale obiet­tivo è la potenza, alla cui acqui­si­zione tutto deve essere subordinato.
Bar­ba­rie collettive
Qui, sta­rebbe, secondo Dur­kheim, la chiave per com­pren­dere come indi­vi­dui che presi sin­go­lar­mente pos­sono appa­rire civili e ragio­ne­voli pos­sano agire col­let­ti­va­mente in maniera bar­bara, come mostre­rebbe la deter­mi­na­zione nel volere la guerra, la vio­la­zione della neu­tra­lità del Bel­gio, l’irrisione dei trat­tati (pezzi di carta da strac­ciare, secondo l’ espres­sione del can­cel­liere Bethman-Holweg), i cri­mini di guerra (che, a onore del vero, durante la Prima guerra mon­diale non furono mono­po­lio esclu­sivo dei tedeschi).
Ma a que­sto punto, anche tenendo per buona la ver­sione dei fatti for­nita, si potrebbe osser­vare come que­gli stessi com­por­ta­menti che Dur­kheim attri­bui­sce alla pato­lo­gia tede­sca carat­te­riz­zas­sero anche la sua parte, ossia la Fran­cia o l’Inghilterra, in quanto potenze colo­niali. Se la frat­tura fra stato e società gli appare al cen­tro della men­ta­lità tede­sca non si può non rile­vare come una diversa oppo­si­zione, geo­gra­fica, resti sot­tesa al testo dur­khei­miano. Ci rife­riamo alla distin­zione fra ambito della società inter­na­zio­nale, dove val­gono le leggi della «civiltà», e que­gli spazi al di là della linea dello ius publi­cum euro­paeum, per citare Carl Sch­mitt, dove vige una dif­fe­rente «morale» e le pra­ti­che stig­ma­tiz­zate nei tede­schi diven­gono lecite e legit­time. Le colo­nie non sono assenti nel testo di Dur­kheim, e tut­ta­via la loro evo­ca­zione, in un paio di pas­saggi, non sem­bra gene­rare i dubbi che sarebbe lecito atten­dersi nel discorso uni­ver­sa­li­sta di Durkheim.
Ambi­zioni continentali
Da oltre un secolo, più o meno ogni gene­ra­zione di euro­pei si è tro­vata, a un certo punto, a fare i conti con il pro­blema della Ger­ma­nia. Con uno stato troppo forte per essere uno stato come gli altri ma allo stesso inca­pace di eser­ci­tare una fun­zione ege­mo­nica se non in ter­mini bru­tali e distrut­tivi. Ovvia­mente, la sto­ria non si ripete pedis­se­qua­mente. Un conto erano le ambi­zioni alla Wel­po­li­tik del Reich gugliel­mino, ben altra cosa i pro­getti di geno­ci­dio del Terzo Reich. Su un regi­stro ancora diverso si muove il fana­ti­smo ordo­li­be­rale della Bun­de­sre­pu­blik di Mer­kel, Schäu­ble e Schultz.
La chiave di let­tura for­nita da Dur­kheim per il «pro­blema Ger­ma­nia» del suo tempo, pur nella sua con­trad­dit­to­rietà, sem­bra get­tare luce su ulte­riori pas­saggi della sto­ria tede­sca, per esem­pio sul ter­ri­fi­cante zelo con cui buro­cra­zia ed eser­cito si impe­gna­rono durante il nazi­smo ad ese­guire qual­siasi ordine pro­ve­niente dall’autorità legit­tima. In ambito nazio­nal­so­cia­li­sta, tut­ta­via, lo stato già non ci appare al di sopra di tutto ma subor­di­nato ad altre istanze mobi­li­ta­trici e ordi­na­trici, segna­ta­mente la razza e il par­tito. E venendo al pre­sente, anche oggi il «pro­blema Ger­ma­nia» sem­bra avere a che fare con un «al di sopra di tutto», con un über alles che in que­sto caso assume le forme della tutela, costi quel che costi, di quell’ordine pro­prie­ta­rio a cui viene affi­data una fun­zione for­ma­trice, tra­mite la con­cor­renza, nei con­fronti delle rela­zioni non solo eco­no­mi­che ma anche sociali e poli­ti­che. Si tratta di quell’economia sociale di mer­cato su cui a lungo si è equi­vo­cato, cogliendo nel rife­ri­mento al sociale della for­mula un cor­ret­tivo del mer­cato anzi­ché una sua conseguenza.

Fonte: il manifesto 

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