La crisi è quel momento in cui il vecchio muore e il nuovo stenta a nascere. Antonio Gramsci

sabato 31 ottobre 2015

Dalla democrazia vuota alla democrazia piena

di Carlo Galli
La biblio­gra­fia inter­na­zio­nale sulla crisi della demo­cra­zia, ormai ster­mi­nata, si arric­chi­sce ora di tre volumi ita­liani, di dif­fe­rente impo­sta­zione e a vario titolo rivelativi.
Marco Revelli in un agile testo (Den­tro e con­tro, Laterza 2015, pp. 144, 14 euro) riper­corre la sto­ria di pas­sione della legi­sla­tura in corso, dalla non-vittoria del Pd al governo qui­ri­na­li­zio delle crisi poli­ti­che che l’hanno scan­dita, dalla pro­gres­siva per­dita di cen­tra­lità del Par­la­mento all’insediarsi, con Renzi, del popu­li­smo al potere, asse­diato a sua volta dal popu­li­smo esterno del M5S e impe­gnato, al tempo stesso, a lot­tare (ahimé, vit­to­rio­sa­mente) con­tro il lavoro, in ese­cu­zione della filo­so­fia eco­no­mica dell’euro.
Raf­faele Simone, invece, nel suo Come la demo­cra­zia fal­li­sce (Gar­zanti 2015, pp. 216, 17 euro), opera un’analisi a ritroso di più lungo periodo, e mostra la con­tro­fat­tua­lità della demo­cra­zia, il suo costi­tuire un dover-essere, un arti­fi­cio fon­dato sulla nega­zione di para­digmi natu­rali del pen­siero umano (come il prin­ci­pio di dise­gua­glianza, o quello del ricorso alla forza) e anche le con­trad­di­zioni che la inner­vano (fra le quali i para­dossi dell’uguaglianza e il peso del nesso sovranità/rappresentanza, per cui il popolo sovrano si spos­sessa della pro­pria sovra­nità quando dà vita all’istituto rappresentativo).
Sotto il peso di que­ste con­trad­di­zioni la demo­cra­zia crolla, impe­dendo l’esercizio vir­tuoso del civi­smo e della par­te­ci­pa­zione, che ne dovrebbe essere il fine, e tra­sfor­man­dosi nel regime della apa­tia poli­tica e della con­ti­nua richie­sta da parte dei pri­vati di bene­fici che il sistema pub­blico non può più elar­gire, con il con­se­guente sca­te­na­mento di una amo­rale logica indi­vi­dua­li­stica di breve periodo che si disin­te­ressa della poli­tica democratica.
A que­ste diverse feno­me­no­lo­gie ed ezio­lo­gie della crisi della demo­cra­zia si aggiunge ora il testo impe­gna­tivo e ambi­zioso di Gemi­nello Pre­te­rossi,Ciò che resta della demo­cra­zia (Laterza 2015, pp. 188, 20 euro), di taglio espres­sa­mente filosofico-politico. È un ten­ta­tivo di indi­vi­duare una radice di ener­gia poli­tica per la demo­cra­zia in crisi, che con­cede poco a molte ana­lisi super­fi­ciali e con­so­la­to­rie, e che non­di­meno ha una sua severa posi­ti­vità (cate­go­rie come otti­mi­smo e pes­si­mi­smo sono del tutto fuori luogo quando si fa ana­lisi teorica).
Il libro si muove fra Sch­mitt e Hegel, fra Haber­mas e Laclau, fra Hob­bes e Böc­ken­förde, fra Blu­men­berg e Butler, solo per citare alcuni degli autori con i quali Pre­te­rossi si confronta.
La tesi meto­do­lo­gica di fondo è che non si può par­lare di demo­cra­zia senza par­lare del pro­getto moderno, dello sta­tuto della ragione che lo domina, delle cate­go­rie che lo scan­di­scono — sog­getto, Stato, nazione, popolo, diritti -, e del loro rap­porto ori­gi­na­rio con il pen­siero reli­gioso, cioè della secolarizzazione.
Dal punto di vista sostan­tivo, poi, la tesi prin­ci­pale è che nes­suno dei con­cetti o delle cate­go­rie della demo­cra­zia (ma in realtà della filo­so­fia poli­tica moderna) può essere uti­liz­zato in modo sem­plice, astratto, disin­car­nato. Que­sta è una cri­tica rivolta alla scienza poli­tica, che opera con schemi for­mali vuoti, ma soprat­tutto al deci­sio­ni­smo (e Pre­te­rossi ha in mente pro­prio Sch­mitt, non le sue cari­ca­ture), dal quale può anche sca­tu­rire una ‘deci­sione per la demo­cra­zia’, ma col risul­tato che si trat­ter­rebbe di una demo­cra­zia infon­data, inca­pace di giu­sti­fi­carsi e di legittimarsi.
Lo stesso ‘vuoto’ di con­te­nuti potrebbe valere per le moderne teo­rie dei diritti, o per l’impresa volta a costruire il sog­getto alter­na­tivo al potere, il popolo — il rife­ri­mento a Laclau è evi­dente -. Il nichi­li­smo demo­cra­tico ha in sé la debo­lezza dell’artificialismo moderno ed è in fondo la mani­fe­sta­zione di quel pathos della tabula rasa con cui Hob­bes inau­gurò la ragione poli­tica moderna, potente ma contraddittoria.
L’ambizione di Pre­te­rossi è più com­plessa: pen­sare la demo­cra­zia, con i suoi con­cetti e le sue cate­go­rie, come un pro­cesso che trae i suoi con­te­nuti fuori da sé, da un’eccedenza logica e sto­rica, e che li fil­tra e li tra­sforma nel pro­prio dive­nire.
Dalla demo­cra­zia vuota alla demo­cra­zia piena, quindi; piena non di sta­tici ‘fon­da­menti’ (che sarebbe una solu­zione rea­zio­na­ria, tipica del fon­da­men­ta­li­smo occi­den­ta­li­sta) ma di vita plu­rale in movi­mento. Una vita che trae ener­gia da un resto non razio­nale e che lo rie­la­bora con­ti­nua­mente nella pro­pria imma­nenza aperta alla tra­scen­denza, tra­du­cen­dolo nella lin­gua demo­cra­tica: lin­gua viva se e quando non si chiude nei ger­ghi tec­nici ma si lascia attra­ver­sare dalla ric­chezza ori­gi­na­ria che la con­nota. Una tra­du­zione che quindi ha un’origine e un resto, entrambi vitali. Lo Stato, la nazione, il sog­getto, i pro­ta­go­ni­sti della ragione moderna, sono poli­tici pro­prio per­ché sono ‘uni­ver­sali par­ti­co­lari’, per­ché non si risol­vono nella ragione astratta ma si nutrono di con­cre­tezza sto­rica e pro­du­cono con­cre­tezza pro­get­tuale. Per­ché si nutrono di un ethos comune, di cre­denze col­let­tive, di sim­boli, di riti.
È chiaro qui un forte rife­ri­mento a Hegel e alla potenza del nega­tivo che è la radice della media­zione, alla sog­get­ti­vità che non è un dato ma una costru­zione poli­tica attra­verso il con­fronto e il con­flitto: il pas­sag­gio dall’Io al Noi non è il con­tratto ma lo costru­zione del sog­getto attra­verso la nega­ti­vità; fra la reli­gione e la lai­cità non c’è un salto ma una rie­la­bo­ra­zione; dall’autorità ai diritti si tran­sita non per la dedu­zione dall’Io astratto ma per una lotta poli­tica. Insomma, la demo­cra­zia fun­ziona se incor­pora un’eccedenza sto­rica, sim­bo­lica, reli­giosa, come motore della pro­pria vita; è la que­stione che Sch­mitt si era posto con la teo­lo­gia poli­tica e che oggi si pone l’ultimo Haber­mas che riflette sulla reli­gione e sulla poli­tica per andare oltre la demo­cra­zia come comu­ni­ca­zione discor­siva, e per arric­chirla attin­gendo la risorsa di senso del sacro.
Nel discu­tere in modo dif­fe­ren­ziato que­ste e altre posi­zioni Pre­te­rossi ci dice che la demo­cra­zia non è fatta solo di con­cetti e di norme ma vive di cul­tura poli­tica, popo­lare e di élite; che non è solo imme­dia­tezza, ma anche media­zione; che la sua auto­le­git­ti­ma­zione giu­ri­dica non è sospesa nel vuoto ma si nutre di sto­ria e di tra­scen­denza rein­ter­pre­tate, e rese pro­get­tual­mente nor­ma­tive per il futuro; che non è chiusa in sé ma si apre a un resto che è “ciò che resta” quando con­cetti e isti­tu­zioni sono stati colo­niz­zati e tra­volti da poteri non democratici.
Dalla vita­lità sto­rica della ragione demo­cra­tica così inter­pre­tata deri­vano con­se­guenze con­crete: ad esem­pio, che i diritti sociali non sono alter­na­tivi a quelli poli­tici e civili (la lesione degli uni non è com­pen­sa­bile con l’aumento degli altri). E deriva soprat­tutto la con­sa­pe­vo­lezza che la lotta con­tro la demo­cra­zia impo­li­tica, con­tro la tec­no­cra­zia, con­tro l’individualismo, non è vinta col ricorso alla demo­cra­zia iden­ti­ta­ria ma con l’attivazione di sog­get­ti­vità com­plesse, indi­vi­duali e col­let­tive, in un incro­cio di genea­lo­gia e di dialettica.

Fonte: il manifesto 

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